Luciano Gallino, “La Repubblica”, 25 marzo 2012
Lo scopo più importante di una riforma del mercato del lavoro
dovrebbe consistere nel ridurre in misura considerevole, e nel minor tempo
possibile, il numero di lavoratori che hanno contratti di breve durata,
ossia precari, quale che sia la loro denominazione formale. Per conseguire
tale scopo sarebbe necessario comprendere anzitutto i motivi che spingono
le imprese a impiegare milioni di lavoratori con contratti aventi una scadenza
fissa e breve. Di un esame di tali motivi non sembra esservi traccia nelle
dichiarazioni e nei testi provvisori rilasciati finora dal governo, tipo
le “Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali”
o le modifiche annunciate dell´art. 18. Meno che mai si parla di
essi nella miriade di articoli che ogni giorno commentano i passi del governo.
Pare stiano tutti mettendo mano alla riparazione urgente di un complesso
macchinario rimasto bloccato, senza avere la minima idea di come funziona
e com´è fatto dentro.
Si suole affermare che le imprese fanno un uso smodato dei contratti
di breve durata – in ciò incentivati da leggi e decreti sul mercato
del lavoro emanate dal 1997 al 2003 e oltre – perché costano meno.
Ma non è affatto questo il motivo principale. Le imprese ricorrono
a tali contratti, sia pure in misura variabile da un settore all´altro,
soprattutto perché essi permettono di adattare rapidamente la quantità
di personale impiegato, in più o in meno, alla catena produttiva,
organizzativa e finanziaria in cui si trovano ad operare. Nel corso degli
anni l´hanno scientificamente costruita loro stesse, la catena, finendo
tuttavia per diventarne schiave. Ogni impresa è ormai soltanto un
anello che dipende da tutti gli altri. Nessuna impresa produce più
nulla per intero al proprio interno, si tratti di un elettrodomestico,
un mobile o un servizio pubblicitario. Ciascuna aggiunge un po´ di
lavoro a manufatti o servizi che sono già stati lavorati in parte
da imprese a monte, quasi sempre situate in Paesi differenti, e saranno
ulteriormente lavorati da un´impresa a valle, in altri Paesi. Questo
modo di produrre comporta che la regolare attività di ogni impresa
dipende da qualità, prezzo, puntualità di consegna di quel
che le arriva dalle imprese a monte, non meno che dalla disponibilità
delle imprese a valle ad accettare qualità, prezzo, puntualità
di quel che essa consegna loro. Per cui l´imperativo di ciascuna
è diventato “assumi meno che puoi, appalta ad altri tutto ciò
che ti riesce.”
Oltre a questa intrinseca dipendenza da ciò che fanno gli anelli
che la precedono come da quelli che la seguono, ciascuna impresa sa bene
di essere oggetto di continue e implacabili valutazioni di ordine finanziario.
Il suo prodotto intermedio può anche essere di buona qualità
e rendere elevati utili; nondimeno se sullo schermo di un qualche computer
compare che nello Utah, in Pomerania o in Vietnam c´è un´impresa
che fa la stessa lavorazione a minor costo, o con maggiori utili, è
molto probabile che le commesse spariscano, o arrivi dall´alto l´ordine
di chiudere.
A causa dei suddetti caratteri le catene globali di creazione del valore,
come si chiamano, hanno accresciuto a dismisura l´insicurezza produttiva
e finanziaria in cui le imprese, non importa se grandi o piccole, si trovano
ad operare. Più che mai ai tempi di una crisi che dura da anni,
e promette di durarne molti altri. Un rimedio però è stato
trovato, con l´aiuto del legislatore dell´ultimo quindicennio:
utilizzando grossi volumi di contratti precari le imprese hanno trasferito
l´insicurezza che le assilla ai lavoratori. Fa parte di quelle politiche
del lavoro chiamate globalizzazione. Quando i rapporti con gli altri anelli
della catena vanno bene, un´impresa assume personale mediante un
buon numero di contratti di breve durata; se i rapporti vanno male, non
rinnova una parte di tali contratti, o magari tutti, senza nemmeno doversi
prendere il fastidio di licenziare qualcuno.
A fronte di simile realtà strutturale, che riguarda l´intero
modello produttivo e la sua drammatica crisi, è dubbio che la riforma
in gestazione, salvo modifiche sostanziali in Parlamento, risulti idonea
a ridurre il tasso di precarietà che affligge milioni di lavoratori,
e meno che mai a farlo presto. In effetti potrebbe intervenire una sorta
di scambio perverso: le imprese riducono di qualcosa l´utilizzo dei
contratti atipici di breve durata, a causa dell´aumento del costo
contributivo previsto dalle citate linee di intervento; però grazie
allo svuotamento sostanziale dell´articolo 18, perseguito dal governo
con una tenacia che meriterebbe di essere dedicata ad altri scopi, licenziano
un maggior numero di lavoratori che si erano illusi di avere un contratto
a tempo indeterminato, o di altri che nella veste di apprendisti speravano,
anno dopo anno, di arrivare ad averlo.
Ma potrebbe anche accadere di peggio: che la precarietà esistente
rimanga più o meno tal quale, ma si estenda a settori dove prima
ce n´era poca (improvvisi fallimenti aziendali a parte). Lo scenario
è pronto: da un lato, dinanzi al cospicuo vantaggio di poter ridurre
la forza lavoro senza nemmeno dover licenziare, l´aumento dell´1,4
per cento del costo contributivo dei contratti atipici si configura come
uno svantaggio quasi trascurabile. Dall´altro lato, la libertà
concessa di licenziare ciascuno e tutti per motivi economici, veri o presunti
o inventati, di cui chiunque abbia un´idea di come funziona un´impresa
può redigere un elenco infinito, costituisce un formidabile incentivo
a modulare quantità e qualità della forza lavoro utilizzata
a suon di licenziamenti. Magari assumendo giovani freschi di studi, al
posto di quarantenni o cinquantenni tecnologicamente obsoleti, che tanto,
una volta perso lo stipendio, non dovranno aspettare più di dieci
o quindici anni per ricevere la pensione. Sarebbe un passo verso l´eliminazione
del dualismo tra bacini diversi di lavoro, da molti deprecato, ma non esattamente
nel modo che la riforma sembrava da principio promettere.
Potrebbe il Parlamento ovviare ai limiti della riforma in discussione?
In qualche misura sì, se mai si trovasse una maggioranza. Però
v´è da temere non possa andare al di là di qualche
ritocco, perché se non si tengono in debito conto le cause reali
del guasto di un complicato macchinario, è molto difficile che la
riparazione vada a buon fine, quali che siano le intenzioni dei riparatori.