www.controlacrisi.org, 11 ottobre 2012
E' interessantissima l'intervista a Luciano Gallino di ieri uscita su "pubblico", perchè dice con estrema chiarezza quello che tutti in qualche modo pensano del PD e di quello che rimane della famiglia socialista europea. Lo è ancora di più perchè proprio in queste ore Hollande ed il Partito Socialista Francese hanno ratificato il Fiscal Compact che prevede per l'Italia la fine della democrazia sociale così come l'abbiamo conosciuta. Primarie o non primarie, Renzi Vendola o Bersani i nodi che vengono affrontati in questa intervista sono di fatto cancellati dalla discussione pubblica, dai programmi, dal confronto politico. In una Nazione dove Renzi attacca Marchionne e dove ognuno può dire di tutto e di più per poi rimangiarsi quello che ha detto dopo poche settimane le parole di Gallino sono una luce nel buio più assoluto. Per questo ci pare utile riproporre interamente questa intervista di Francesca Fornario invitando tutti a darne massima diffusione.
I tecnici? «Non esistono». Parola di Luciano Gallino
Luciano Gallino è la roccia millenaria che resta attaccata alla
montagna dopo la frana. Franano i socialisti europei convertiti ai dogmi
del (sempre più) libero mercato finanziario; si sgretola l’anima
socialdemocratica del Pd perché – dice Gallino – «Il centrosinistra
è ormai una variante del partito neoliberale, il partito del “Ce
lo chiede l’Europa e non abbiamo alternative».
Lui, il sociologo che negli anni cinquanta all’Olivetti indagava le
trasformazioni del mercato del lavoro, resta immobile. E assiste, incredulo,
allo smottamento: «Che fine ha fatto la prospettiva della piena occupazione?».
Davanti alla platea di reduci di troppe sinistre chiamati a raccolta da
Alba, alle 20 file di teste bianche e calve accorse a Torino per una due
giorni sul lavoro, scruta il vuoto in cerca di conferme, come uno sopravvissuto
al terremoto che torna al paese: «Lì c’era la scuola pubblica,
e lì la sanità pubblica…».
Non potevamo più permettercele, dicono.
Lo dicono perché la gestione del welfare è un bottino
che fa gola ai privati. Le imprese, con la complicità dei governi
europei, puntano a mercificare lo stato sociale e la spesa pubblica. Per
loro parliamo di 3mila 800 miliardi l’anno di merci da comprare e da vendere,
non più servizi da erogare. La privatizzazione del welfare – la
sanità, gli asili, i trasporti, le pensioni – è una grave
lesione della democrazia, perché non puoi mica discutere alla pari
con chi ti vende una merce.
Ma non potevamo più permetterci di mandare in pensione i lavoratori
a 60 anni, dicono.
Chi dice che le pensioni ci costano 70miliardi l’anno o è uno
sprovveduto o è in malafede, e usa questo argomento solo per favorire
la privatizzazione del sistema pensionistico. La cassa dei lavoratori dipendenti
è in attivo di otto, dieci miliardi l’anno. L’Inps è in attivo,
va sotto solo perché deve far fronte a spese – sacrosante – che
non le dovrebbero competere, come l’invalidità e la gestione degli
interventi assistenziali speciali.
Bisogna tagliare i servizi per inseguire il pareggio di bilancio
e ridurre il debito pubblico, dicono.
Sanno benissimo che il problema non è il debito. Tagliare 50
miliardi l’anno, come vorrebbero, significa solo smantellare lo stato sociale
e affidarlo ai privati, aumentando i costi per i cittadini.
Ma lo dicono i tecnici.
No: lo dicono questi tecnici. Ma i tecnici non sono solo quelli che
insegnano alla Bocconi. Esistono tecnici molto autorevoli che dicono cose
di segno opposto. E poi non esistono governi tecnici. Al massimo esistono
governi dove i tecnici prendono decisioni politiche. Si può ragionevolmente
definire “tecnico” un ministro con competenze specifiche, come un medico
che diventa ministro della Sanità, però poi le decisioni
che si prendono sono sempre squisitamente politiche. Aumentare o diminuire
le tasse universitarie, privilegiare le linee ferroviarie ad alta velocità
a scapito dei treni regionali dei pendolari: cos’è se non politica?
Professore, allora ci dica lei che è un tecnico. Cosa farebbe?
L’Italia ha bisogno di un New Deal, un piano di investimenti pubblici
come quello avviato da Roosevelt per portare gli Stati Uniti fuori dalla
crisi del ‘29, molto simile a quella che stiamo subendo oggi. Con la crisi
attuale l’Unione Europea ha superato i 25 milioni di disoccupati, e il
dato non include i precari, tutti coloro i quali sono obbligati ad accettare
un lavoro part-time pur desiderando e avendo bisogno di lavorare a tempo
pieno, e ovviamente l’occupazione dell’economia sommersa, che in Italia
il 22% del Pil: in Francia e in Germania è la metà: tutti
lavoratori sfruttati e senza protezione.
Hanno sbagliato tecnica, i tecnici?
Dinnanzi a questa catastrofe l’Ue non ha una politica dell’occupazione.
Ci sono vaghe politiche occupazionali fatte di incentivi e sconti (ad esempio
se assumi un disoccupato), ma sono palliativi inefficaci – e lo dimostrano
numerosi studi in materia – sono residui della dottrina liberista che è
stata ampiamente sconfessata dai fatti.
Diceva «serve un nuovo New Deal». Serve l’intervento
pubblico.
Il New Deal creava lavoro finanziando opere pubbliche e interventi
sul territorio ad alta utilità sociale. Tra il ‘33 e il ‘43 negli
Usa hanno operato tre agenzie pubbliche per il lavoro. Nel ‘33 hanno occupato
4 milioni di persone in tre mesi su tutto il territorio nazionale. La disoccupazione,
che sfiorava il 25 per cento, è scesa di 11 punti prima di scomparire
del tutto nel ‘39, con le politiche per il riarmo. In tutto queste agenzie
hanno occupato 15 milioni di persone, costruendo 160mila chilometri di
strade asfaltate e 800 mila di strade sterrate; 80mila ponti, 40mila scuole,
un migliaio di aeroporti. A giovani che sembravano destinati alla marginalità
e alla criminalità, hanno fatto piantare 3 miliardi di alberi, creando
i grandi parchi nazionali per cui l’America oggi è nota. Anche in
Tennessee, che era uno degli stati più poveri, hanno costruito 16
dighe.
Abbiamo bisogno di interventi così massicci?
Chiunque sappia guardare oltre la propria ideologia sa che anche da
noi abbiamo bisogno di innumerevoli opere pubbliche sul territorio, cose
di immediata utilità. Basti ricordare che in Italia abbiamo il 50
per cento delle scuole non a norma; abbiamo gli acquedotti che perdono
il 40 per cento dell’acqua tra la fonte e il rubinetto. Il dissesto idrogeologico
del paese è drammatico, i nostri ospedali sono del tutto inadeguati:
il 70 per cento andrebbe ristrutturato. Per non parlare dell’efficienza
energetica. Dovremmo imitare il New Deal, mettere in campo una politica
economica che punti a moltiplicare la produzione di strutture pubbliche
e non di auto, telefonini, tablet e altri infiniti oggetti che soddisfano
bisogni indotti dalla pubblicità.
Ma non ci sono i soldi, dicono.
Tecnicamente, ci sono almeno una quindicina di fonti diverse dalle
quali attingere per finanziare questo New Deal. Mi limito a elencarne alcune,
oltre al sempre citato taglio delle spese militari: rinunciando agli F35
potremmo far lavorare 800mila persone per un anno. Ci sono però
anche molte altre strade. Si potrebbero modificare gli ammortizzatori sociali:
la cassa integrazione e la mobilità dovrebbero restare ma si potrebbe
proporre ai cassintegrati che lo desiderano di lavorare nella realizzazione
delle opere pubbliche percependo così un’integrazione alla cassa
integrazione. Poi ci sono le obbligazioni che potrebbero essere usate per
pagare le tasse prima della scadenza, e ci sono i fondi europei, e ci sono
soprattutto i soldi dati a fondo perduto alle banche: oltre 1000 miliardi
prestati all’un per cento di interesse che, per quasi metà, invece
di finire alle imprese, sono dormienti nelle casse della Banca Centrale.
Infine dobbiamo ricordarci che, una volta avviato, un programma così
si finanzia attraverso i redditi addizionali che genera.
Dicono che non serve il New Deal, che basterebbero gli incentivi
alle imprese.
Sì, il famoso taglio del cuneo fiscale. Sono sono palliativi
largamente inefficaci. Ci ha provato anche Obama mettendo in atto un piano
di agevolazioni fiscali che doveva produrre 6 o 8 milioni di posti di lavoro
e che, invece, ne ha prodotti due e mezzo.
Basterebbe diminuire le imposte, dicono
Neanche quello, da solo, riesce a rilanciare i consumi, ad aumentare
la domanda aggregata: le persone dopo anni di aggressione al reddito se
possono magari risparmiano, no?
Se un piano per rilanciare l’occupazione è tecnicamente realizzabile,
cosa lo impedisce?
Gli ostacoli non stanno nel reperire il finanziamento, gli ostacoli
stanno nell’ideologia neoliberale che ha preso piede, nella resistenza
all’intervento pubblico: parlarne a un economista neoliberale gli provoca
l’orticaria, e i media cavalcano la propaganda secondo la quale lo Stato
deve ridursi e spendere il meno possibile. Finora non ci si è nemmeno
provati a sfidare questi dogmi, anche sul fronte della comunicazione, anche
tanti giornali che si definiscono progressisti e che dovrebbero difendere
ogni giorno lo stato sociale. E poi le stesse imprese non vogliono che
la disoccupazione scenda troppo, perché una bassa occupazione mantiene
bassi i salari e compressi i diritti. Ha presente? Come per quest’affare
sul quale sta prendendo appunti.
L’iPad?
Steve Jobs è un genio. Ma non perché ha creato questa
tecnologia straordinaria. È un genio perché ha fatto una
montagna di soldi sfruttando questo principio, producendo in Taiwan per
poche decine di dollari e rivendendo qui per oltre 700. E l’ha potuto fare
perché qualcuno gliel’ha permesso, rinunciando a livellare le condizioni
di lavoro nei diversi paesi. Anzi non hanno rinunciato: lo stanno facendo,
e sa cosa è successo?
Cosa?
Stanno livellando il nostro livello a loro, e non – come invece ci
auguravamo – il contrario.