di Claudia Girolomini, www.carmillaonline.com
[L'articolo che pubblichiamo è in realtà un capitolo
della tesi di laurea di Claudia Girolomini intitolata Immigrazioni e nuovi
razzismi a Bologna: il caso San Petronio (Facoltà di Scienze della
formazione, anno accademico 2001-2002). Tesi inedita, ma che meriterebbe
un editore. L'episodio che analizza non è né locale né
secondario. L'occupazione nel '98, da parte di un gruppo di immigrati,
della basilica bolognese di San Petronio fu un po' una cartina di tornasole.
Lasciando da parte l'adesione precoce della Curia a tesi che Oriana Fallaci
avrebbe poi reso popolari, il comportamento dell'amministrazione Vitali,
all'insegna del motto legge e ordine e teso a rassicurare i mitici ceti
medi, non solo le procurò le critiche persino del Gabibbo, ma disgustò
una larga fetta dell'elettorato di sinistra. Questa porzione della città,
quando si trovò a scegliere tra il sindaco Vitali e il suo oppositore
Guazzaloca, o si astenne o, addirittura, votò il secondo.
Cadde così l'amministrazione di sinistra apparentemente più
forte e longeva d'Italia, in un processo opposto a quello che ha portato
Nichi Vendola, due mesi fa, alla presidenza della regione Puglia. L'occupazione
di San Petronio non fu l'unico detonatore, ma certo fu uno dei più
importanti. A dimostrazione del fatto ormai assodato che, se la sinistra
si comporta come la destra per sedurne l'elettorato, va incontro a sconfitte
rovinose, perché perde il proprio. L'esempio recente di Tony Blair,
salvato solo dal fatto che gli avversari erano persino peggio di lui (e
ce ne vuole), qualcosa dovrebbe insegnare.] (V.E.)
L'otto novembre 1998 Bologna vede l'occupazione da parte di duecentocinquanta
immigrati di origine maghrebina (circa 30 famiglie) di uno stabile, in
cattive condizioni, di proprietà dello I.A.C.P. (istituto autonomo
case popolari).
Questa prima occupazione avvenne in seguito alla fallita ricerca, da
parte delle famiglie immigrate, di un alloggio migliore.
Le duecentocinquanta persone, tutte con regolare permesso di soggiorno
e con un lavoro, nonostante le numerose ricerche non erano riuscite a trovare
casa.
Ora erano lì, in quello stabile fatiscente, a rivendicare condizioni
di vita più umane e dignitose.
Con questo gesto le famiglie occupanti, oltre che assicurare ai bambini
un "tetto sopra la testa", volevano portare l'attenzione del Comune di
Bologna sul loro problema abitativo: perché nonostante i sacrifici,
il lavoro duro (in gran parte lavoravano nelle fabbriche dell'hinterland
bolognese), nonostante le loro condizioni sociali il comune non garantiva
loro un alloggio? Perché a Bologna gli affitti sono così
cari? Perché solo pochi privati sono disposti ad affittare, solo
a prezzi altissimi, un appartamento ad un immigrato?
La prima risposta istituzionale fu la denuncia in questura da parte
del presidente dello I.A.C.P., la quale ebbe come diretta conseguenza un
tentato sgombero da parte della polizia.
Ciò su cui si soffermarono maggiormente i giornali fu il gesto
disperato, definito "atto d'inciviltà" ("La Repubblica", 11/11/1998),
di un padre che, nei drammatici momenti in cui la polizia forzava i portoni
d'accesso dello stabile dando inizio allo sgombero, espose suo figlio fuori
dalla finestra.
Sicuramente questa è un'azione estrema, agita in un momento
di stress e forse un disperato tentativo di fermare la polizia, certamente
è un fatto grave, ma in ogni caso non può essere considerato
il segno di un'indole malvagia innata o come atteggiamento culturale. Diciamo
questo perché così scriveva un giornalista:
Loro, gli occupanti, per la verità non nuovi a questo tipo di
risposte ad ogni minaccia di sgombero- un comportamento che pare «ritualizzato»,
già visto anche durante un'azione analoga in Via don Minzoni - dicono
di essere disperati (...)
"II Resto del Carlino" per svariati giorni pose a tutti i sui lettori
questo quesito "Assolvete o condannate questo padre?" Questa rubrica è
stata posta in prima pagina per parecchi giorni con la foto del padre e
del bambino in questione (con tanti saluti alla legge sulla tutela dei
minori) e, accanto a questa, erano pubblicati, oltre che i risultati del
sondaggio, anche alcuni stralci di lettere, solo contrarie al gesto, molte
delle quali inneggiavano alla pena di morte per persone che commettono
simili atti.
Oltre alla mancanza di quella sensibilità che pensiamo sarebbe
d'obbligo avere quando avvengono fatti come questi, quello che salta agli
occhi è l'assenza d'informazioni che contestualizzino gli avvenimenti.
Inizialmente, tutti i giornali parlarono genericamente di "padri",
come se il gesto fosse stato commesso da più persone, mentre l'episodio
è stato agito, come si capirà leggendo anche le cronache
dei giorni successivi, da un solo padre.
Non una parola sulle cause reali che hanno spinto questo genitore a
compiere un gesto simile, nulla vi era scritto su come procedeva l'occupazione
né' tantomeno delle radici sociali di questa, non ci si soffermava
sul totale disinteresse sulla questione da parte del Comune.
Dalle pubblicazioni della stampa locale è subito chiaro come
siano stati usati due pesi e due misure nel valutare il comportamento degli
immigrati da una parte e quello delle istituzioni dall'altra.
Nessuna parola viene spesa per criticare le istituzioni locali che
permettono che dei bambini dormano in un'automobile o nei cartoni, senza
offrire loro un'alternativa.
Non viene approfondito il problema, non vengono nemmeno presentate
opinioni articolate, ma si presenta l'evento nel modo più spettacolare
possibile, si usa la notizia in maniera strumentale per far nascere la
paura degli immigrati rappresentati come nuovi mostri,
senza connotazioni umane, al punto di essere capaci di buttare un bambino
dalla finestra.
Chi non ha dubbi sull'indole sicuramente criminale di questo gesto
è il presidente dello I.A.C.P. che chiese che questo genitore venisse
incriminato per tentato omicidio.
La sete di vendetta venne placata dall’allora assessore alle politiche
sociali, Lalla Golfarelli, che svolse denuncia alla Procura e al Tribunale
per i Minori: questa fu la risposta iniziale da parte del Comune.
Questa prima occupazione vede la solidarietà di alcuni gruppi
della sinistra bolognese.
Il 12 novembre, alle 6,30 del mattino, avviene lo sgombero definitivo:
gli occupanti sono svegliati "a mazzate contro le porte" (La Repubblica,
13/11/98) da circa duecento poliziotti, vorrei ricordare che gli occupanti
erano circa duecentocinquanta compresi moltissimi bambini.
Gli immigrati sono costretti a uscire dagli alloggi con i materassi
ammucchiati sull'asfalto.
Un egiziano di 52 anni viene portato in questura dove sarà denunciato
per resistenza a pubblico ufficiale.
Questo il suo racconto ad un giornalista de La Repubblica:
«Mi hanno picchiato senza pietà. La polizia è entrata
in casa sfasciando la porta, io ero sul letto e ho abbracciato mio figlio
per la paura. Forse hanno creduto che volessi fargli del male, e così
mi sono saltati addosso. E in questura un agente mi ha sferrato un pugno
in faccia» (La Repubblica 13/11/98)."Ha il volto pieno di lividi,
sangue secco sul naso, un polso gonfio"
così continua il giornalista. (La Repubblica, 13/11/98)
Secondo la Digos l'egiziano avrebbe aggredito i due uomini in divisa,
ferendoli. Nasce spontanea una domanda: come fa un uomo con il figlio in
braccio ad aggredire così violentemente due uomini protetti da scudi
e caschi e con manganello in mano?
Nel frattempo numerose persone arrivano in solidarietà con gli
immigrati: soggetti singoli, gruppi della sinistra bolognese, alcuni rappresentanti
di Rifondazione Comunista. C'è la volontà di non lasciarli
soli, di solidarizzare con gli immigrati; si vuole rendere visibile un
problema che non riguarda solo loro, si vuole ricordare che la casa deve
essere un diritto, non un privilegio.
A pochi passi dall'immobile c'è l'assessora alle politiche sociali,
in pochi la vedono, resta nell'ombra perché la decisione è
unanime: «niente trattative» come dice lei stessa (II Resto
del Carlino,13/11/98).
Nessuna carica istituzionale va a parlare con gli occupanti, nessuno
si preoccupa di dove passeranno la notte, relegano un problema sociale
a problema di ordine pubblico di competenza della polizia.
Ci sono ancora scontri, due donne svengono per il freddo, poi finalmente
riescono a fare un corteo fino al Palazzo comunale, dove le speranze di
una delegazione si sbriciolano contro il «no » secco dell'assessore
al patrimonio, Laura Grassi, la quale risponde a una
richiesta d'incontro: «Questa notte? Dormirete dove eravate tre
giorni fa».
Le istituzioni negano qualsivoglia possibilità di confronto
e di dialogo nel timore che ciò legittimi la pratica delle occupazioni
delle case sfitte, che a Bologna sono a migliaia, a fronte di un bisogno
abitativo sempre più drammatico.
In altre parole, si nega ogni riconoscimento politico alla lotta degli
immigrati, che viene ridotta ad un problema di delinquenza comune e come
tale da reprimere e denigrare a mezzo stampa.
La situazione non è certo migliore nel caso della posizione
assunta dalla sinistra istituzionale e sindacale: i Democratici di Sinistra,
solidali con la giunta Vitali, restano assenti dalla scena; la CGIL manda
un proprio funzionario a parlare con gli immigrati, ma con il solo scopo
dei tentare di convincerli ad abbandonare la lotta e di mettere la questione
nelle mani del sindacato.
Il Partito della Rifondazione Comunista, tradizionalmente assente dalle
tematiche legate all'immigrazione e timoroso di esasperare i rapporti con
la Giunta, evita di mobilitare in piazza i propri aderenti a sostegno degli
immigrati. Solo alcuni, a titolo personale, solidarizzano con gli immigrati.
Il principale interlocutore politico degli immigrati è il Comitato
"Senza Frontiere", formazione della sinistra extra-istituzionale, che dal
1989 a oggi si è costruita un percorso d'internità alle lotte
per la casa espresse dagli immigrati.
A fianco del Comitato "Senza Frontiere", a sostegno di questa lotta,
si muovono altre sigle della sinistra extra-istituzionale bolognese, e
diverse centinaia di singoli cittadini.
Tuttavia, appare evidente la situazione di sostanziale isolamento politico
in cui viene sospinto il movimento a fronte della risposta puramente repressiva
delle istituzioni.
A questo punto agli immigrati appare chiara l'esigenza di trovare il
modo di imporre alla Giunta Comunale l'apertura di un confronto-trattativa.
E' così che matura l'idea di occupare simbolicamente, per 24
ore, la Basilica di san Petronio, evento che immancabilmente sortisce l'effetto
di modificare i rapporti di forza in favore degli immigrati.
Alle tre del pomeriggio diverse famiglie entrano nella chiesa e vi
rimangono fino a che, il giorno successivo, il Comune trova una soluzione,
per quanto squallida e provvisoria sia, ovvero la concessione a termine
delle ex-scuole di via del Pallone.
La Basilica di san Petronio è un simbolo importante del potere
politico e religioso della curia locale, ma anche simbolo culturale di
riferimento della coscienza cattolica di molti cittadini bolognesi.
L'occupazione diventa, quindi, un evento a carattere nazionale, la
notizia verrà data da tutti i telegiornali.
Per tutta la notte, nell'antistante Piazza Maggiore, il movimento di
solidarietà con gli immigrati andrà ingrossando le proprie
fila, dando vita ad improvvisate performance musicali ed altri spettacoli.
I ricordi tornano ai sans-papiers parigini, anche loro si erano rifugiati
in una chiesa per lottare in nome di condizioni di vita dignitose. La differenza
però sta nel fatto che i parroci francesi aprirono le porte delle
chiese, tanto che persino il papa invitò il governo francese a risolvere
con urgenza il problema degli immigrati, mentre a fronte dell'occupazione
bolognese piombano parole, da parte della curia, che inneggiano a nuove
crociate religiose.
Occorre precisare che, malgrado la totale chiusura da parte dei rappresentanti
ufficiali della Chiesa, moltissimi cattolici di base risposero in modo
solidale con gli immigrati, fornendo loro anche mezzi di prima necessità.
E' il caso del presidente della Caritas diocesana Giovanni Nicolini che
si mette a fianco degli immigrati, criticando il comportamento della Giunta,
per aver sgomberato gli immigrati da via delle Rimesse, e ponendosi in
disaccordo con la Curia permettendo agli occupanti di restare nella Basilica.
Quella di Nicolini è un'importante voce fuori dal coro nel panorama
cattolico cittadino, apecialmente quando respinge con forza l'idea di profanazione,
espressa invece dal cardinale Giacomo Biffi e dal vescovo ausiliario Ernesto
Vecchi. Anche se, poi, nei giorni successivi smentirà una possibile
divergenza con la curia, Nicolini sostiene, subito dopo 'occupazione: «Non
si può spendere facilmente questo termine, "profanare una chiesa"
ha un significato ben preciso, noi non ci siamo sentiti invasi, non c'era
nessuno da buttare fuori.» (La Repubblica, 14/11/98).
La posizione ufficiale della curia bolognese è ben diversa,
in un comunicato la curia giudica l'occupazione della basilica di san Petronio:
«un atto grave perché - quali che siano le motivazioni degli
Occupanti - oggettivamente ferisce il sentimento religioso e civico dei
bolognesi».
Dov'è finita la carità cristiana? Dove sono le parole
di conforto per le persone in condizioni disagiate? Sono finiti i tempi
in cui le chiese erano un simbolo di accoglienza? Sfollati, senza casa
vi hanno trovato riparo durante la seconda guerra mondiale, ma ora ciò
disturba le coscienze dei cittadini bolognesi, perché? Perché
sono musulmani? Perché hanno la pelle nera?
Dure parole di condanna arrivano anche dal vescovo ausiliario Ernesto
Vecchi, il quale riconosce che gli immigrati hanno avuto un comportamento
corretto all'interno della Basilica, ma, comunque, non può accettare
per nessun motivo ciò che è avvenuto, infatti, dice in un'intervista:
«E' stato compiuto un atto di violenza verso il nostro massimo tempio
cittadino e questo è intollerabile», sostiene che l'occupazione
è stata quasi una profanazione: «San Petronio era un luogo
in cui i bolognesi potevano trovarsi sempre e comunque nel rispetto dei
valori più alti. Ieri e oggi questo non è potuto succedere
(...) Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se dei cristiani avessero fatto altrettanto
in una moschea. Questo mi chiedo.» Queste affermazioni del vescovo
Vecchi suscitarono un acceso dibattito, sulle cronache locali dei giornali
per diverse settimane si succedettero prese di posizione dei lettori in
sostegno o contro di esse; tale dibattito interessò particolarmente
l'area cattolica dell'opinione pubblica.
A nostro avviso il discorso di Vecchi è intrinsecamente razzista,
nella misura in cui cancella la matrice sociale della lotta in corso per
deviare
l'attenzione su un preteso scontro tra religioni derivante dalla "profanazione"
della Basilica ad opera dei "musulmani". Ecco allora che lo spettro dei
musulmani violenti torna ad aleggiare nelle coscienze. In fondo, sembra
voler dire il vescovo ausiliario, "noi" cattolici e occidentali siamo stati
civili (ma non si preoccupa di stigmatizzare la carica che la polizia ha
sferrato all'inizio nel tentativo di allontanare gli immigrati).
Parole di condanna sono lanciate anche verso chi ha solidarizzato con
gli immigrati: «Questi hanno tutto a casa loro, sono figli di papa.
Quegli immigrati sono stati pilotati da gente della nostra terra».
Il giorno dopo la fine dell'occupazione il cardinale Giacomo Biffi condanna
il fatto definendolo: «Grave e intollerabile» distinguendo
ancora una volta i «sobillatori di professione» dai «poveracci»,
cioè gli immigrati.
Dalle parole del cardinale Giacomo Biffi, come da contemporanee e analoghe
prese di posizione del sindaco Walter Vitali e altrirappresentanti istituzionali,
possiamo dedurre un primo sostanziale elemento di novità indotto
dall'occupazione della basilica: gli immigrati, per quanto pur sempre esecrati,
ora non vengono più additati come mostri e delinquenti comuni, ma
si preferisce spostare il bersaglio del fuoco polemico sui sobillatori
di professione dell'estrema sinistra bolognese.
Gli immigrati, anche se diventati un'ingenua massa suscettibile a farsi
manovrare politicamente, vengono riconosciuti come soggetti portatori di
bisogni reali, fatto fino ad ora negato.
Si può quindi affermare che l'occupazione di san Petronio ha
sortito l'effetto desiderato, ovvero modificare i rapporti di forza in
favore degli immigrati, che riescono, ora, ad imporre la loro legittimazione
come soggetto sociale, politicamente organizzato e capace di r ivolgersi
al potere amministrativo della città per esprimere il proprio bisogno
primario della casa.
Come si vedrà in seguito, il caso san Petronio rappresenta un
evento spartiacque gravido di conseguenze, anche per il Comitato "Senza
Frontiere".
La forza di quest'azione di lotta è talmente propulsiva da costringere
la Giunta a cambiare strategia d'attacco: già a livello semantico
gli immigrati si conquistano definizioni se non benevole almeno comprensive,
mentre per i militanti italiani arrivano i guai.
E' evidente che ormai, di fronte all'ovvia impossibilità di
continuare a negare la natura sociale della lotta degli immigrati, la Giunta
Vitali ripiega sul tentativo di dividere il fronte di lotta e fomentare
la divisione tra italiani sobillatori e stranieri strumentalizzati per
loschi fini eversivi.
Walter Vitali più volte, rilasciando dichiarazione ai quotidiani,
punta il dito sul Comitato "Senza Frontiere". Nel sostenere l'assenza di
dialogo con chi chiede una casa sostiene: «Niente mediazione. Non
possiamo premiare né chi occupa né chi specula sulla pelle
della povera gente come il Comitato Senza Frontiere » ("La Repubblica",
13/11/98) e ancora il sindaco condanna l'occupazione sostenendo: «Si
tratta di una grave azione politica organizzata da un gruppo denominato
Comitato Senza Frontiere, azione fatta sulla pelle della povera gente »
("II Resto del Carlino", 13/11/98)
Da lì a poco si aprirà un'inchiesta che ipotizzerà
il reato di associazione a delinquere nei confronti di questi registi occulti,
ovvero gli aderenti al Comitato "Senza Frontiere".
Nonostante il freddo e il buio, poiché la curia si rifiuta di
accogliere gli occupanti e si rimette alla questura, gli immigranti rimangono
lì e dicono all'Italia intera che "Stanno cercando un diritto",
che non vogliono la carità o piaceri da nessuno, ma solo una casa.
Le istituzioni rispondono che loro una casa l'hanno già o l'hanno
rifiutata in precedenza. Il sindaco dichiara: «Dietro questa occupazione
non c'è chi ha davvero bisogno di una casa. » ("La Repubblica",
13/11/98).
Addirittura su "L'Unità" compare un articolo che porta il titolo:
«"Senza casa" possiede un albergo» ("L'Unità", 19/11/1998),
secondo cui, tra gli immigrati che sono stati trasferiti in via del Pallone,
c'è anche una donna marocchina che possiede il 49% di un albergo
in provincia.
Perché allora queste famiglie avrebbero lasciato le loro confortevoli
dimore sfidando il freddo di quei giorni per trasferirsi prima in case
malsicure, poi in una chiesa?
In un'intervista Giovanni Mottura, allora presidente dell'ISI (istituto
servizi per l'immigrazione) sostiene che per le famiglie di stranieri esiste
un'emergenza-casa:
Per un bimbo italiano che dormiva in stazione, qualche mese fa, si
è scandalizzata una città. Questi bimbi, invece, sembrano
invisibili (...) I bambini degli immigrati andranno a scuola. I loro genitori
saranno nostri vicini di casa. Se un comune non governa per tempo i problemi
della convivenza, finisce per doverli affrontare come emergenze, sbagliando.
O per lasciare il disagio in mano ai cosiddetti "sobillatori" che in realtà
fanno politica, approfittando dei varchi che trovano (...) trovo sbagliato
raccontare balle. Convincere gli immigrati ad uscire dalla chiesa dicendo
andrete in un posto decente, e poi metterli in un posto sporco, freddo
con le finestre rotte.
In un convegno, organizzato dalla Fondazione CARISBO, svoltosi il 28
dicembre di quell'anno, dal titolo "I mille esclusi della città
nascosta" sono stati presentati i risultati di una ricerca sulla
marginalità causata dalle difficoltà di vita nella città
di Bologna.
In quest'occasione, l'assessore alle politiche sociali s'impegna ad
aprire una consulta sull'esclusione, ma se si va a leggere il volume, riguardante
la ricerca, si scopre che gli immigrati non sono inclusi nell'analisi dell'emarginazione
a Bologna.
Come si fa a parlare d'integrazione quando il problema non viene riconosciuto
a livello istituzionale nemmeno all'interno di una analisi in cui gli immigrati
dovrebbero entrare a pieno titolo?
Questo sottolinea, ancora una volta, come sia stata carente la politica
riguardante l'integrazione dei soggetti immigrati. Quando i conflitti sociali
scoppiano si sbriciola il muro di cartone della finta integrazione; quando
dei soggetti rivendicano uno dei diritti fondamentali finiscono le parole
sulla convivenza e invece, ecco apparire quelle che inneggiano ad uno scontro
tra culture.
Sono tantissimi gli articoli, esternazioni, accuse e denunce per l'uso
strumentale dei bambini nella vicenda, per 1'"incoscienza" con cui gli
immigrati avrebbero coinvolto e messo in pericolo la salute fisica e psichica
dei minori.
Si accusa di aver fatto trascorrere ai bambini una notte al freddo,
di averli trascinati in situazioni di pericolo, di non provvedere ai loro
bisogni.
Nessuno però ha posto l'accento sul fatto che i bambini hanno
trascorso la notte al freddo e al buio, all'interno della basilica, perché
solo in tarda notte la curia ha deciso di accendere il riscaldamento e
di fornire la corrente elettrica.
Gli occupanti, bambini compresi, hanno mangiato e si sono riscaldati
con cibo e con coperte che sono stati portati loro grazie alla raccolta
spontanea di associazioni e gruppi politici, non certo per merito della
giunta comunale.
Non una parola di critica al comportamento della giunta comunale che
ha sgomberato gli immigrati dallo stabile di Via Rimesse, senza fornire
loro una sistemazione alternativa; nessuno ha gridato allo scandalo quando
l'unica soluzione trovata per gli occupanti è stata la sistemazione
nella sudicia e mal riscaldata ex-scuola di via del Pallone.
In un articolo apparso su "L'Unità" viene chiesto il parere
di una psicologa, tale Anna Oliverio Ferraris, sul trattamento, in questa
vicenda, dei bambini da parte degli immigrati. La psicologa sostiene:
Anche in Europa si commettono abusi sui bambini, ma almeno il punto
di vista ufficiale ha raggiunto obiettivi importanti, riconoscendo il diritto
dei più piccoli ad essere protetti (...) Queste consapevolezze non
sono invece state ancora raggiunte da culture che hanno seguito altri percorsi,
come quella africana o O asiatica. Altre culture che possono dirsi pre-moderne.
Insomma chi appartiene a culture, generalizzate dalla psicoioga, come
quella africana o quella asiatica è portata a non rispettare i bambini.
Una semplice esternazione che trasuda di etnocentrismo: la cultura occidentale
è quella avanzata, quella che ha rispetto per i minori, le "altre",
tanto uguali da essere generalizzabili, sono quelle "incivili", ancora
indietro rispetto ad una consapevolezza sull'infanzia. Non si critica il
singolo comportamento, non si fa un'analisi sul perché alcuni genitori
decidano di occupare degli edifici con i loro figli.
Ciò che si legge in questo articolo è chiaro: tutta la
vicenda è dovuta alla cultura pre-moderna degli immigrati, non serve
indagare sulle condizioni di vita delle persone in questione, analizzare
le difficoltà in cui s'imbatte un immigrato quando arriva in Italia.
Vicino a questo articolo, nella pagina del giornale viene posta una
foto raffigurante una madre e un bambino coinvolti nella vicenda con sotto
questa didascalia: «Una madre e un bambino coinvolti loro malgrado
nella vicenda ».
Chi ha intervistato quella madre? Come si può affermare che
quella donna era stata trascinata in una vicenda contro la sua volontà?
Sono state proprio le donne immigrate le più determinate a continuare
la lotta, anche di fronte alle violenze delle autorità; sono loro
che hanno deciso di non arrendersi il giorno dello sgombero e di formare
un corteo per arrivare in Piazza Maggiore. In quei giorni le donne coinvolte
hanno rilasciato dichiarazioni ai giornali, hanno parlato nelle assemblee
e hanno sempre rivendicato la lotta.
Purtroppo dagli articoli di giornali questa forza e questo coraggio
non risultano, la loro identità viene spesso negata, infatti, quasi
mai vengono chiamate donne, ma quasi sempre mogli.
Su "II Resto del Carlino" appare il titolo: «Dopo lo sgombero
le mogli degli abusivi si scagliano contro le forze dell'ordine al grido
"Allah è grande"» ("II Resto del Carlino", 13/11/1998) .
L'immagine che se ne trae è quella di donne-kamikaze che si
scagliano contro il potere costituito in nome di Allah. Così racconta
un giornalista: «Le donne sono infuriate, invocano Allah e trovano
le forze per lanciarsi contro gli schieramenti di polizia e carabinieri.
L'attacco è violento, la risposta è decisa. E a rimetterci
sono ancora i bambini, "usati" come scudo. Due piccoli devono ricorrere
alle cure per dei lividi che segnano ancora di più dei faccini impauriti
e stanchi.»
Ecco come una donna spiega cosa l'ha spinta a prendere parte all'occupazione:
«io vengo dall'Egitto, ho dormito in giro, in una Panda, mi hanno
sgomberato da Via Mattei, ho chiesto continuamente come un cane una casa,
agli stranieri non affittano » ("La Repubblica", 13/11/98).