Enrico Grazzini , "il manifesto", 14 agosto 2012
In Italia nessuna forza politica o sindacale ha in agenda il sistema
di codeterminazione nelle aziende. E sui beni comuni si potrebbe riprendere
il modello Olstrom, affidandoli alle comunità locali
Secondo voi potrebbe accadere in Germania una tragedia come quella
dell'Ilva, in cui l'industria pubblica prima e quella privata poi inquinano
per decenni un'intera città imponendo ai lavoratori di scegliere
tra lavoro e salute fino al rischio di chiusura totale? Secondo voi potrebbe
accadere in Germania che la principale azienda automobilistica chiuda gran
parte delle sue attività produttive, butti fuori il sindacato che
non ci sta, e sposti la sua sede e il centro di ricerca all'estero di fronte
a un governo del tutto inerte? La risposta è abbastanza certa: no!
E la ragione è chiara. Valga un esempio per tutti: Volkswagen nel
suo consiglio di sorveglianza conta non solo i consiglieri dello stato
della Bassa Sassonia e degli azionisti privati ma anche metà dei
membri eletti dai lavoratori. Così il gigante tedesco, pur essendo
quotato in borsa come la Fiat, non può delocalizzare senza l'intesa
con i lavoratori, e ha potuto superare le fasi critiche solo con il loro
consenso. Il risultato è che Volkswagen domina il mercato mondiale
dell'auto, apre fabbriche all'estero senza licenziare in Germania, e che
i salari dei lavoratori crescono. È chiaro che la democrazia industriale
permette ai lavoratori tedeschi di difendere meglio l'occupazione, il reddito
e il potere sindacale; e consente anche di sviluppare produzioni ecologicamente
sostenibili (la Germania ha rinunciato al nucleare anche se il gigante
Siemens è leader del settore). Ma in Italia purtroppo la sinistra
politica, sindacale e intellettuale, che pure spesso mostra di ammirare
il "modello tedesco"" ignora la Mitbestimmung (che significa co-determinazione
aziendale e non partecipazione, parola troppo ambigua) e non ha neppure
in agenda le questioni strategiche della democrazia industriale. Eppure
la Mitbestimmung è il vero fattore decisivo (anche se volutamente
sottaciuto) che ha reso la Germania leader manifatturiera - e quindi finanziaria
e politica - nel mondo.
In pratica, da 60 anni (dal 1951) in Germania, nonostante la dura opposizione
della confindustria tedesca, tutti i lavoratori delle medie e grandi aziende,
iscritti e non iscritti al sindacato, hanno per legge un doppio diritto
di voto: da una parte eleggono i rappresentanti sindacali nel consiglio
di fabbrica; d'altro lato nominano i loro rappresentanti nel consiglio
di sorveglianza delle aziende, con potere co-decisionale per quanto riguarda
le strategie (acquisizioni, cessioni, fusioni, delocalizzazioni, outsourcing,
ecc), l'approvazione dei bilanci e la nomina del consiglio di gestione.
E non c'è complicità: i lavoratori non partecipano al capitale
e agli utili delle aziende. Ovviamente il modello di co-decisione presenta
molti rischi, soprattutto di corporativismo e di nazionalismo. Non è
la bacchetta magica, non è certamente il soviet e il socialismo.
Tuttavia a mio parere rappresenta un compromesso avanzato da considerare
positivamente perché aumenta il potere dei lavoratori e dei sindacati
di fronte ai capricci del capitale. I vantaggi della democrazia industriale
superano i rischi. Crediamo che anche in Italia, soprattutto oggi, quando
milioni di cittadini soffrono per le politiche governative di austerità
e recessione, e rischiano la perdita del lavoro e del reddito, i lavoratori
dovrebbero potere co-decidere sul loro presente e sul loro futuro. Questa
battaglia dovrebbe essere sostenuta da tutti quelli che hanno a cuore la
dignità del lavoro e delle persone. Del resto la democrazia economica
è già prevista dall'articolo 46 della Costituzione secondo
cui «la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare
alla gestione delle aziende».
La trasparenza e la partecipazione sono indispensabili anche contro
la corruzione e la criminalità economica, così diffuse in
Italia. Ma la necessità della democrazia economica ha radici ancora
più profonde: attualmente la proprietà delle aziende di grande
e media dimensione è quasi sempre in mano a società finanziarie
- banche d'affari, fondi pensione, hedge fund, fondi d'investimento, fondi
sovrani, ecc. - che hanno obiettivi di valorizzazione finanziaria di breve
termine. La speculazione finanziaria che sta rovinando le imprese e il
lavoro è però strettamente collegata al modello autoritario
anglosassone di corporate governance che premia solo gli azionisti e che
domina anche in Italia. Al contrario il modello tedesco di governo delle
imprese con la partecipazione dei lavoratori nel board garantisce più
facilmente continuità produttiva, occupazione, sviluppo e innovazione.
Non a caso le analisi dello European trade union institute, il centro studi
europeo dei sindacati, indicano che nell'Unione europea 12 paesi su 27,
soprattutto nell'area renana e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca
e Finlandia), hanno introdotto forme avanzate di co-determinazione: e questi
paesi sono anche quelli in cui si registra la maggior occupazione, più
reddito del lavoro, rapida innovazione, migliore sostenibilità ambientale
e maggiore potere sindacale. Non proponiamo quindi un'utopia illusoria,
ma semplicemente l'estensione dei diritti che i lavoratori hanno già
nel nord Europa anche in Italia.
L'economia policentrica
Elinor Ostrom, premio Nobel dell'economia purtroppo recentemente scomparsa,
ha proposto un'economia policentrica basata su tre pilastri: il settore
no profit dei beni comuni; il mercato competitivo; e il settore pubblico
per i beni di interesse nazionale.
Proponiamo che, per rendere più efficiente e meno costoso il
settore statale, i lavoratori e gli utenti possano eleggere i loro rappresentanti
negli organismi direttivi degli enti pubblici a tutti livelli. Contro la
gestione centralistica, verticistica e autoritaria delle istituzioni pubbliche
- gestione che alimenta la corruzione, lo spreco, il burocratismo e l'inefficienza
- auspichiamo il controllo decentrato da parte degli utenti e dei lavoratori:
il controllo dal basso deve però trovare adeguata rappresentanza
negli organi decisionali degli enti pubblici. Proponiamo inoltre che i
bilanci degli enti locali vengano discussi e approvati direttamente dai
cittadini mediante referendum (analogamente a quanto avviene per esempio
in Svizzera).
Per quanto riguarda i beni comuni - cioè le risorse socialmente
condivise, come l'acqua, Internet, l'ambiente, Wikipedia, le conoscenze
e l'informazione, le reti, la cultura, ecc - Ostrom ha dimostrato che possono
essere gestiti in maniera più efficiente e sostenibile dalle comunità
di riferimento: infatti le aziende private e gli stati sfruttano in maniera
forsennata i beni comuni ma sono quasi sempre inefficienti e premiano solo
pochi privilegiati. Inoltre la gestione privata e statale dei commons non
è ecologicamente sostenibile senza la partecipazione e il controllo
dal basso dei cittadini. Proponiamo quindi che i beni comuni vengano concessi
in proprietà a enti economici indipendenti dallo stato e dalle corporations
(come per esempio le fondazioni e le cooperative) che abbiano come obiettivo
non il profitto privato ma quello comunitario e sociale. Questi enti devono
essere gestiti e controllati democraticamente dalle comunità interessate.
I lavoratori della conoscenza
Esiste un altro importante fattore che spinge potentemente verso la democrazia economica: nell'economia della conoscenza è impossibile realizzare un'economia equa, innovativa, verde e sostenibile senza la partecipazione convinta ed intelligente dei lavoratori. I lavoratori della conoscenza, istruiti, con laurea e diploma, sono diventati prevalenti nelle società avanzate come l'Italia e potrebbero assumere un ruolo essenziale per la democrazia economica. Essi possiedono tutte le competenze culturali, tecniche e relazionali necessarie per gestire le attività produttive. Colpiti duramente dalla crisi economica, i knowledge worker hanno un interesse crescente a gestire i beni comuni, come Internet, e a cogestire le aziende private e pubbliche.
Conclusioni
La mia convinzione è che la democrazia economica sia una condizione
necessaria, anche se non sufficiente, per sviluppare la democrazia politica.
Questa visione può apparire però troppo radicale in Italia.
Confindustria, governi conservatori e neo-liberisti sono ovviamente contrari
a dare maggiore potere al lavoro. Ma anche la cultura comunista tradizionale
(non Marx) storicamente ha delegato al partito o al sindacato o allo stato
le riforme dell'economia, senza prevedere l'intervento democratico dei
lavoratori/utenti; e la cultura cattolica ortodossa ha sempre considerato
la partecipazione e la democrazia economica come forme di subalternità
verso gli imprenditori, senza alcun potere decisionale effettivo da parte
del lavoro (vedi per esempio il Patto del Lavoro proposto recentemente
dalla Cisl di Bonanni). La cultura socialista - che pure con le sue personalità
migliori e più eccentriche, come Morandi, Ruffolo e Panzieri, ha
talvolta proposto forme di democrazia economica dal basso - ha quasi sempre
ignorato le esperienze più avanzate del nord Europa; si è
spinta a promuovere le nazionalizzazioni delle industrie di base (senza
però co-determinazione dal basso) ma poi si è corrotta rapidamente
nel liberismo, come gran parte della cultura ex comunista. La mia proposta
appare scandalosa: ma vale la pena di aprire un ampio dibattito su come
iniziare a promuovere la democrazia nell'economia senza aspettare la presa
del Palazzo d'inverno e il socialismo realizzato.