Franco Ferrari, "Piovono pietre", n. 6, agosto 2009
La crisi politica iraniana seguita alla rielezione di Ahmadinejad e
al movimento popolare di protesta che l’ha contestata, ha riaperto una
discussione nella sinistra internazionale che era già emersa secondo
linee analoghe in precedenti occasioni sul ruolo di Hezbollah in Libano
e Hamas in Palestina, movimenti anch’essi legati all’islamismo radicale.
Mentre tutta la sinistra iraniana e buona parte della sinistra alternativa
nel mondo hanno sostenuto il movimento di contestazione, pur esprimendo
giudizi differenziati sul significato delle elezioni stesse e sul ruolo
svolto dai cosiddetti “riformisti”, si sono al contempo levate diverse
voci, sia intellettuali che politiche, che hanno in
sostanza sostenuto le ragioni del regime. Tra questi un intellettuale
nordamericano come James Petras, ma anche diversi presidenti di sinistra
latinoamericani.
Particolarmente attivo nel sostenere che Ahmadinejad avesse vinto le
elezioni e che il movimento di protesta fosse manipolato se non organizzato
dagli Stati Uniti e dall’occidente, il governo venezuelano di Chavez che
ha diffuso anche diversi testi propagandistici per dimostrare che l’opposizione
si sarebbe mossa sulla base di un pamphlet scritto da Gene Sharp, teorico
della “nonviolenza”, analogamente a quanto avvenuto in altre cosiddette
“rivoluzioni colorate” che hanno avuto successo in diversi paesi dell’ex
Unione Sovietica. Questi interventi ripetono sostanzialmente le tesi del
regime sulla validità del risultato elettorale, il seguito che avrebbe
Ahmadinejad nei settori popolari a Teheran e nel Paese grazie ad una politica
di distribuzione socialmente equa delle ricchezze derivanti dal petrolio
e sulla prevalenza nell’opposizione di un ceto medio manipolato dall’Occidente.
In questi giudizi vengono rimosse, senza essere realmente contestate,
tutte le analisi diffuse in questi anni dall’opposizione di sinistra e
democratica iraniana sul carattere strutturalmente reazionario del regime,
sulla repressione che ha colpito non solo gli studenti o i ceti medi, ma
anche i settori operai più militanti e sindacalizzati, sulla crescita
della povertà e delle diseguaglianze nonostante la disponibilità
di ingenti fondi derivanti dal petrolio.
Ma l’analisi della vicenda iraniana si inserisce in un dibattito più
ampio sull’islamismo politico in relazione al ruolo che esso svolge nel
conflitto mediorientale e in particolare la sua connessione con l’antimperialismo.
Vorrei segnalare in particolare due interventi su questo tema, da parte
di Samir Amin e di Asef Bayat.
Amin, intellettuale egiziano che ha avuto un ruolo di rilievo nell’analisi
delle teorie della dipendenza - che ponevano al centro del conflitto mondiale
lo scontro tra il centro imperialista e i paesi del Terzo Mondo - ed è
stato influenzato dal maoismo, nega il carattere antimperialista dei movimenti
islamici. Esplicito in tal senso il titolo di un suo recente contributo.
“L’Islam politico al servizio dell’imperialismo”, pubblicato dalla Monthly
Review. Secondo Amin, l’Islam politico, pur nelle differenze che lo attraversano,
è schierato socialmente nel campo del capitalismo dipendente.
Si tratta di un movimento “…fondamentalmente reazionario e perciò
ovviamente non può partecipare al progresso della liberazione dei
popoli…”. Arrivando alle conclusioni del suo ragionamento, Amin ritiene
che vi siano in Medio Oriente tre correnti politiche principali: quelli
che si proclamano nazionalisti, ma sono solo gli eredi degenerati della
burocrazia della fase nazionalpopulista; gli islamisti; i “democratici”
che avanzano richieste compatibili con il liberalismo economico. La sinistra
non dovrebbe allearsi, se non in modo occasionale, con nessuna di esse.
Il suo compito è di “…affermare sé stessa intraprendendo
lotte nelle aree dove essa trova la sua naturale collocazione: la difesa
degli interessi delle classi popolari, la democrazia e l’affermazione della
sovranità nazionale, tutte concettualizzate insieme come inseparabili”
(NdR. la sottolineatura è mia).
A me pare che questa affermazione sia del tutto sottoscrivibile, anche
se l’analisi di Amin, per altri aspetti, mi sembra inadeguata a spiegare
il processo di sviluppo capitalistico di importanti aree del terzo mondo
nonché il fenomeno della globalizzazione e che resti troppo legata
ad una impostazione “terzomondista”.
Asef Bayat, in un saggio pubblicato sul Socialist Register - Islamism
and Empire: The Incongruous Nature of Islamic Anti-Imperialism - arriva
a conclusioni simili, ma sulla base di una analisi che trovo più
convincente. Bayat non nega il ruolo antimperialista dell’islamismo politico,
nel senso di opposizione alle politiche e agli interessi
degli Stati Uniti e dell’Occidente, per quanto con contraddizioni (basti
rilevare l’alleanza di fatto Iran-USA nella gestione dei conflitti irakeno
e afghano). Soprattutto
sottolinea il carattere contraddittorio di quello che definisce un
“antimperialismo autoritario” chiedendosi: “Certe lotte degli islamisti
indeboliscono certi interessi strategici e materiali dell’Occidente. Ma
essi indeboliscono necessariamente anche la sua egemonia ideologica globale?”
È evidente che la risposta a questa domanda per Bayat non può
che essere negativa. L’islamismo non offre, né in pratica né
in teoria, una alternativa praticabile alla dominazione imperialista.
La conclusione di Bayat è del tutto sottoscrivibile e non può
che orientare il giudizio della sinistra nelle pur complicate vicende mediorientali,
e non solo: “Qualsiasi lotta, per quanto eroica, che sostituisca la supremazia
imperialista con forme locali di oppressione non serve gli interessi della
maggioranza dei musulmani. (…) la questione centrale per le forze progressiste
non è solo come sfidare l’impero, ma come realizzare la liberazione:
perché lo scopo finale non è semplicemente l’antimperialismo,
ma l’emancipazione”.
Questi interventi mettono in evidenza i limiti teorici e politici di
chi ripropone una concezione dell’antimperialismo che analizza le vicende
politiche, sociali e culturali
secondo una impostazione prevalentemente geostrategica, in cui ogni
movimento e conflitto sono esaminati con l’esclusiva lente del rapporto
con la politica nordamericana.
L’antimperialismo, separato da una strategia di liberazione e di controegemonia
rispetto al capitalismo neoliberale che intrecci lotte sociali, lotte democratiche
e di emancipazione - come sottolineano, pur partendo da punti di vista
diversi sia Samin che Bayat - rischia semplicemente di giustificare il
sostegno subalterno di una parte della sinistra a politiche, regimi e movimenti
reazionari.
Riferimenti bibliografici
- Samir Amin, Political Islam in the Service of Imperialism, http://www.monthlyreview.org/1207amin.htm
- Asef Bayat, Islamism and Empire: The Incongruous Nature of Islamic
Anti-Imperialism, Socialist Register, 2008