Università, “complesso di tutte le cose di un tutto”, recita
un vecchio dizionario ignaro di anticipare la definitiva dilatazione e
la totale confusione che l’Università attuale è riuscita
a incarnare. Come? La storia della sua resistitibile discesa è impossibile
e inutile da ricapitolare, ma è certo che il punto più basso
lo si è appena raggiunto grazie alla combinazione fra l’ansiosa
specializzazione e la frammentata facilitazione degli studi.
A guardare dentro i piani di studio dei mille corsi di laurea in cui
si suddividono le antiche Facoltà, anche i non iscritti e i non
addetti (che in quest’epoca di università di massa sono davvero
pochi) si accorgerebbero di come alla meticolosa distinzione di diplomi
sempre più mirati corrisponda una stupefacente proliferazione di
insegnamenti sempre più abbreviati. Ci sono materie che si insegnano
in venti ore e si studiano in meno di cento pagine; e sono magari le stesse
materie che fino a ieri si svolgevano persino in un biennio e comportavano
un carico complessivo di sei o sette libri… Ci sono discipline vecchie
come la scuola che si sono dovute inventare un nome nuovo per diventare
più sexy e discipline nuove (prestate alla scuola dalla società
civile e aziendale) che si sono inventate un programma e ritagliate uno
spazio considerevole a colpi di pubblicità-progresso. Anche le facoltà
si sono adeguate, soprattutto quelle umanistiche: Magistero ha recuperato
studenti da quando ha pensato di rinominarsi Scienze della Formazione e
sta andando bene anche a Lettere da quando ha procreato il corso di laurea
in Scienze della Comunicazione. Nomi banali ma felicemente attuali e soprattutto
accattivanti. Quelli imponenti di ieri erano decaduti agli occhi della
massa dei clienti, per i quali “magistero” suonava come la casa delle maestrine
e “lettere” faceva venire in mente un futuro lavoro all’ufficio postale.
Oggi il lavoro non viene in mente a nessun addetto e non fa gola a
nessun iscritto. Oggi non conta più lo sbocco professionale ma l’imbocco
nell’Ateneo: si è passati dalla promessa di un posto alla pubblicità
del banco. Lo studente sceglie l’università non più seguendo
le sue inclinazioni ma inseguendo la sua immagine: docenti truccati da
venditori ogni anno vanno a orientare le matricole vendendo promozioni
sociali prima di regalare le promozioni scolastiche. Manifesti a colori
propagandano le università delle regioni vicine e lontane, affissi
nei muri delle già affermate e ricolme città universitarie.
Spot pubblicitari relativi ai nuovi indirizzi di studi affollano le televisioni
locali infilandosi tra le vendite di stoviglie e le maghe dei tarocchi;
nelle reti nazionali, persino durante le Olimpiadi, l’Università
di Firenze faceva occhieggiare il suo logo, senza nessun altra informazione,
in mezzo alle banche e alle acque minerali e agli altri grandi sponsor
della manifestazione…
Inventare e poi ampliare e quindi conquistare il mercato degli studenti
è da tempo l’imperativo delle nuove aziende universitarie che più
sono statali e più si comportano da private; imperativo che ha già
dato come risultato se non l’incremento sicuramente la moda della “ripresa
degli studi”, pardon delle iscrizioni, interrompendo la vecchia convinzione
che il pezzo di carta servisse soltanto a pulirsi… Per la verità
non è che sia cambiato l’adagio ma ha perso il suo connotato d’insulto,
da quando pulirsi o ripulirsi come studenti di scienze della formazione
o della comunicazione o della conservazione dei beni culturali eccetera
eccetera è diventata un’opzione che non si più trascurare,
anche se si è scelto di diventare – da “grandi” – veline o commesse,
coltivatori biologici o operatori ecologici.
Tra l’Essere studente e il Divenire qualcos’altro non c’è più
connessione, almeno nella pubblicità ovvero nell’Apparire. Il “prodotto
università” non è più un “servizio”: va preso e consumato
in loco (meglio se fuori sede), va esibito e vissuto intensamente nell’atto
anzi nell’attimo fuggente della eterna gioventù. Verso questo comportamento
mordi e fuggi, usa e getta, carpe diem (se si viene dal liceo classico),
gli studenti sono spinti e convinti non solo dalla pubblicità dei
corsi ma anche dalla realtà dell’imbonimento (già insegnamento)
curato da rimodernati o ringalluzziti professori: oh Capitano, mio Capitano!…
Una volta dentro, le lezioni e i seminari e le gite didattiche e l’anno
da passare nell’Europa di Erasmo da Rotterdam e le conferenze e gli incontri
speciali (per lo più con attori di passaggio e giornalisti di prestigio)
concorrono a tracciare un percorso di studi fatto tutto di crediti (formativi).
Di debiti (culturali) del resto, la nuova università non ne ha più
con nessuno: le letture si rarefanno e le scritture si dimenticano, visto
che nessun autore morto conta più di un presentatore vivo e costante,
di un grande fratello in libera uscita, di un regista in pensione, di una
scrittrice d’insuccesso, tutti felici di poter dare lezione parlando di
sé e della propria vita, e dimostrando che per riuscire ci vogliono
studi seri e continua applicazione… Non crediate che sia facile fare il
ballerino, il canterino, il costantino…
E davvero l’applicazione degli studenti è incessante e, per
loro, i docenti le studiano seriamente tutte. È già successo
che in un Dams di nuovo conio, decine di allievi spedite a fare le comparse
del “Pinocchio” di Benigni si siano visti riconoscere dall’università
di appartenenza tre crediti belli e sonanti; e nelle città universitarie
più sperdute e spregiudicate non c’è conferenza e presentazione
di libro che al posto del dibattito non abbia la coda dei cacciatori di
autografi per un altro accredito, naturalmente formativo.
Una volta dentro, si passa infatti dal mercato delle iscrizioni al
supermarket degli studi, di solito situato in un quartiere accogliente
o in una cittadina ridente piena di pub e di club, di pizzerie e di discoteche,
di alloggi salati e di divertimenti dolci, che finalmente danno vita e
soprattutto soldi anche agli abitanti. Ecco perché, di questi tempi,
una università non manca in nessuna provincia italiana e un corso
universitario decentrato non lo si nega a nessun comune. Detto nel linguaggio
di un corso di laurea per operatori turistici, il contributo che infine
dà l’Università al Territorio è – al solito in termini
di crediti – molto più alto delle Caserme e degli Orfanotrofi di
una volta, anche se poi i prezzi aumentano e i parcheggi scarseggiano.
Ma si sa, non si può aver tutto, si sarebbe detto una volta.
E oggi invece si dovrebbe dire: ma si sa, questo è il costo di chi
ha tutto, ovvero quel “complesso di tutte le cose di un tutto” che è
appunto l’università.
Ma poi chi è stato a mettere dentro il corpo glorioso dell’università
l’anima impudica del commercio?
Sarà stata la riforma della didattica all’europea voluta e firmata
sia da Berlinguer che dalla Moratti (poiché cambiando l’ordine dei
ministri il risultato non cambia); la riforma detta del “tre più
due” che poi è uguale a sette, considerando il tempo che se ne va
per la prima tesina finta e per la seconda tesi di laurea vera; la riforma
che ha voluto bruciare le tappe per poi allungare la gara e spostare un
traguardo che non arriva mai (mentre gli esami, quelli sì che finiscono
subito), inventandosi un diploma che non corrisponde a nessun sapere e
poi una laurea specialistica che non ha nessun potere; la riforma che ha
messo in campo centinaia di lauree brevi e poi brevissime (sedicenti “specialistiche”),
offerte alla golosità beota di clienti a tempo pieno e di studenti
a testa vuota, chiamati a raccogliere i punti qualità necessari
al completamento del loro curriculum studiorum, mentre – come s’è
detto – il curriculum vitæ scorre incontaminato nelle mattinate al
bar e nelle nottate in disco-teca (salvo quando poi l’uno o l’altra diventano
soggetti di una tesi di laurea sull’agio e sul disagio della condizione
giovanile).
E' infinito il campo di studi, soprattutto nelle facoltà dal
volto umanistico e dallo sguardo sociale. Volto e sguardo da tempo rivolti
e persi nella imprendibile varietà e immarcescibile modernità
degli insegnamenti rapidi a pronta presa e a immediato oblio, che compongono
un piano di studi tanto libero quanto creativo – lasciato cioè in
parte alla timida libertà degli studenti ma infine determinato dalla
coraggiosa creatività dei docenti.
E i docenti sono cambiati non poco dal tempo dei baroni e degli ermellini.
Questi sono ormai titoli e costumi di una loro ormai quasi segreta goliardia,
mentre nella vita scolastica quotidiana una disinvoltura d’abito e talvolta
d’acconciatura svela il loro trapassato remoto sessantottino (non importa
più da che parte e in quale ruolo vissuto). Con l’aria di studenti
a vita e con lo spirito di sacrificio tipico di chi è do-cente di
lotta e di governo, i professori e le sempre più numerose professoresse
si sovraccaricano volentieri di corsi e ricorsi senza più concorsi,
facendosi affidare discipline incognite o improbabili e compensando l’eventuale
scarsa preparazione con l’abbondante esperienza. Si comincia con i filosofi
che fanno anche i semiologi e con gli italianisti che insegnano cinema,
per sbizzarrirsi in ibridi di teatro e informatica, di economia del turismo
e scienza dell’alimentazione, sfruttando non più le competenze ma
gli hobbies coltivati e perfino i desideri proibiti. Dove il corpo docente
non può arrivare da solo, ecco pronti i riservisti e i reduci che
tornano – non sempre laureati – dalle battaglie vere del tumultuoso sociale:
materie più specifiche oppure troppo ardite autorizzano l’ingresso
part-time di professori a contratto pescati fra i funzionari in pensione
e i manager in rovina, fra i preti in disarmo e i giornalisti senza grido
dei quotidiani locali più sperduti e più venduti…
La ricerca non paga, la didattica invece sì. E ancora una volta
non si tratta di soldi (che son davvero pochi) ma di crediti (di tutti
i tipi e per tutte le stagioni e le relazioni). A non essere cinici però,
oltre ai vantaggi generici fissi dello status di professore universitario,
va considerato un guadagno spirituale che è per molti senz’altro
il più ambito: quello di stare in mezzo ai giovani, di avvertire
il loro apprezzamento, di appagarsi della loro stima e infine di diventare
i loro modelli. I professori universitari di oggi, vecchi e nuovi, ordinari
o precari, hanno questo di nuovo e hanno questo in comune: amano andare
incontro ai giovani e condividere con loro la spontaneità della
cultura, la meravigliosa semplicità del sapere, la naturale democrazia
delle idee.
Più della Riforma Berlinguer-Moratti, sarà stata allora
“la riforma dello zainetto”, quella che va talmente incontro al ragazzo
da conservarlo bambino; quella che manda avanti tutti allungando il percorso
ma alleggerendo il processo degli studi; quella che abolisce il nozionismo
ma anche il concettismo e libera finalmente l’in-ventiva e le opinioni
– sia dello studente che del professore.
Una collega che insegna storia mi ha raccontato l’ennesimo incredibile
fatto vero. Insospettita per alcune incongruenze ed esitazioni, ha provato
a domandare in quale secolo lo studente collocava il Rinascimento. Davanti
alla decisa risposta – l’Ottocento – ha provato a replicare scandalizzata,
ma lo studente non si è scomposto e ha immediatamente affermato
risentito: “Questa è però una mia opinione!”
Democrazia batte Università, Ottocento a zero!