Gordiano Lupi, Almeno il pane, Fidel. Cuba quotidiana nel periodo speciale, Stampa Alternativa, 2006, pp. 194, € 10,00
Valerio Evangelisti, "Carmilla on line", 5 febbraio 2007
Dico subito che il libro che vado a recensire è comunque utile
e ben scritto, al di là di alcune osservazioni che mi permetterò.
Si tratta di un reportage su Cuba nelle forme di una guida per eventuali
visitatori dell’isola. In effetti, vi vengono presi in considerazione molti
aspetti della vita dei cubani, dalla religione all’alimentazione, dalla
cultura all’ “arte di arrangiarsi” del popolo minuto, con dovizia di informazioni.
Gordiano Lupi ha percorso più volte Cuba in lungo e in largo, tanto
da avere sposato una donna cubana (che a quanto pare, dopo l’uscita di
questo libro, si è vista negare il visto per il ritorno).
Gordiano Lupi si definisce “uomo di sinistra”, e non vedo perché
non credergli. Parla del suo libro come di una sorta di appello alla sinistra
perché apra gli occhi sulla dittatura di Fidel Castro, oggi passata
nelle mani del fratello di questi, Raúl. Si richiama a una fase
incontaminata della rivoluzione, successivamente tradita e stravolta. Soprattutto,
nega che la libertà possa giungere ai cubani nelle forme di un intervento
statunitense: solo una ribellione interna potrebbe abbattere o modificare
efficacemente il regime. Non sono, obiettivamente, le posizioni di un gusano
(il nomignolo dispregiativo – “vermi” - dato agli esuli cubani a Miami).
Io non sono mai stato a Cuba, se non quale scalo aereo. Non dubito,
però, della natura autoritaria del suo governo, modellato sul cosiddetto
“socialismo reale”, anche per via di un episodio marginale. A metà
degli anni Ottanta ero abbonato a due quotidiani cubani, Granma (non l’edizione
settimanale, che è un po’ una vetrina rivolta al pubblico straniero)
e Juventud Rebelde. Li leggevo non per un interesse specifico verso Cuba,
quanto per i notiziari relativi ad altri paesi dell’America Centrale che
mi importavano di più.
Ebbene, in quel periodo fu arrestato all’Avana un dissidente, fondatore
di un piccolo comitato per i diritti civili, in contatto con l’ambasciata
degli Stati Uniti. Granma (il quotidiano, ripeto) uscì con due pagine
incredibili piene di foto. In esse, l’ex maestra elementare dell’accusato
spiegava quale pessimo bambino fosse stato a scuola; l’ex compagno di banco
confermava che faceva la spia; un vicino di casa raccontava molestie private;
ecc. Un linciaggio in pieno stile stalinista, in un’epoca, si badi, in
cui l’Urss aveva abbandonato simili sistemi. La cosa mi disgustò
molto più del “processo Ochoa”, con il quale si dice, e dice Lupi,
che Fidel Castro volle liberarsi dei generali della “vecchia guardia” che
avevano combattuto in Angola (ma le accuse di corruzione nei loro confronti
non erano affatto infondate; semmai fu sproporzionata la pena della fucilazione
con la quale furono punite).
Ho fatto questa premessa per dire che guardo a Cuba con “spirito laico”,
non essendo mai stato un ammiratore del modello, e con lo stesso spirito
accolgo gran parte dell’invettiva di Lupi contro le politiche di quel governo
e le sua conseguenze: microcorruzione diffusa, povertà di parte
della popolazione (specie nelle campagne), censura, privilegi odiosi riservati
agli alti papaveri, ecc. Sono dati che colgono parecchi viaggiatori che
si recano sul posto senza seguire gli itinerari tradizionali dei turisti
(tra tutti, il compianto Enzo Baldoni).
Tuttavia, in ciò che Lupi scrive scorgo anche alcuni limiti
piuttosto gravi (e uno che terrò per ultimo, più di altri,
gravissimo). Giustamente, il sottotitolo del libro fa riferimento al “periodo
speciale”, poi però non spiega molto le ragioni dell’emergenza.
Il fatto è che ciò che accadde nel 1989, con il crollo dei
Paesi dell’Est europeo, ebbe su Cuba conseguenze catastrofiche. L’intero
sistema di relazioni di scambio in cui era inserita venne meno nell’arco
di pochi mesi. Le risorse energetiche a cui aveva accesso a prezzi politici
diventarono di colpo carissime. I mercati in cui esportava si chiusero.
Sparirono le fonti dei pezzi di ricambio, i rapporti di assistenza tecnica,
i canali di commercializzazione della canna da zucchero e delle altre produzioni
locali. Un disastro, molto peggiore delle ricadute dell’embargo pluridecennale
decretato dagli Stati Uniti.
A quel punto il governo cubano, oltre a stringere all’inverosimile
la cinghia (in ciò senza dubbio aiutato dalla propria struttura
autoritaria), puntò tutto sull’unica risorsa che gli rimaneva: il
turismo. Non può meravigliare, dunque, che vengano create le aree
privilegiate per turisti che Lupi depreca; che sorgano, come nell’ex Urss
e in tanti Paesi dell’Est, come nel Nicaragua sandinista, grandi magazzini
zeppi di merci riservate agli stranieri, certo odiosi agli occhi della
popolazione locale (si pensi a cosa capita ai Magazzini Gum ne Il maestro
e margherita di Bulgakov) ma indispensabili per ottenere la valuta pregiata
di cui c’è vitale necessità; che in qualche modo si incoraggino
i cubani a rimpolpare i loro salari sempre più insufficienti con
piccoli servizi all’industria turistica (tipo la maestra elementare che
guida un taxi); che si giunga persino a tollerare, per un certo tempo,
il dilagare della prostituzione.
Ciò non giustifica corruzione diffusa e autoritarismo, però
se non si parte dal dato centrale, e cioè il pericolo di morte di
un’intera economia, tutta la restante descrizione rischia di limitarsi
all’epifenomeno. In questo senso, Lupi vanta, in parte a buon diritto,
di avere frequentato i settori più umili della società cubana
e di avere evitato (qui polemizza con Gianni Minà, con Oliver Stone,
con Maradona e altri) i palazzi del potere e dell’ufficialità. D’accordo,
però forse in ambienti meno marginali avrebbe potuto cogliere la
sorta di patto – sicuramente unilaterale – stretto tra i governanti di
Cuba e i loro cittadini: noi vi chiediamo un periodo di sacrifici inauditi,
ma in cambio vi promettiamo che salvaguarderemo una serie di servizi essenziali,
nel campo della salute, dell’educazione, dei beni essenziali, ecc. Di tanto
in tanto Lupi deve ammettere che il patto (da lui non percepito come tale)
ha funzionato, e si trova a lodare con riserva certi successi educativi,
sanitari o d’altro genere, solo che non ne riconosce la natura strategica.
Un rischio che l’adozione di una visione solo dal basso, a partire dal
punto di vista esclusivo degli strati più svantaggiati, può
facilmente comportare.
In poche parole, noto una cesura tra le osservazioni sul campo, spesso
acute, brillanti, interessanti, e la valutazione storico-politica, quasi
sempre affidata ai soli epiteti contro il regime. Il fatto è che
manca una comparazione tra Cuba e il più ampio contesto latino-americano.
Ciò si ripercuote sia nella descrizione della quotidianità
(alcuni comportamenti, per esempio familiari e alimentari, che vengono
nel libro attribuiti ai soli cubani sono invece presenti in tutta l’America
Centrale, o addirittura su scala continentale), sia nella valutazione complessiva
su luci e ombre del modello castrista.
Una proliferazione di furtarelli, raggiri ed espedienti è sicuramente
riprovevole, però non ha nulla a che vedere con il tasso di violenza
regnante, mettiamo, nel quartiere di Tepito di Città del Messico,
nelle favelas di Rio de Janeiro, persino nella Caracas di Hugo Chávez.
I furti di benzina e di pezzi industriali (cui di recente si è tentato
di mettere riparo) saranno odiosi, ma come provare ad accostarli al terrore
che le bande giovanili dette maras fanno regnare nelle capitali di Salvador
e Guatemala, alle decapitazioni messe in atto dai narcotrafficanti messicani,
alle centinaia di giovani donne assassinate tra Tijuana e Chihuahua? A
Cuba ciò sarebbe inconcepibile. Ho idea che questo dipenda dal dato
inconfutabile che, sull’isola, qualcosa per mettere freno alla disuguaglianza
e alla miseria estrema si è pur fatto, sia pure tra contraddizioni
e ostacoli non solo interni (1).
Ecco perché molti latinoamericani, non necessariamente di sinistra,
non sono disposti a pronunciare su Cuba un semplice giudizio di condanna.
Lo stesso vale per le violazioni dei diritti umani, che a Cuba ci sono
state e ci sono tuttora: condizioni di detenzioni durissime, pene sproporzionate,
qualche condanna a morte di difficile giustificazione, ecc., oltre alla
dura repressione contro gli intellettuali dissenzienti che imperversò
nella prima metà degli anni Settanta (oggi molto attenuata). Ma
per chi ha avuto a che fare con gli orrori di Videla o di Pinochet, con
le squadre paramilitari del Salvador e del Guatemala degli anni Ottanta,
con quelle della Colombia fino a tempi recenti, con dittature spietate,
con scuole di tortura, con “guerre sporche”, massacri indescrivibili, squadroni
della morte ecc., il tutto sotto la diretta supervisione degli Stati Uniti
e tra il silenzio-assenso di buona parte dell’Occidente, la molto meno
efferata repressione cubana può apparire, in parte a torto e in
parte a ragione, di gravità inferiore e, senz’altro a torto, funzionale
alla lotta pluridecennale contro la potenza che, in nome della democrazia
liberale, ha sostenuto tiranni impresentabili e coperto di sangue praticamente
ogni angolo dell’America Latina.
Questo punto di vista spiega perché, tra molti latinoamericani,
la visione di Cuba sia molto diversa da quella prevalente in Europa (e,
se Lupi ha ragione, tra una parte dei cubani stessi). Chi ha patito sulla
propria pelle le ingerenze statunitensi vedrà in Cuba comunque un
bastione, un esempio di resistenza ostinata e, bene o male, invitta. Mi
è capitato di udire degli omosessuali brasiliani difendere Fidel
Castro proprio mentre i gay cubani subivano vessazioni d’ogni sorta (oggi
in parte venute meno, se non altro ufficialmente). Ciò peraltro
senza ignorare il “lato oscuro” di un’esperienza unica e contraddittoria,
equilibrato dal “lato luminoso” di ciò che appare, a chi ha subito
umiliazioni intollerabili per il fatto di occupare geograficamente il “cortile
di casa” (l’espressione è di Ronald Reagan), la resistenza a un
vicino troppo potente: una battaglia per la dignità.
L’atteggiamento generale di tanti latinoamericani schierati con Cuba
dipende anche dal fatto che, dopo la sconfitta di Ernesto Che Guevara,
Castro si è ben guardato dal proporre ad amici e alleati un modello
da seguire pedissequamente. Non somiglia affatto a un ordinamento di tipo
cubano il “socialismo del XXI secolo” preconizzato da Hugo Chávez,
da Evo Morales, da Rafael Correa. Non gli somigliava il Nicaragua a guida
sandinista. Meno che mai vi erano analogie con il Cile di Salvador Allende.
E qui veniamo al capitolo meno accettabile del reportage di Gordiano
Lupi: quello in cui, facendo proprie acriticamente le “rivelazioni” del
libro di Alain Ammar, Juan Vivés e Jacobo Machover Cuba nostra (Plon,
2005), sostiene che Salvador Allende non si sarebbe suicidato, come comunemente
si crede anche in base a molte testimonianze, ma sarebbe stato assassinato
da un agente segreto di Castro: Allende sarebbe infatti stato pronto alla
resa, mentre al líder maxismo faceva comodo che morisse da eroe,
per farne un mito.
Già stroncato da Le Monde des Livres, il pamphlet di Ammar e
soci si basa sulle chiacchiere presuntivamente fatte al bar di un albergo
dall’ “assassino” di Allende, e rivelate da due ex agenti segreti cubani
poi espatriati. Personaggi tanto credibili quanto l’accozzaglia di mitomani
radunata dal senatore Guzzanti per far passare Prodi, nell’ambito della
commissione Mithrokin, da agente del KGB. Sputtanati dalla stessa emigrazione
anticastrista a Miami (si legga per esempio qui).
Mi auguro vivamente che Gordiano Lupi, in una futura riedizione del
suo libro, tolga un capitolo così imbarazzante. La sua logica di
“uomo di sinistra” non può essere la stessa del Granma degli anni
Ottanta, che, per colpire una figura odiata, gli attribuiva ogni colpa
possibile o impossibile. Vale per l’oscuro dissidente che frequentava l’ambasciata
Usa, ma vale anche per Fidel Castro.
Quanto al futuro di Cuba, una riforma è inevitabile, come Lupi
dimostra nelle sue pagine migliori. Penso però che, a livello di
esempio di democrazia applicata, sarebbe meglio se la parte “libera” dell’isola
non si chiamasse Guantanamo
(1) Lupi ironizza molto sulla promessa di Fidel Castro, a suo giudizio non mantenuta, di fornire una pentola a pressione a ogni famiglia cubana; ebbene, nei mesi scorsi le pentole sono state distribuite, con un ritardo dovuto alle mille incrostazioni burocratiche, però con la capillarità consentita dai Comitati di Difesa della Rivoluzione, che non sono semplici articolazioni del sistema repressivo.