di Franco Fortini, "La nonviolenza in cammino", n. 385, 14 ottobre 2002
Abbiamo estratto questo articolo del 1983 da Franco Fortini, Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991 (una bella raccolta di testi brevi e dispersi curata da Paolo Jachia, qui fine editore ma anche autore di egregi studi - vedi ad esempio le sue belle monografie laterziane su Bachtin e De Sanctis). Li' il testo che riportiamo e' alle pagine 145-149. Era primieramente apparso sul "Corriere della sera" del 29 marzo 1983.
Quelli che hanno la mia eta' Marx l'hanno letto alla luce delle nostre
guerre. Hanno sempre sentito chiamare marxista chi le potenze delle armi,
del profitto o del potere avevano voluto ridurre al silenzio. "E tu come
li chiami i popoli oppressi o uccisi in nome di Marx?", mi si chiedera'
ora; forse supponendo che non abbia trovato il tempo, finora, di chiedermelo.
Rispondo che sono dalla mia parte. Li conto insieme a quelli che dal Diciassette,
quando sono nato, sono nemici dei miei nemici, a Madrid come a Shanghai,
a Leningrado come a Roma, a Hanoi, a Santiago, a Beirut... I cacciatori
di "bestie marxiste" (cosi' si esprimono) devono sempre aver avuto difficolta'
ad apprezzare le differenze teoriche fra marxiano, marxista, socialista,
comunista, bolscevico e cosi' via.
Mi spieghero' meglio, per loro beneficio. C'e' una foto russa, del
tempo della guerra civile: un plotone di morti di fame, in panni ridicoli,
cappellucci alla Charlot in testa, scarpe slabbrate; e a spall'arm i fucili
dello zar. Questo e' marxismo. C'e' un'altra foto, Varsavia 1956, un giovane
magro, impermeabile addosso, sta dicendo nel microfono, a una sterminata
folla operaia che il giorno dopo l'Armata rossa, come a Budapest, puo'
volerli morti o deportati. Anche questo e' marxismo. Con chi queste cose
dice di non capirle, di marxismo e' meglio non parlare neanche.
Un certo numero di italiani miei coetanei sparve anzitempo dalla faccia
della terra, combattendo borghesi e fascisti. Grazie a loro se le forze
dell'ordine volessero perquisirmi, potrei mostrare che sul miei scaffali
invecchiano le opere di Marx, di Lenin e di Mao, senza temere, ancora,
di venire trascinato alla tortura e alla fossa com'e' accaduto e ogni giorno
accade a poche ore di aereo da casa nostra. Dieci o quindici anni fa poco
e' mancato che la civica arena o il catino di San Siro non accogliessero,
come lo stadio di Santiago del Cile, le "bestie marxiste". So chi mi avrebbe
aiutato, in quel caso: non sarebbero stati davvero quelli che mi conoscono
perche' hanno letto i miei libri. E ora approfitto di queste righe per
salutare Alaide Foppa, mia collega di letteratura italiana a Citta' di
Messico. La conobbi anni fa. In questi giorni ho saputo chi l'ha ammazzata,
in Guatemala. Anche questo e' marxismo.
Cominciai nel 1940 col Manifesto, per consiglio di Giacomo Noventa
e Giampiero Carocci; senza alcun entusiasmo. Capii poi qualcosa da Trockij
e Sorel. Durante la guerra vissi in fanteria un buon corso di marxismo
pratico. A Zurigo, nell'inverno 1943-44, non so quanti libri lessi, riassunsi
e annotai, che parlavano di socialismo e di materialismo storico. Si faceva
fuoco di ogni frasca, allora. Un opuscolo in francese, ricordo, mi fu molto
utile; l'aveva scritto un tale che firmava con lo pseudonimo, seppi poi,
di Saragat. L'apprendistato comprendeva testi anche troppo disparati: Malraux
e Rosselli, Victor Serge e Silone, Mondolfo e Eluard...
A guerra finita vennero letture meno selvagge: le opere storiche (Le
lotte di classe in Francia, Il diciotto brumaio, La guerra civile in Francia),
parte della Sacra famiglia, i primi capitoli, splendidi di genio e forza
sintetica, della Ideologia tedesca, i due volumi del primo libro del Capitale,
e a partire dal 1949 quei Manoscitti economico-filosofici del 1844 oggi
tanto derisi e che mai hanno cessato di stupirmi per la loro capacita'
di guidarci da Hegel fino ai giorni che ancora ci aspettano; e di dirci
parole di incredibile attualita'. E altro ancora.
Dopo vent'anni di diatribe storico-filologiche sul primo e il secondo
Marx; dopo Lukacs e Sartre, Bloch e Sohn-Rethel, Adorno e Althusser, Mao
e gli amici torinesi di "Quaderni rossi", a quelle pagine non ho piu' sentito
il bisogno di tornare se non nei termini di cui parla Brecht in una poesia
intitolata, appunto, "Il pensiero nelle opere dei classici":
Non si cura
che tu gia' lo conosca; gli basta
che tu l'abbia dimenticato...
senza l'insegnamento
di chi ieri ancora non sapeva
perderebbe presto la sua forza rapido decadendo.
Non stiamo commemorando la nostra giovinezza. Anche se fondamentale,
quel pensiero non e' se non un passaggio dell'ininterrotto processo che
porta da luce a oscurita' poi ad altra luce, e dal credere di sapere al
sapere di credere. Se ne compone (come quella di chiunque) la nostra esistenza.
O per la gioia dei piu' sciocchi dovremmo ripetere qual che ci sembra di
aver detto sempre e cioe' di non aver creduto mai che il pensiero di Marx
potesse fungere da chiave interpretativa del mondo piu' o meglio di quanto
lo faccia, ad esempio, la poesia dell'Alighieri? Una educazione alla
storia ci faceva almeno intravvedere quel che era stato detto e fatto ben
prima e sarebbe stato detto e patito molto dopo di noi.
Quando, per l'Italia, almeno dal 1900, data del libro di Croce, ci
viene ogni qualche anno ripetuto che quella di Marx e' filosofia superata,
non ho difficolta' ad ammetterlo; sebbene subito dopo domandi che cosa
significa superare la filosofia di Platone o di Kant. Quando ci viene spiegato
che la teoria marxiana del valore o quella sulla caduta tendenziale del
saggio di profitto sono manifestamente errate, non ho difficolta' ad ammetterlo;
anche perche' mai l'ho impiegata per capire come vadano le cose di questo
mondo. Quando mi si dimostra che l'idea, certo marxiana, di un passaggio
dalla preistoria umana alla storia mediante la fine della proprieta' privata,
dello Stato e del lavoro alienato, si fonda su di una antropologia fallace
e senz'altro smentita dai "socialismi reali", apertamente lo riconosco;
anche perche' ho sempre attribuita la figura d'un progresso illimitato
all'errore che afferma la indefinita perfettibilita' dell'uomo, un errore
illuministico-borghese che Marx ebbe a ereditare.
Ma quando mi si dice che la teoria delle ideologie e' falsa, che la
lotta delle classi e' una favola e che il socialismo e' una utopia senza
neanche l'utilita' pragmatica delle utopie, chiedo allora un supplemento
di istruttoria. Primo, perche' il pensiero epistemologico contemporaneo,
dalla critica psicanalitica del soggetto fino alla semiologia, conferma
la fine d'ogni immediata coerenza fra parola, coscienza e realta', come
fra mondo e concezioni del mondo; secondo, perche' a tutt'oggi e' difficile
negare - e lo si sapeva ben prima di Marx - l'esistenza di ininterrotti
conflitti di interessi fra gruppi umani per il possesso dei mezzi di produzione
e la ripartizione del prodotto sociale; conflitti determinati dai modi
del produrre e determinanti l'assetto, o lo sconvolgimento, dell'intera
societa'. Per quanto e' del terzo ed ultimo punto, convengo volentieri
che esso rinvia ad una persuasione indimostrabile.
La volonta' di eguaglianza e giustizia pertiene alla politica solo
grazie alla mediazione dell'etica e della religione. Marx non ne ha data
nessuna ragione migliore. Indipendentemente da ogni mito perfezionista,
credo si debba continuare a volere (un volere che implica lotta) una sempre
piu' sapiente gestione delle conoscenze e delle esistenze. Il "sogno di
una cosa" e' la realizzata capacita' dei singoli e delle collettivita'
di operare sul rapporto fra necessita' e liberta', fra destino e scelta,
fra tempo e attimo.
Il movimento socialista e comunista si e' fondato per cent'anni su
quel che si chiamava l'insegnamento di Marx. Ne era parte maggiore l'idea
che il passaggio al comunismo dovesse essere conseguenza dello sviluppo
delle forze produttive, della industrializzazione e della crescita della
classe operaia; e compiersi con una pianificazione centralizzata. In questi
nodi di verita' e di errore si e' legato il "socialismo reale". Oggi gli
esiti del passato ci impediscono di guardare al futuro. Sono esiti tragici
non solo per cadute politiche, economiche o culturali ne' solo per costi
umani; ma perche', anche al di fuori dei paesi comunisti, il "marxismo
reale" ha accettato il quadro mentale del suo antagonista: primato della
tecnologia, etica della efficienza, sfruttamento dei piu' deboli. Sembrano
falliti tutti i tentativi per uscire da questa logica: massimo quello cinese.
Eppure, Bloch dice, non e' stata data nessuna prova che quella uscita sia
impossibile. L'eredita' marxiana e' divisa: una meta' e' ancora nostra,
l'altra e' dei nemici del socialismo e comunismo, sotto ogni bandiera,
anche rossa.
Quanto alla mente geniale morta cent'anni fa, e' anche grazie ad essa
che e' stato ridimensionato il ruolo delle grandi personalita' e dei loro
sepolcri. Pero' ho visitato con commozione a Parigi il Muro dei Federati,
a Nanchino la Terrazza della Pioggia di Fiori o dei Centomila Fucilati;
mi fosse possibile, andrei a onorare i morti dei Gulag: sono tutti di una
medesima parte, tuttavia parte; non ipocrita bacio tra vittime e carnefici.
Marx ci ha infatti insegnato a capire una volta per sempre quale opera
implacabile gli ignoti, gli infiniti vinti vincitori, compiano entro le
societa' che preferirebbero ignorarli ed entro di noi; quali cunicoli scavino,
quali fornelli di mina preparino anche in coloro che li odiano per aver
voluto qualcosa che interi popoli oppressi continuano, morti e vivi, a
volere. Tutta la storia umana, ci dice, deve essere ancora adempiuta, interpretata,
"salvata". E o lo sara' o non ci sara' piu' - sappiamo che e' possibile
- nessuna storia. O ti interpreti, ti oltrepassi, ti "salvi" o non sarai
esistito mai.
L'amico di Federico Engels non e' stato davvero il primo a dircelo.
L'ultimo si'. E meglio ancora ogni giorno lo dice, oscuro a se stesso,
"il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" (Ideologia
tedesca, 1845-46, I, a). Anche questo e' marxismo.