Giorgio Ferrari, "Cassandra", n. 25/2009
L’hanno chiamato “bolla finanziaria”, l’effetto a catena che ha portato alla chiusura di centinaia di banche e istituti di credito in tutto il mondo, causato - secondo i mass media - dalla diffusione di titoli “tossici” che hanno infettato la finanza mondiale. Ma non è questo il primo caso. Precedentemente, infatti, era stata la volta della “bolla immobiliare” (stret-tamente connessa a quella finanziaria) e prima ancora c’era stata quella di “internet” con il fallimento di AOL (America on line) e di una cospicua parte di società del settore telematico-informatico.
La bolla informatica
Negli anni ’90 le transazioni finanziarie e di borsa e tutto ciò
che riguarda il cosiddetto mercato dei capitali, sotto forma di capitali
"virtuali", raggiunsero uno sviluppo senza precedenti grazie alle tecnologie
legate all'informatica e alle telecomunicazioni: in pratica da Tokio a
New York e passando per tutte le borse europee, il sistema borsistico mondiale
é sempre aperto consentendo un "giro" di capitali che si stima essere
diciotto volte superiore a quello di tutti i beni e servizi prodotti in
un anno nel mondo.
Ma l'informatizzazione dei processi produttivi in senso stretto (software
di impresa; gestione scorte-approvvigionamenti; distribuzione; pagamenti)
e quella riconducibile alla sfera del consumo privato (e-commerce) sono
risultate inadeguate a fronteggiare la complessità dei mercati perchè
poco flessibili rispetto ai mutamenti del mercato (tipologia e quantità
delle merci da produrre). I costi per le imprese (in termini di acquisto
dei software e relativa assistenza) sono talmente lievitati da riassorbire
i margini di competitività economica per i quali erano stati concepiti.
L'information technology - e con essa l'immagine stessa di quella che fu
definita new-economy - sono state più elementi accessori delle trasformazioni
in atto nel modo di produzione capitalistico, che modelli di gestione globale
del mercato. E i riflessi negativi in borsa non si fecero attendere.
La bolla immobiliare e quella finanziaria
La finanziarizzazione immobiliare iniziò negli Usa sul finire
degli anni ’80 con la creazione di fondi immobiliari quotati in borsa.
L’aspetto principale di questa operazione fu che il valore degli immobili
veniva trasformato in titolo mobiliare rendendolo quindi negoziabile in
borsa senza dover alienare necessariamente tutto il bene. Inoltre veniva
consentita la scissione tra proprietà e gestione degli immobili
con la conseguente societarizzazione delle rispettive attività.
In Italia questo processo rientra nel quadro delle privatizzazioni
che inizia nel 1993 con Credito Italiano, Comit, Ina, Enel, Eni, Sme, Stet,
San Paolo, Bnl, Poste, per un valore totale di 120 miliardi di euro. Nello
stesso periodo nascono i Fondi immobiliari: con il Dpef 1991-93 inizia
la dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato, degli Enti pubblici
e delle Assicurazioni. Il cambiamento principale sta nel fatto che queste
proprietà davano una rendita stabile e aumentavano di valore con
l’inflazione, ma non davano liquidità corrente perchè prevaleva
il concetto di preservare il patrimonio anche a tutela dei rischi. I primi
fondi immobiliari erano di tipo chiuso, poi con apporto di capitali (legge
del 2000) ed in prospettiva si prevede la loro convertibilità con
i Bot.
Nel 1998 viene quotata in borsa l’Unione Immobiliare nata da Ina: valore
2,6 miliardi di euro; poi Beni Stabili, Immsi - Sirti, Falck, Standa, Enel,
Toro assicurazioni RAS, etc.
Nel 2002 c’erano 12 società di gestione del risparmio immobiliare,
nel 2005 erano 23 con un patrimonio gestito di 8,4 miliardi di euro (+30%
rispetto al 2004). I fondi immobiliari operanti attualmente sono circa
20 con un fatturato cresciuto da 65 miliardi di euro nel ‘98 a 123 miliardi
nel 2006.
I primi sintomi di controtendenza alla crescita del settore immobiliario
si manifestano negli Usa intorno al 2000 con ripercussioni significative
sull’andamento dei titoli. A questo punto la Fed interviene abbassando
il costo del denaro ed incentivando il risparmio delle famiglie verso i
beni immobili con l’utilizzo dei più diversi strumenti finanziari
allo scopo di sostenere la capitalizzazione di borsa del settore, che era
decisamente gonfiata rispetto al valore reale degli immobili. Di qui una
politica di concessione dei mutui immobiliari, che ha consentito l’accesso
al credito anche a soggetti caratterizzati da un basso reddito e da scarsa
affidabilità (pignoramenti, inadempienze, ritardi, fallimenti, etc).
I fattori alla base dello shock negli Usa sono stati tre: concessioni di
mutui a condizioni vantaggiose a clientela subprime (vedi scheda), incremento
dell’onerosità del mutuo, crescita artificiosa del valore degli
immobili. Il sistema è crollato quando il mercato immobiliare ha
smesso di crescere, invertendo il trend rialzista. La discesa del valore
degli immobili, dopo dieci anni di crescita ininterrotta, ha determinato
l’esproprio delle abitazioni, la crescita del numero di insolvenza dei
mutuatari, un alto livello di delinquency e di bancarotta delle società
finanziarie. Ma siccome i primi e principali investitori dei Fondi immobiliari
erano Fondi pensione, Fondi comuni di investimento ed ovviamente Banche,
la crisi subprime è giocoforza uscita dall’ambito ristretto del
settore immobiliare ed ha contagiato tutto il resto.
Ora, non c’è dubbio che tutto ciò rimandi ad un concetto
di crisi, come ci ripetono tutti i giorni commentatori e politici
di ogni tipo, ma, come spesso accade, deviando la nostra attenzione dalle
motivazioni reali che potrebbero esserne alla base.
A mio avviso la crisi dei subprime, quella immobiliare o quella della
new economy non costituiscono il preludio di una crisi sistemica del capitalismo,
tanto meno se a questa si vuole attribuire un carattere definitivo: credo
piuttosto che si tratti di epifenomeni di un processo iniziato negli anni
’70, allorquando si inceppò il circolo “virtuoso” dello sviluppo
postbellico. In quel momento fu chiaro, al di là del sostegno rappresentato
dalle politiche keynesiane, che il meccanismo di accumulazione che aveva
fin lì funzionato aveva raggiunto il suo limite perché basato
su una produzione di merci in misura crescente e superiore alla domanda,
stante la dimensione dei mercati di allora. Crisi di un modello di sviluppo
dunque, che era anche esaurimento di un modello di consumi, di una tecnologia
e di una divisione internazionale del lavoro. Tutto ciò che ne seguì
– ed è tantissimo in termini di ristrutturazione complessiva del
ciclo capitalistico - non ha risolto la contraddizione di fondo insita
nella produzione di merci.
Cominciò Reagan favorendo le concentrazioni e le fusioni societarie,
grazie ai benefici fiscali concessi alle grandi corporations. Ma questo
processo di concentrazione aveva bisogno di capitali per realizzarsi e
perciò le industrie si indebitarono al punto che, tra il 1983 ed
il 1990, oltre il 70% di tutte le acquisizioni azionarie realizzate negli
USA erano state fatte da società non finanziarie proprio con i soldi
avuti in prestito dalle banche. Successivamente, in pieno liberismo, i
processi di privatizzazione vanno nel senso sia di limitare le prerogative
dello Stato, che di ridurne la presenza nei principali settori dell’economia:
lavoro e previdenza; bancario e societario; concessioni per sfruttamento
di materie prime e servizi. Il tutto finalizzato a dare maggiore remuneratività
agli investimenti, che però non genera un allargamento della base
produttiva, né una crescita dei consumi (valga per tutti l’esempio
del settore auto), ma solo una fortissima concentrazione di capitali.
Nel 1990 gli Investimenti stranieri diretti (Isd) nei Paesi in via
di sviluppo (Pvs) erano inferiori di otto volte a quelli nei Paesi sviluppati
(Ps): 23 miliardi contro 186 miliardi di dollari; nel 2000 tale rapporto
era ancora di circa cinque volte (190 miliardi contro 899 miliardi di dollari)
confermando l’apparente contraddizione per cui il capitale (che è
quasi totalmente sotto il controllo dei Ps) non va verso i Pvs se non per
un 20%, mentre per l’80% gli stessi Ps lo investono “fra di loro”. In particolare
gli Isd in Europa sono aumentati di sei volte tra il 1995 e il 2000 raggiungendo
la cifra di 617 miliardi di dollari (68% del totale mondiale).
Se si rapportano questi dati alla popolazione corrispondente dei due
aggregati (quella dei Pvs è assai più numerosa di quella
dei Ps) ci si rende conto che la quota di investimento per abitante nei
Pvs è irrisoria e dunque senza benefici; benefici che invece si
sarebbero dovuti riscontrare nei Ps considerato l'alto valore dell'investimento
per abitante. Ma non è stato così, perchè le
modalità con cui sono stati spesi questi Isd hanno riguardato per
il 70% acquisizioni e fusioni societarie.
Tra il 1995 e il 2000 questa attitudine si è quadruplicata in
valore raggiungendo la cifra di 720 miliardi di dollari nel 2000 pari all’80%
del totale Isd nel mondo. Ciò significa che la stragrande maggioranza
è andata in processi di concentrazione capitalistica (dominio dei
mercati, eliminazione della concorrenza, internazionalizzazione della produzione)
a cui sono seguiti inevitabilmente enormi tagli occupazionali.
Solo negli Usa nella seconda metà degli anni ’90 il valore annuale
delle acquisizioni azionarie delle società industriali si
è quadruplicato, ma ciò ha fatto salire ancora di più
l’indebitamento delle imprese verso banche ed istituti finanziari. Vale
a dire che dagli anni ’90 in poi gli utili delle imprese industriali sono
finiti in minima parte in investimenti produttivi (soprattutto in innovazione
tecnologica) ed in massima parte in operazioni finanziarie (concen-trazioni
e acquisizioni azionarie) sia per sostenere l’iper valutazione di borsa
(unico modo per “soddi-sfare” il creditore finanziario, cioè
le banche), sia perché non c’era modo di fare profitti attraverso
un ampliamento della base produttiva, dato che l’apertura dei mercati asiatici,
nel giro di pochi anni, ha saturato la produzione assai più di quanto
abbia rappresentato uno sbocco al consumo. E non poteva essere diversamente.
Detto con parole più semplici: con l’esaurimento del ciclo di
sviluppo postbellico si perfeziona il dominio del capitale finanziario
sull’insieme dei processi produttivi e, con il crollo dell’Urss e la susseguente
apertura dei mercati russo e cinese, prende corpo il processo di globalizzazione
dell’economia, il modo di produzione capitalistico si fa universale: ma
tutto ciò non muta il carattere principale della crisi - la sovrapproduzione
di merci - che si ripresenta con virulenza alle soglie degli anni 2000.
Oggi le banche non danno più soldi alle imprese (anzi rivogliono
indietro quelli prestati!) ed i soliti commentatori giudicano deprecabile
questo atteggiamento: ma che dovrebbe fare il capitale, investire contro
se stesso? Le banche (come le imprese del resto) conoscono bene la situazione
dei mercati, sanno che i consumi sono stressati per la moltiplicazione
dei prodotti, che la concorrenza è feroce e i salari al limite della
sopportabilità, ma ognuna di esse (banca o impresa), posta di fronte
ad un’ipotetica scelta tra aumentare i salari per far ripartire il meccanismo
dei consumi o abbatterli per vincere la concorrenza sceglierà la
seconda ipotesi, perché è lì, cioè contro il
lavoro, che il capitale gioca prioritariamente la sua partita. Per questo
non mi aspetto che la crisi precipiti, quanto piuttosto che essa sia gestita
dal capitale per ricostituire il saggio di profitto nonostante la crisi,
certamente con grossi processi di ristrutturazione (ad esempio nel ciclo
dell’auto, o nel settore dell’energia), ma soprattutto con un attacco incessante
alla condizione del lavoro di cui i ripetuti ed esagerati allarmi sull’economia
mondiale rappresentano il collante ideologico con il quale si vuole far
coincidere gli interessi degli operai con quelli dei padroni, le sorti
del capitale con quelle degli sfruttati.
E la paura seminata a piena mani in appena tre mesi ha già dato
i suoi frutti: l’accordo firmato il 22 gennaio scorso (con l’esclusione
della CGIL) sulla revisione della contrattazione nazionale e la sordida
proposta di lavorare quattro giorni a settimana (con salario ridotto) sono
entrambi volti a farci capitolare di fronte alla crisi, lavorando di più,
ma con meno soldi.