Vladimiro Giacchè, “Su La Testa”, nn. 11/12, dicembre-gennaio 2011
1. La crisi del debito sovrano è parte integrante della crisi
generale iniziata nel 2007.
Il primo aspetto da sottolineare è questo: la crisi del debito
che infuria in Europa dalla primavera del 2010 non è qualcosa di
diverso dalla crisi che a partire dal 2007 ha sconvolto l’economia e la
finanza internazionali.
È un’ulteriore fase di quella crisi. Fa parte cioè della
fine della bubble èpoque, ossia della crescita drogata con la finanza
e con il debito che ha caratterizzato le economie dei Paesi occidentali
negli ultimi trent’anni (in parte compensando, e così rendendo socialmente
accettabile, un marcato declino della crescita e dei redditi da lavoro).
Nel 2007 è iniziata a manifestarsi, con sempre maggiore perentorietà,
l’insostenibilità di quel modello di “crescita” imperniato sul capitale
produttivo d’interesse. La crisi, che ha seriamente minacciato – per la
prima volta dal 1929 – l’intero sistema finanziario internazionale, è
stata tamponata con una “socializzazione delle perdite” che non ha precedenti
per entità nella storia: nel giugno 2009 il Financial Stability
Report della Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie
offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran
Bretagna e dell’area dell’euro a sostegno del sistema bancario ammontavano
alla cifra spaventosa di 14.000 miliardi di dollari. Si tratta – precisava
lo stesso rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50% del prodotto
interno lordo di quei paesi.
A fronte di questo impegno gigantesco, i problemi di fondo dell’attuale
fase di sviluppo del capitalismo non sono stati risolti. Il sistema finanziario
globale non è saltato, ma nella gran parte dei paesi occidentali
l’economia non si è affatto ripresa come desiderato. La distruzione
di capitale è stata ingentissima, e ancora oggi, la disoccupazione
è prossima al 10% sia negli Stati Uniti che in Europa (e in molti
Paesi va ben al di là di queste cifre). Inoltre l’entità
complessiva del debito (pubblico + privato) non è diminuita. In
compenso, è aumentata la proporzione del debito pubblico sul totale.
Questo si deve in parte ai salvataggi di Stato di cui sopra, ma anche al
fatto che la crisi ha diminuito le entrate fiscali e fatto crescere, invece,
le spese per ammortizzatori sociali.
Di conseguenza, oggi nel mirino non ci sono più le grandi banche,
ma gli Stati. Chi è più esposto al rischio di fallimento?
Ovviamente le possibili classifiche dipendono dal criterio che si sceglie:
per entità assoluta del deficit il record spetta agli Stati Uniti
(con un deficit annuo di 1.230 miliardi di dollari nel 2010, pari all’8%
del prodotto interno lordo); se invece si prende l’entità del debito
pubblico complessivo rispetto al pil vince il Giappone, che ha superato
il 200%; se poi prendiamo la somma di debito pubblico e debito privato
il record mondiale è della Gran Bretagna, con il 469% del Pil. I
principali candidati al default dovrebbero essere questi (e non è
affatto escluso che a breve la loro candidatura sia accettata con entusiasmo
da mercati finanziari e speculatori). Sta di fatto, però, che la
crisi del debito è scoppiata in Europa. Anche per questo, però,
ci sono buone ragioni, che non possono essere ridotte alle “congiure” (che
tra l’altro dovrebbero essere chiamate col loro nome: ossia “cartelli”)
di qualche hedge fund statunitense.
2. La crisi del debito sovrano è scoppiata in Europa a causa
di limiti strutturali dell’Unione Europea.
I motivi dello scoppio in Europa della crisi del debito affondano le
loro radici nel processo di costruzione dell’Europa, nella sua architettura
istituzionale, e nelle loro finalità. In termini più brutali,
la crisi è scoppiata in Europa perché l’Unione Europea è
l’Europa dei capitali. Vediamo perché.
La crisi scoppiata nel 2007 ha evidenziato, e aggravato, un’accentuata
divergenza tra le economie della zona euro: in termini di crescita, di
inflazione, di squilibrio delle bilance commerciali e di incremento del
debito pubblico. Stiamo assistendo ad una crisi che colpisce in misura
molto diversa i paesi dell’Unione, con i più deboli tra essi ormai
impossibilitati ad adoperare la leva delle svalutazioni competitive per
raddrizzare le loro economie. E che quindi rischiano di avvitarsi in una
spirale drammatica: crisi economica, debito fuori controllo (anche per
la riduzione delle entrate fiscali a causa della crisi) e necessità
di una terapia d’urto contro il debito che ha l’effetto di aggravare la
crisi.
L’Unione Europea non è in grado di impedire che si producano
situazioni del genere. Questo perché c’è l’unione monetaria,
ma non esiste una politica economica integrata a livello europeo. E non
può esserci, per un motivo ben preciso: perché una politica
economica comune è impossibile in assenza di una politica fiscale
comune. E le politiche fiscali dei Paesi dell’Unione sono tutt’altro che
omogenee. Anche perché il Trattato di Lisbona prevede che sull’armonizzazione
delle politiche fiscali (come del resto sulle politiche sociali) l’Unione
possa decidere soltanto all’unanimità. Conseguenza: è sufficiente
che sia contrario anche un solo Paese (che magari non fa neppure parte
della zona dell’euro) per impedire che l’Unione Europea armonizzi le diverse
legislazioni fiscali.
All’origine di questa situazione vi sono un presupposto ideologico
e un motivo che ha direttamente a che fare con concreti interessi di classe.
Il presupposto ideologico è l’idea neoliberistica secondo cui il
“libero agire delle forze di mercato”, unito al coordinamento delle politiche
monetarie e di bilancio, sarebbe la ricetta giusta per conseguire la crescita
economica. Su questa idea sono stati costruiti tutti i trattati, almeno
da Maastricht in poi.
Il motivo legato a specifici interessi di classe è rappresentato
dagli interessi delle imprese: le quali, proprio grazie all’assenza di
regole fiscali comuni (ossia di regole uniformi di tassazione), hanno potuto
fare arbitraggio fiscale, creando o spostando filiali operative nei Paesi
in cui la fiscalità era più conveniente (vedi alla voce Irlanda).
Questo a sua volta ha ingenerato una concorrenza al ribasso tra le fiscalità
e quindi una tendenziale riduzione delle tasse medie sulle imprese su scala
europea.
Tutto questo ha avuto effetti perversi di breve e di lungo periodo.
Quelli di breve - siccome i vincoli di Maastricht imponevano comunque soglie
basse di deficit - sono consistiti in un aggravio del carico fiscale sulle
persone fisiche (ed in particolare sui lavoratori dipendenti) e in una
riduzione delle prestazioni sociali erogate dagli Stati, indebolendo anche
per questa via la domanda interna nei Paesi dell’Unione.
I frutti avvelenati di lungo periodo, invece, li stiamo gustando adesso,
e consistono nell’impossibilità concreta di una politica economica
comune: anche per Paesi che hanno una moneta comune, e anche in presenza
di una crisi devastante.
La realtà è che oggi l’Unione Europea, proprio in quanto
è un’Europa ritagliata a misura delle esigenze dei capitali, è
priva di strumenti per affrontare adeguatamente la crisi. In queste condizioni,
la moneta unica può diventare una palla al piede per chi l’ha adottata:
perché, in assenza di politiche economiche comuni, e di iniziative
centralizzate di riequilibrio economico e trasferimento tra le regioni,
ogni Stato è lasciato solo con i propri problemi senza potersi giovare
di svalutazioni competitive.
Nei casi di crisi del debito sovrano che si sono presentati dalla primavera
dello scorso anno in Europa (e che avrebbero potuto essere governati con
ben altra facilità senza le caratteristiche della costruzione europea
che abbiamo visto sopra), l’Unione Europea non è riuscita a far
altro – dopo estenuanti trattative – che sostenere i titoli di Stato del
Paese interessato, in parte attraverso nuovi prestiti (spesso assai onerosi
in termini di interessi), in parte attraverso l’acquisto sul mercato dei
relativi titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea. Tutto questo
in cambio di manovre di drastica riduzione della spesa pubblica da parte
degli Stati interessati, a cominciare dalle spese sociali e per le pensioni.
Dal punto di vista del capitale, è la quadratura del cerchio:
significa né più né meno che far pagare la crisi ai
lavoratori (attivi e in pensione). Ma al tempo stesso, anche se i “leader”
europei non mostrano di averlo capito, è la ricetta per la fine
dell’euro e per la catastrofe economica. Vediamo perché.
3. La crisi del debito sovrano fornisce l’occasione ideale per distruggere
il welfare europeo, scaricando i costi della crisi addosso ai lavoratori.
Il ritornello è ormai lo stesso da mesi. Eccolo, nelle parole
del Financial Times del 10 maggio 2010: “gran parte dell’Unione Europea
vive al di sopra dei suoi mezzi”, e “se gli Europei non accettano misure
di austerità adesso, probabilmente dovranno affrontare qualcosa
di più scioccante: default del debito sovrano e collassi bancari”.
Il Washington Post dello stesso giorno specificava: “I problemi sorgono
da tutte le prestazioni assistenziali (indennità di disoccupazione,
assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie) oggi garantite dagli
Stati”. Pochi giorni dopo, il 15 maggio, anche il Sole 24 Ore emetteva
la sua sentenza: “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio
come la sua patria. E insostenibile”.
Sarebbe fin troppo facile ricordare a questi Soloni della disciplina
di bilancio che si erano ben guardati dal lanciare analoghi allarmi quando
– appena due anni prima – gli stati sborsavano migliaia di miliardi per
salvare banche e società finanziarie. È però più
utile dimostrare che spesso i problemi delle finanze pubbliche dipendono
proprio da questi salvataggi.
Emblematico il caso dell’Irlanda, dove è successo esattamente
questo: 1) lo Stato ha salvato le due maggiori banche del Paese, travolte
dalla crisi immobiliare, con iniezioni di capitale per decine di miliardi
di euro; 2) questo ha fatto esplodere il deficit pubblico, che è
schizzato al 32% del pil su base annua (il limite di Maastricht è
al 3%); 3) contemporaneamente, sono state assunte misure di austerity che
hanno precipitato il Paese in deflazione; 4) la crisi bancaria si è
approfondita anche per questo motivo: e sono risultati necessari altri
soldi, che lo Stato irlandese non era in grado di pagare; 5) di qui la
necessità di un soccorso internazionale (un prestito di 85 miliardi
di euro, un terzo dei quali destinato alle banche), a fronte di una severissima
manovra di bilancio su 4 anni (tagli alla spesa pubblica e ai servizi sociali
per 15 miliardi di euro, 25.000 impiegati pubblici a casa, neoassunti con
uno stipendio del 10% inferiore e così via). La morale di tutta
questa storia è molto semplice: il governo irlandese ha dato i soldi
alle banche e i lavoratori irlandesi pagano il conto.
Più in generale, oggi l’attacco al welfare significa sgonfiare
la bolla del debito comprimendo la quota di salario indiretto (le prestazioni
sociali) e differito (le pensioni), oltre a privatizzare funzioni fin qui
svolte dallo Stato a beneficio delle imprese private. Né più
né meno di questo.
4. La formula “finanziamento agli Stati in crisi in cambio della distruzione
del welfare” non funziona, e crea le premesse per l’implosione dell’Eurozona
Si può facilmente comprendere che questa strategia affascini
buona parte delle classi dominanti del nostro continente (e non solo).
Esattamente per gli stessi motivi essa deve essere avversata con forza
dai comunisti. Ma c’è un ulteriore motivo per avversarla: questa
strategia non è soltanto ingiusta, essa è fallimentare anche
sul piano economico. Il punto è che la sola vera arma in grado di
abbattere il debito pubblico di un Paese è la crescita economica:
che comporta aumento delle entrate fiscali e minori spese per misure di
assistenza (alle imprese e alle famiglie). Se non c’è crescita,
se il prodotto interno lordo anziché crescere diminuisce, è
inevitabile che cresca il rapporto tra deficit e pil - e quindi anche lo
stock del debito che si viene accumulando. Ora, se si adottano misure di
restrizione della finanza pubblica per abbattere il deficit in una situazione
in cui la crescita già non c’è, il risultato inevitabile
sarà una recessione. È quanto già oggi sta accadendo
in Grecia e Irlanda.
La verità è che in questi Paesi la prospettiva più
probabile è comunque quella di una ristrutturazione del debito sovrano.
Che però a questo punto avverrà dopo anni di depressione
e di agonia economica. Nel frattempo, le banche private (francesi e tedesche
nel caso della Grecia, inglesi e tedesche nel caso dell’Irlanda), avranno
avuto tutto il tempo di vendere parte delle loro obbligazioni greche e
irlandesi alla Banca Centrale Europea, senza scontare le perdite che avrebbero
dovuto (giustamente) sostenere qualora alla ristrutturazione si fosse arrivati
subito.
Ma allarghiamo lo sguardo. Immaginiamo che misure fortemente restrittive
della spesa pubblica vengano adottate contemporaneamente da tutti i Paesi
di una regione del mondo fortemente integrata economicamente, qual è
l’Unione Europea: e nei mesi scorsi gli Stati dell’Unione Europea hanno
in effetti deliberato tagli alla spesa pubblica per più di 300 miliardi
di euro. In tal caso lo scenario sarà probabilmente depressivo:
per il semplice motivo che il calo della domanda interna in ciascun Paese
si tradurrà immediatamente anche in un calo delle esportazioni reciproche
tra i diversi Paesi. Lo ha rilevato anche Paul Krugman il 12 gennaio scorso
sul New York Times: i tagli sincronizzati alla spesa pubblica che si stanno
attuando in Europa sono tali da “lasciare gran parte dell’Europa in una
situazione di depressione profonda per gli anni a venire”. È ben
difficile pensare che la stessa moneta unica possa resistere in uno scenario
di questo tipo.
Ma in fondo basterebbe che il numero degli Stati in crisi aumentasse,
per rendere le disponibilità delle BCE e del Fondo di sostegno finanziario
(European Financial Stability Facility, EFSF) faticosamente messo in piedi
negli ultimi mesi del tutto insufficienti a tamponare una crisi. Probabilmente,
sarebbe sufficiente una seria crisi della Spagna per far saltare tutto
il meccanismo e innescare reazioni a catena dall’esito imprevedibile. È
probabilmente questo il motivo per cui la Germania, per la prima volta,
ha cercato di anticipare la crisi del Portogallo offrendo aiuto (pur non
avendo le proprie banche esposte significativamente): perché sa
che dopo il Portogallo il prossimo candidato al default è la Spagna.
5. L’Italia a un bivio?
È il caso di spendere qualche parola anche sul caso italiano,
rimasto sinora sullo sfondo, soprattutto a motivo del silenziatore che
il governo ha posto alle notizie poco tranquillizzanti che filtravano da
Bruxelles. Negli ultimi tempi Tremonti ha tenuto un profilo molto basso
sull’argomento, limitandosi a ottenere qualche titolo sulla sua proposta
di un bond europeo (avversata dalla Germania, e comunque non risolutiva).
Ma la situazione è grave. È infatti evidente l’intento della
Germania di far coincidere nei tempi l’accordo a livello europeo sull’entità
della dotazione dell’EFSF con la fissazione di nuove regole, più
stringenti di quelle negoziate a Maastricht, sul rientro dai debiti eccessivi,
ossia eccedenti il 60% del pil. Come è noto, il debito pubblico
italiano, grazie ai governi di Craxi-Andreotti-Forlani e poi alle leggi
pro-evasione dei governi Berlusconi, veleggia sul 116% del pil. Sono già
più volte trapelate indiscrezioni su regole quali l’obbligo di far
diminuire il debito del 5% annuo (che costringerebbero a un avanzo di bilancio
della stessa entità), e anche le cifre dei miliardi di riduzione
del debito da realizzare. L’ultima, uscita poche settimane fa dalla Commissione
Europea, parla di 130 miliardi in tre anni: una cifra folle. Non è
un caso che già più volte un economista ben informato quale
Paolo Savona abbia esplicitamente espresso la necessità che l’Italia
pensi ad un “Piano B”, ossia a “uscire dall’euro avendo preordinato decisioni
e alleanze internazionali per superare la fase critica senza incorrere
nel rischio di perdere la sovranità fiscale residua e di incappare
in una deflazione”; ritenendo tale prospettiva comunque preferibile al
“Piano A”, cioè restare nell’euro a tutti i costi, soprattutto in
presenza di un cambiamento in peggio delle regole del gioco (Il Foglio,
18 gennaio).
Se, come sembra, queste opzioni sono sul tappeto, è estremamente
grave che su tutto questo, per evidente dolo da parte del governo e per
la consueta “distrazione” dell’opposizione parlamentare, non avvenga da
subito un dibattito pubblico.
Credo che i comunisti, oltre a sollecitare l’apertura di questo confronto,
dovrebbero tenere fermo ad alcuni punti essenziali:
1) la più intransigente opposizione ad ogni ulteriore attacco
a qualunque titolo al welfare (che andrà invece potenziato attingendo
risorse all’enorme bacino dell’evasione fiscale, stimata in 120 miliardi
di euro annui per il nostro Paese);
2) la più intransigente opposizione ad ogni modifica peggiorativa
del già pessimo Trattato di Maastricht (non sarà fuori di
luogo rammentare che tra le ragioni della bassa crescita del nostro Paese
negli ultimi anni un ruolo non secondario ha giocato proprio l’insufficiente
entità degli investimenti pubblici, ridotti al fine di mantenere
il deficit sotto controllo): si tratta di una materia in cui vale la regola
dell’unanimità, e l’Italia dovrà votare contro;
3) il rilancio della parola d’ordine dell’Europa dei popoli contro
l’Europa dei capitali, per un’Europa che preveda
a. una fiscalità comune e standard comuni ed elevati di protezione
dei lavoratori (invertendo la competizione al ribasso nelle politiche fiscali
e sociali che ha caratterizzato gli ultimi anni);
b. una politica economica integrata, che includa il rilancio dei grandi
progetti infrastrutturali pubblici a livello europeo e trasferimenti di
fondi da regioni ricche a meno ricche;
nella consapevolezza che questo obiettivo rappresenta l’unica alternativa
concreta alla fine dell’euro e alla disgregazione dell’Unione Europea;
4) la necessità di una battaglia per l’uscita dall’Unione Europea
(e quindi dall’euro) qualora i Trattati siano modificati in modo tale da
imporre al nostro Paese politiche di ulteriori tagli della spesa pubblica
e delle prestazioni sociali, che comporterebbero un ulteriore decennio
di stagnazione economica, oltre a polverizzare le conquiste di decenni
di battaglie dei lavoratori.