di Vittorio Giacopini, "A rivista anarchica", n. 284, ottobre 2002
A un anno dal G8, il ricordo delle “giornate di Genova” è diventato
un genere letterario come un altro (basta sfogliare “Alias” oppure “Diario”)
e mentre la sinistra ufficiale va a Canossa il Movimento dei Movimenti
coltiva la tentazione di entrare “in politica” e si perde in diatribe senza
costrutto su tattiche e strategie, questioni di rappresentanza e di linea
politica, altre quisquilie.
Il ricatto dell’attualità costringe a seguire una falsa pista.
Ci si prepara all’Euro Social Forum di Firenze con la stessa cautela isterica
ma dialettica con cui il vecchio Pci organizzava i suoi mastodontici congressi.
Cattolici e disobbedienti, “glosocial” e “newglobal”, “nonviolenti” e “non-nonviolenti”,
amici di Casarini o di Agnoletto. Li conosciamo già a memoria questi
schemini tanto carini e precisi, ripuliti. Le “anime” del Movimento – oggi
si chiamano anime, anni fa le avremmo chiamate “correnti” e buonanotte
– si confrontano in una grande schermaglia rituale e dopo la “primavera
dei movimenti” e di Cofferati forse la preoccupazione maggiore per i no-global
made in Italy è davvero quella indicata sul “Manifesto” dal sempre
più onnipresente Vittorio Agnoletto: abbiamo perso l’esclusiva dell’opposizione,
non siamo più soli… che facciamo da grandi?
Credo che siano questioni oziose e sintomi di un fallimento imbarazzante.
Il motivo di fondo è anche abbastanza semplice. L’alternativa tra
un’ostinata e improbabile ricerca di compagni di strada e di alleanze e
la tentazione dell’autosufficienza lascia il tempo che trova, come sempre.
Non è dal gioco della politica che si può costruire “un altro
mondo”. Impantanato nella palude della tattica il movimento sta paradossalmente
riabilitando quelle pratiche della vecchia politica e di un agire pubblico
stereotipato che proprio la sua presenza “sporca” e irriverente, aveva
contribuito definitivamente a screditare. L’“istinto” di Seattle è
stato messo sotto conserva, sterilizzato. È un peccato e un errore
su cui non vale neanche la pena di perdere troppo tempo a ragionare. Personalmente
sono stanco di ripetere le solite critiche e non ho tempo né voglia
di lamentarmi. Il ricatto dell’attualità, come tutti i ricatti,
uno può sempre semplicemente rifiutarsi di accettarlo.
Fuori da quel ricatto ci sono due cose che colpiscono e a proposito
del Movimento e dell’atmosfera cupa ma insolitamente vitale del presente.
La prima riguarda alcuni eventi clamorosi che sono successi nel campo del
“nemico” e che clamorosamente il Movimento non sembra aver visto né
capito. La seconda ha invece a che fare con lo scarto tra le idee e le
teorie (grandi e ambiziose, magniloquenti) con cui il movimento spiega
le sue scelte e la mediocre piattezza di una pratica che gira a vuoto o
si avvia mestamente lungo la china del politicismo più asfittico
e tedioso. Penso a quelli che con un eufemismo interessato tutti chiamano
gli “scandali” nel mondo delle corporations e del capitalismo e a quelle
parole d’ordine molto astratte e solenni, pretenziose, che rappresentano
il “lessico” scontato “dei movimenti globali”: Impero, Moltitudine, Esodo,
Guerra costituente, Biopolitica ecc. ecc.
Camicia di forza dorata
Da un po’ di tempo a questa parte sono cambiate un mucchio di cose e
non c’è neanche bisogno di citare l’inevitabile 11 settembre. Un
anno fa chi osava criticare i capisaldi della globalizzazione liberista
si vedeva costretto a indossare i panni dell’idealista utopico o del fesso.
Quel fenomeno, quel modello di vita e di sviluppo, erano semplicemente
“inevitabili”. Fuori dalla “camicia di forza dorata” (l’espressione è
di T.L. Friedmann) della globalizzazione trovavi solo miseria e ipocrisia,
arretratezza ideologica, superstizione. Metterla in discussione, opporsi
e protestare, provare soltanto a criticare quella versione fast-food della
modernità e il suo marchio di fabbrica – il capitalismo – più
che violento o sbagliato era semplicemente irrilevante. Meno di un anno
dopo anche il più sfacciato e indecente degli editorialisti certe
cose non potrebbe ripeterle neanche sotto minaccia di tortura. Dopo la
Enron e WorldCom, dopo la Fiat e dopo l’Argentina viene da chiedersi una
cosa banale: chi sono i realisti? Da che parte si schierano quelli che
preferiscono restare coi piedi per terra? Forse non è un motivo
di consolazione per nessuno ma sembra opportuno prendere atto di una cesura
storica e politica radicale. L’inevitabile, fulgido presente della globalizzazione
ha finito per rivelarsi un mito consolatorio non meno fumoso dell’internazionalismo
facile e idealista di troppe parole d’ordine retoricamente ribelli e molto
scontate. Per il capitalismo delle corporation è cominciata la “tempesta
perfetta”. Accorgersene significa anche registrare un paradosso. La protesta
di ieri si è trasformata nella mediocre diagnosi di oggi e se gli
utopisti hanno sbagliato forse è stato soltanto per difetto. La
camicia della globalizzazione resta una camicia“di forza”, almeno per ora,
ma quasi nessuno continua a illudersi che sia pure “dorata”, vantaggiosa.
La sorpresa è che il “movimento” si comporta come se tutta questa
faccenda non lo riguardasse. Quella che anni fa sarebbe stata definita
– con molto ottimismo e troppa ideologia – una “situazione rivoluzionaria”
adesso sembra andare in scena in un universo parallelo e strascinarsi un
mondo a parte. L’istinto della rivolta, il desiderio e la voglia di essere
“contro” sembrano aver favorito una strana tendenza alla cecità
selettiva e dato campo libero a impulsi elementari e un po’ irritanti:
un senso arrogante di autosufficienza, una grande pigrizia mentale, il
narcisismo. Non che di certe cose non si parli. Il “movimento” ha anche
troppi esperti di economia e terzo settore, sociologia, filosofia politica
o agriturismo. Si discute, si parla, si tengono seminari e convegni, si
fanno riunioni. Ma è teoria, sono esercitazioni dotte, divagazioni
(o è il compiaciutissimo carnival di Porto Alegre). Politicamente
quelle vicende – e la stessa battuta d’arresto della globalizzazione –
restano storie che vengono da un altro universo (parallelo), vaghi motivi
di soddisfazione che non modificano priorità e obbiettivi di un
movimento ormai invischiato nei riti della politica-politica, perso nei
giochi di piazza o di corridoio.
Maestri, teorici, ricette, formule, ecc.
Il movimento non si muove. Stasi, abulia, pigrizia dominano la scena
mentre politica e tattiche ritornano in auge. Ma mentre combatte piccole
scaramucce di scarso rilievo e di nessun peso mai come oggi il “movimento”
sembra riconoscersi in parole d’ordine pretenziose, schemi teorici arditissimi
e complicati. Colpisce lo scarto tra le parole e le cose, la distanza abissale
tra una pratica ferma o rituale e la liturgia supponente di una teoria
già introiettata come senso comune, onnipresente. Colpisce ma in
fondo si capisce. La partita sospesa o persa sulla terra prosegue nel cielo
delle idee. Ci si consola come si può e ci si illude sempre come
capita.
A volte non saper “dire” e non saper “vedere” le cose è molto
più grave di non saperle (o poterle) “fare”. A volte, la voce con
cui ci esprimiamo non è un dettaglio ma è l’unica risorsa
– e la più seria – per affermare quello che siamo senza indossare
maschere ridicole e senza concedere spazio a forme più o meno pesanti
di autoinganno. Oggi troppi discorsi girano su se stessi con presuntuosa
inconcludenza. In politica questi momenti di loquace afasia sono gli indizi
decisivi di un’incapacità mentale che può pregiudicare anche
i nostri gesti migliori e più sinceri. Non è un fatto di
“stile”. Se un altro mondo è possibile non può esserlo senza
la nostra voce e il nostro giudizio, la nostra sensibilità, l’intelligenza.
La voce con cui il Movimento esprime i suoi desideri – e le sue rabbie
– oggi è una voce impostata e teorizzante. Cieca agli eventi – perché
si ostina a gonfiarli e a trasfigurarli –, monotona, pretenziosamente teorica,
priva di fantasia e coraggio, questa voce suona anche dannatamente falsa
e petulante. Non sa raccontare il mondo perché non è autentica
e riesce ad essere reticente e disonesta persino quando prova a dire che
genere di persone siamo e in che tipo di società vorremmo o non
vorremo vivere.
Credo che oggi il “movimento” sia sorprendentemente privo di istinti
e passioni, “sentimenti morali” e spontaneità ma al tempo stesso
gravato da un vocabolario teorico consolatorio e paralizzante. Non ha una
“voce”. In compenso ha maestri e teorici, ricette, formule allusive e presuntuose,
modi di dire. La nuova-nuova sinistra no-global aveva fretta di ridarsi
un’ideologia e veramente non ci ha messo poi tanto a trovare i suoi guru
fast-food e i suoi vangeli tascabili a presa rapida. Lo strombazzato ritorno
sulla scena di Toni Negri mi sembra a suo modo esemplare anche se resta
indecente e un po’ ridicolo. Ma il punto chiave era e resta un altro. La
massiccia dose di cliché pretenziosi con cui Negri (e i suoi allievi
più zelanti) trasfigurano lo “stato delle cose” è anche uno
degli elementi chiave che spiega la compiaciuta paralisi del movimento
e ne giustifica la pratica mediocre, il tatticismo, l’opportunismo corrivo,
i compromessi.
La forza, il coraggio, l’amore, l’erotismo e la gloria, l’avventura.
Nei trailer di “guerre stellari” (uno, due, tre… ad libitum), una voce
impostata stile Metro Goldwyn Mayer o circo Togni annunciava magnetica
i temi ricorrenti ed eterni della saga. “Impero” e i suoi sottoprodotti
(imperdibile l’agile “Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali”,
Manifestolibri) hanno la stessa funzione e seguono, tutto sommato, la stessa
logica: barare – giocando al rialzo – e vendere bene. Trasfigurare l’esperienza
e abbindolare i gonzi. L’effetto finale è da manuale (ma di psichiatria):
le parole che dovrebbero spiegare il reale sono i “mantra” che lo fanno
sparire sino a renderlo invisibile. “Impero” (in versione “bizantina” o
“romana”, si può scegliere), “nomadismo”, “guerra ordinativa”, “moltitudine”
(“sempre più forte, forse anche più bella” intona – lirico
– Toni Negri pensando di essere Giorgia o una Spice Girl), “esodo costituente”,
“biopolitica”. In questa proliferazione di diagrammi e schemini teorici
c’è tutto il dramma di una sinistra (nuova o nuovissima) fatta di
parole ma senza parole capaci di graffiare o commuovere, persuadere.
La grande carenza
Quando prende a prestito le formulette di Toni Negri o scimmiotta gli
scimmiottatori di Foucault il movimento sceglie di parlare con la voce
di uno che non sa chi è e che non ha ancora scelto il suo nemico.
Non c’è niente di peggio. Non c’è niente di più deprimente
e paralizzante. Non sapere chi siamo, non riuscire a trovarsi o a definirsi
magari anche soltanto in forma polemica, per mezzo di una negazione, di
un rifiuto. Non riuscire ad avere una voce autentica e un nemico. Nello
“spirito di Seattle” c’era questa promessa che sembrava riprendere i sogni
e gli istinti migliori degli anni sessanta: trovare prima della
politica e tramite la politica il senso della propria identità come
avventura e sfida mobile e inquieta, irriverente. Cercare (anche nella
politica, ma in un’altra politica) un modo per costruire se stessi
e costruire se stessi nel mondo: tra le cose, tra gli altri, nella solitudine
curiosa e attenta del giudizio e della coscienza. Questa aspirazione a
dare vita a una politica dell’autenticità, questo bisogno
di diventare se stessi cercandosi nel mondo e ribellandosi alla società
mi sembra che ce li siamo persi per strada e proprio questa è la
grande carenza che rende goffo e un po’ ipocrita e falso il movimento.
Da troppo tempo la sinistra (una nuova sinistra) non riesce a parlare
con una voce sincera e non sa inventarsi un linguaggio della protesta forte
e spontaneo, libertario e veramente autentico. E visto che parliamo tanto
di date e ricorrenze (un anno da Genova, un anno dall’11 settembre, ecc.
ecc.), è abbastanza curioso e significativo constatare che proprio
in questi giorni ricorrono i quarant’anni di uno degli ultimi testi in
cui la sinistra – la nuova sinistra – era riuscita a trovarsi e a definire
il programma libero e fantasioso, coraggioso (che poi sarebbe stato dimenticato
e tradito, sacrificato) di una generazione di ribelli. Nel 1962 la “dichiarazione
di Port Huron” si apriva con queste parole semplici e dirette: “siamo persone
di questa generazione cresciute tutte – per quanto modestamente – nel benessere...
e guardiamo con preoccupazione al mondo di cui siamo gli eredi”. Non era
il tono del manifesto supponente o uno squillo di tromba. Ma quei ragazzi
usavano il tono giusto e sapevano dire una cosa grande e molto importante:
“chi siamo”, “contro cosa lottiamo”, “cosa ci preoccupa”. Parlare nel modo
giusto. Avere una voce, una visione. Ho il sospetto che oggi, quaranta
anni dopo, di una voce e di uno sguardo del genere avremmo un dannato bisogno
pure noi.