di Francesco Fricche, "Umanità Nova", n. 6, 18 febbraio 2001
Su questa vicenda di mucca pazza non c'è certo di che stare tranquilli.
Tra allarmi e rassicurazioni, salubrità e tossicità stabilite
per decreto legge, divieti prima emanati e poi ritirati è bene fare
il punto della situazione per capire cosa se ne sa e, soprattutto cosa
si ignora.
Innanzi tutto è bene spiegare alcune cose riguardo alla malattia
che ha originato tutta la vicenda.
Nelle cellule nervose di tutti i mammiferi e dei polli ci sono alcune
catene proteiche anomale che si chiamano "prioni". Non si sa bene a cosa
servano, ed è anche possibile che non servano a nulla, ma, comunque,
vengono normalmente distrutte e riciclate dalle cellule stesse. Alcuni
di questi prioni hanno una forma particolare (ed anche il motivo per cui
hanno questa forma particolare non si è ancora capito), che li rende
indistruttibili da parte delle cellule nervose in cui abitualmente si posizionano
e che li rende infettanti, visto che comunicano questa forma particolare
a tutti i prioni normali che si trovano a passare nella cellula in cui
sono ospitati. Con il trascorrere del tempo i prioni modificati aumentano
di numero fino a saturare la cellula e a farla esplodere. Una volta esplosa
passano alla cellula vicina (con un meccanismo simile a quello della reazione
a catena, ma più lento). A lungo andare il cervello ed il sistema
nervoso diventano simili al gruviera con un sacco di buchi dentro.
La storia delle epidemie per questo tipo di malattia (che si chiama
encefalopatia spongiforme) comincia nel 1934 con alcune pecore. In Gran
Bretagna vennero vaccinate contro un virus circa 18.000 pecore, di queste
5.000 morirono di "scrapie", la versione ovina dell'encefalopatia: il vaccino
era stato estratto da pecore già malate. La malattia circolava da
un paio di secoli ma fino ad allora non aveva fatto grossi danni.
Per una quindicina d'anni venne tenuto tutto nascosto, finché,
negli anni 50 si scoprì che la malattia passava da specie a specie:
ne vennero contagiati dei visoni d'allevamento nutriti con un integratore
alimentare ricavato (ma guarda un po') da pecore malate.
A tutt'oggi non si sa con certezza quali siano le specie a rischio,
ne sono state individuate, oltre agli uomini, 16 tra cui mucche, pecore,
capre, visoni, gatti, cervidi, scimpanzé e ruminanti esotici. Questi
ultimi se la sono presa negli zoo, dove venivano nutriti con farine di
ovini e bovini infetti.
La cosa è resa più difficile da scoprire, oltre che dal
lungo periodo di incubazione (nell'uomo arriva fino a 40 anni), anche dal
fatto che alcune specie immuni, pur non contraendo la malattia, sembra
siano in grado di trasmetterla a loro volta alle altre specie soggette
al morbo e dal fatto che la trasmissibilità da specie a specie non
è assoluta (la scrapie delle pecore sembra non sia capace di infettare
l'uomo, però causa la BSE nelle mucche che, a loro volta, causano
l'infezione nell'uomo).
Anche nell'uomo le encefalopatie spongiformi sono sempre esistite e
la forma più nota si chiama malattia di Creutzfeld-Jacob dal nome
dei due scopritori, la trasmissione però avveniva perlopiù
per via ereditaria, o per degenerazione di qualche prione in età
senile.
La prima epidemia di encefalopatia spongiforme negli uomini si riscontrò
tra alcune tribù antropofaghe della Nuova Guinea: per motivi religiosi
gli aborigeni mangiavano i parenti defunti, tradizionalmente però
gli uomini ne mangiavano i muscoli e le donne ne consumavano il cervello.
Il risultato era che si ammalavano di questa malattia (chiamata Kuru) quasi
esclusivamente le donne.
In occidente la malattia arrivò, in forma epidemica, tra i nani,
che venivano curati con l'ormone della crescita estratto dalle ghiandola
pituitarie di cadaveri umani, alcuni dei quali malati.
Altri casi vennero poi riscontrati tra gli epilettici, contagiati da
strumenti chirurgici infetti benché sterilizzati: questo prione
modificato infatti resiste alle radiazioni ultraviolette, a quelle ionizzanti,
al congelamento, alle soluzioni acide o basiche comprese tra pH 2,1 e 10,5,
all'etanolo, alla formaldeide, all'acqua ossigenata, ai disinfettanti fenolici
ed a un sacco di altre cose, compreso l'incenerimento a 360 gradi centigradi.
Anche sui meccanismi di contagio ci sono poche certezze. Mentre è
chiaro che il contagio tra le specie avviene mangiando alcune parti (anche
se non si sa bene quali) di altre specie contagiate, non si sa se ci siano
altre forme di contagio tra una specie e l'altra, né si conoscono
tutte le forme di contagio all'interno della stessa specie. Alcuni ipotizzano
addirittura meccanismi simili a quelli della trasmissione dell'epatite
o dell'AIDS. I prioni modificati infatti, una volta mangiati, arrivano
al cervello attraverso il sangue e non si sa se il contagio possa avvenire
anche attraverso questo. Oltre tutto, visto che non è stato ancora
scoperto come rilevare la presenza di prioni nel sangue, le analisi per
scoprire se qualcuno è malato possono essere fatte solo dopo che
è morto, analizzando pezzi di cervello.
L'unica conseguenza di questa cosa è che, dato che è
non stata dimostrata la non infettività del sangue, gli USA non
accettano più donazioni di sangue dagli europei e gli italiani non
fanno donare sangue a chi abbia risieduto per più di sei mesi in
Inghilterra negli ultimi anni.
Tra tutte queste cose che non si sanno c'è un dato certo: l'aumento
del numero dei morti per il morbo di Creutzfeld-Jacob e le sindromi correlate.
Tra il 1958 ed il 1971 la media, in Italia, di morti era di 0,05 persone
per milione l'anno, il che significa che, ogni anno, moriva 1 persona ogni
20 milioni di abitanti. Nel 1995 questa percentuale era di 0,60 (1 morto
ogni milione e seicentomila abitanti), nel 1999 era di 1,46 (un morto ogni
settecentomila abitanti). In Italia per questa malattia sono morte, solo
nel 1999, 83 persone. Attenzione, questa è l'incidenza della malattia
di Creutzfeld-Jacob, non necessariamente originata da "mucca pazza". Ufficialmente
in Italia, per la mucca pazza, non è ancora morto nessuno. È
però preoccupante che negli ultimi 4 anni il numero dei decessi
sia aumentato in maniera costante finendo per raddoppiare nell'Europa comunitaria,
mentre sia rimasto costante, ad esempio, in Australia ed in Slovacchia
(che è un paese prevalentemente contadino).
La palese sottovalutazione del problema da parte dell'Europa è
stata motivata dagli interessi di quelle nazioni che, di volta in volta,
ne risultavano colpite, ma perché, visto che si sa così poco
di questa malattia, c'è stata questa contraddittorietà di
atteggiamenti in Italia?
La risposta è nella struttura dell'agroalimentare nel nostro
paese. Nel giro di qualche anno si è passati da una dimensione contadina
ad una dimensione industriale della produzione, in cui i piccoli allevatori
sono divenuti contoterzisti per le grosse aziende: si limitano a tenere
le bestie, rispettando le tabelle di ingrassamento e dandogli da mangiare
i mangimi decisi dalle società cui li venderanno. I mangimi, in
Italia li producono quasi esclusivamente Montedison e Italgrani. Questo
è probabilmente il motivo per cui in Italia i mangimi con farine
animali li hanno proibiti definitivamente solo a metà novembre scorso,
benché fossero diversi anni che ne era stato annunciato il divieto.
Il settore dell'allevamento delle mucche non ha, invece, una situazione
di monopolio: gli allevatori sono centinaia di migliaia, però il
settore della macellazione è controllato (per il 45%) da 18 grosse
imprese.
Che queste imprese sappiano gestire i rapporti con la stampa è
cosa nota ed è proprio per questo che, quando si parla del primo
caso di mucca pazza avvenuto in Italia, tutti fanno riferimento alla cascina
della Malpensata e non alla Inalca (gruppo Cremonini) di Ospedaletto Lodigiano
dove quella mucca (come tutte le altre della cascina) era stata acquistata
e macellata. Cosa sarebbe successo se si fosse collegato il caso mucca
pazza alla principale azienda del settore carni in Italia? Qualcuno avrebbe
potuto pensare che quella mucca sarebbe finita in qualche hamburger, come
probabilmente ci sono finite le altre della stessa cascina e magari poteva
essere servita in qualche locale della McShitDonald, di cui la Cremonini
è fornitrice esclusiva di in Europa.
D'altro canto anche quando, nel maggio scorso, i NAS trovarono, in
piena notte, al mattatoio della Cremonini a Rieti un centinaio di operai
che, pagati in nero, lavoravano 11 tonnellate e mezzo di carne avariata
con larve e vermi, i giornali non dissero nulla.
La conferma dell'ottima stampa di cui gode la Cremonini si è
avuta anche con la vicenda delle carni in scatola prima vietate e poi riammesse
sulle tavole delle mense militari: nessun giornale ha citato la marca "Montana"
(ovviamente del gruppo Cremonini) che ha vinto l'appalto per la fornitura
in esclusiva all'esercito.
La cosa più paradossale di tutte è che la Cremonini si
sta rafforzando con questa vicenda. Per queste grandi aziende, infatti,
il crollo dei consumi di questo periodo è solo un costo finanziario.
La Cremonini di Rieti (analogamente agli altri macelli dello stesso gruppo
in Italia) ha messo in cassa integrazione 116 di 220 dipendenti dal 5 febbraio
al 5 maggio e tutta questa storia le causerà solo un aumento del
costo degli interessi sui prestiti bancari. Le aziende più piccole
stanno invece fallendo. Probabilmente il risultato finale sarà quello
di far assomigliare il mercato di bovini a quello dei polli che è
controllato, per oltre metà, da due sole ditte: Veronesi ed Amadori.
Oltre tutto è anche prevedibile la fine della carne a rischio:
andrà nei i paesi del terzo mondo, che la Cremonini già rifornisce
come vincitrice di appalti destinati alla cooperazione internazionale e
per cui è indagata per truffa ai danni della CEE.