di Valerio Evangelisti, "Carmilla", N. 5/2002
Il dilagare dell'antiamericanismo, a cui assistiamo ultimamente, è
un fenomeno davvero inquietante. Certa gente, ingrata, si scorda il debito
che abbiamo tutti nei confronti degli Stati Uniti, del loro popolo, della
loro cultura. Un debito enorme, difficile da estinguere. Eppure c'è
chi si dedica al facile sport della denigrazione, o a quello, non meno
grave, dell'oblio. Vogliamo fare i nomi? Facciamoli. Giuliano Ferrara,
Oriana Fallaci, Fiamma Nierenstein, Maria Giovanna Maglie, Gianni Riotta,
Vittorio Feltri e decine e decine di altri, fino ad Alberto Sordi e a Paolo
Villaggio. Il peggio è che tutti costoro si sono convertiti all'antiamericanismo
viscerale subito dopo l'11 settembre, e cioè nel momento stesso
in cui gli Stati Uniti non dovevano essere lasciati soli. Disprezzo, ignoranza
o cos'altro? Credo ignoranza, o almeno voglio pensarlo. Basterebbe un semplice
test. Domandare ad alcuni dei personaggi che ho elencato chi sia Jello
Biafra. Sembra impossibile ma non lo sanno, così come non sanno
chi fossero i Dead Kennedys (se non nel senso letterale dell'espressione).
Nessuno di loro ha mai letto Due tette e niente testa di Naomi Jaffe e
Bernardine Dohrn, Fallo! di Jerry Rubin, Cogliere l'occasione di Bobby
Seale, La controrivoluzione globale di Huberman e Sweezy, Lavoro e capitale
monopolistico di Harry Braverman, Col sangue agli occhi di George Jackson,
La crisi fiscale dello Stato di James O' Connor, La prossima volta il fuoco
di James Baldwin.
Sto citando ovviamente alla rinfusa: è evidente che nessuno
può conoscere tutti i libri esistenti. Ma se uno vuole occuparsi
di Stati Uniti d'America, qualcosina dovrebbe sapere. Altrimenti nasce
il sospetto che una lacuna limitata e superficiale ne nasconda altre abissali;
che non sapere chi sia Jello Biafra segnali l'ignoranza più completa
di chi fossero Big Bill Haywood ed Elizabeth Gurley Flynn, Eugene Debs
e Daniel DeLeon. Gli antiamericani di professione non sanno certamente
nulla degli scioperi durante la guerra di secessione, dell'organizzazione
degli Knights of Labor, dell'epopea dinamitarda dei Molly Maguires, dell'anarchismo
di Johann Most. Non hanno mai udito parlare delle lotte multietniche di
Lawrence e Paterson, dello sterminio pianificato e sistematico degli Industrial
Workers of the World. Conoscono Arlo Guthrie per qualche vecchio film,
ma ignorano Woody. La nascita della CIO li lascia indifferenti (a loro
preme solo la CIA).
Interpellati su tutto ciò e su altro ancora, risponderebbero
che si tratta di fenomeni marginali. Un punto di vista del tutto identico
a quello di Bin Laden. Ma è marginale il fatto che, negli Stati
Uniti, il movimento studentesco degli anni Sessanta sia riuscito a bloccare
la guerra nel Vietnam? E' marginale che si sia saldato con la disaffezione
dei soldati e il rigetto dei veterani, capaci di disfarsi di medaglie e
nastrini in impressionanti riti collettivi?
Marginale un accidente. Esiste, ed è sempre esistita, un'America
non inquadrata nelle scelte delle élites al potere. Capace, all'occorrenza,
di rovesciarle, malgrado una repressione senza riscontri al mondo, per
volontà di annientamento. Da Joe Hill a Wesley Everest, castrato
e impiccato dall'American Legion, da Sacco e Vanzetti ai Rosenberg, da
Fred Hampton a Mumia Abu-Jamal a Silvia Baraldini, il capitale statunitense
si è sempre liberato senza troppe cerimonie degli elementi perturbatori.
In linea con la politica condotta sul piano internazionale, priva di scrupoli
nel sostenere regimi inverecondi e nell'abbatterne altri solo indocili,
con totale disprezzo per la loro sovranità.
Non è mai riuscito, però, né a sintetizzare l'anima
del paese, né a cancellarne completamente i sussulti libertari.
In piena
"era Reagan", quando in America Centrale governi votati al genocidio
erano proposti a modello e i militanti delle squadre della morte venivano
promossi eroi, negli USA operavano oltre 2000 comitati di sostegno al Salvador.
Attori di fama come Christopher Walken, Martin Sheen, Ed Harris si mettevano
in marcia verso il Nicaragua minacciato da bande mercenarie. Si faccia
un parallelo con i Sordi e i Villaggio che, patetici su un palco, agitano
uno straccetto a stelle e strisce. L'America era la prima. La seconda è
la sua miserevole caricatura. Anzi, diciamo pure che ne è l'antitesi.
Gli antiamericani di professione, arrivati fin qui, diranno che la
tolleranza delle espressioni di dissenso è l'ennesima dimostrazione
della grandezza delle forme di governo statunitensi, capaci di tollerare
gli anticorpi. Balle. Molti dei nomi che ho elencato corrispondono ad omicidi,
ad arresti arbitrari, a forme di emarginazione. Degli scrittori che ho
citato, almeno due sono morti di morte violenta, mentre altri si sono fatti
anni di prigione. Le organizzazioni cui taluni di essi appartenevano, tipo
gli IWW, le Pantere Nere, il Partito Comunista, sono state oggetto di infiltrazioni,
assassinii individuali, provvedimenti di messa al bando. Le espressioni
artistiche sono state meno colpite, certo. Però l'attrice Jean Seberg
fu costretta dall'FBI ad abortire e poi spinta al suicidio. Il documentario
di Barbara Trent The Panama Deception, che documenta la verità sul
massacro compiuto dai marines a Panama nel 1989, negli USA non ha mai circolato,
pur avendo vinto l'Academy Arward. Il film di Haskell Wexler Latino (Urla
di guerra dal Nicaragua) venne proiettato in una decina di cinema, tra
New York e San Francisco, sebbene tra i finanziatori avesse nientemeno
che George Lucas. Un'apposita commissione, l'USIA, visiona tuttora i film
in produzione a
Hollywood, e nega o accorda il suo benestare alla realizzazione e all'esportazione
a seconda dei contenuti.
Il popolo americano, sia nelle sue espressioni antagonistiche, sia
nella sua componente maggioritaria estranea alla politica (e poco interessata
al ruolo di gendarme del mondo), è dunque sottoposto a violente
forme di disinformazione che, se inefficaci, possono sfociare nella brutalità
più spietata. Quel popolo va aiutato, capito, incoraggiato - perché
no, amato. Lo chiedeva di recente una accorata Lettera di 102 intellettuali
americani ai loro amici europei, che si apriva con una riflessione importante:
"Il sofisma fondamentale di coloro che fanno l'apologia della guerra è
confondere i 'valori americani' con gli effetti dell'esercizio del potere
degli Stati Uniti all'estero". Continuava mettendo in guardia dal "timore
di essere etichettati 'antiamericani': la stessa etichetta che viene assurdamente
applicata agli Americani che si oppongono alle politiche belliciste, le
cui proteste sono
facilmente annegate nel fiotto di considerazioni scioviniste che domina
i media statunitensi". E asseriva che "la maggior parte dei cittadini americani
non sanno che gli effetti del potere degli Stati Uniti all'estero non hanno
niente a che vedere con i 'valori' celebrati nel loro paese e che, di fatto,
servono spesso a privare la gente di altri paesi della stessa possibilità
di provare a fruire di quei valori, se lo desidera." Chi scrive su questa
rivista avverte il preciso dovere di raccogliere l'appello. Si è
nutrito di una letteratura che, se non è nata in America, là
ha comunque trovato il suo massimo rigoglio. Ha concepito mondi alternativi
attraverso la fantascienza avventurosa e favolosa, ha sogghignato amaro
tramite Robert Sheckley e Philip K. Dick, ha conosciuto gli inferni metropolitani
sulle pagine di Hammett, Goodis, Thompson, ha coniugato l'aspro realismo
di Steinbeck e di Dos Passos con la modernità ribelle di Sol Yurick
e di Chuck Pahlanjuk, ha imparato da Ellroy la scabra attinenza col presente
della narrativa di genere. Un debito enorme, che oggi gli impone di difendere
l'America che ama da chi la denigra fingendo di esaltarla, mentre esalta
solo il suo governo e la sporcizia e il sangue di cui dissemina il mondo.
E' una lotta per certi versi analoga a quella contro l'antisemitismo
feroce di chi vorrebbe amalgamare all'ebraismo, o a qualcosa a esso attinente,
l'attuale violenza del governo di Israele. E' un contare sulla cattiva
memoria. Come se ci si fosse già dimenticati che due anni fa (sembra
una vita) i ragazzini palestinesi uccisi erano più di un'ottantina,
quando è caduto il primo israeliano; dopo di che la progressione
della barbarie era avviata. Ma, soprattutto, come non si sapesse che tantissimi
ebrei, di Israele e di tutto il mondo, avevano espresso fin dal primo istante
il loro raccapriccio, per atti che ferivano la loro storia prima ancora
che le loro credenze. Il parteggiare per il governo israeliano nel momento
stesso in cui umilia un altro popolo, l'esaltare l'amministrazione Bush
allorché promuove guerre senza fine e rispolvera il peggiore arsenale
dell'imperialismo (con tentato golpe in America Latina incluso nel campionario),
sono in realtà altrettante espressioni di un atteggiamento sempre
più corrente: quello di irridere alle vittime e di attribuire ogni
possibile ragione agli aguzzini, magari presentando questi ultimi, con
una serie di sofismi, nei panni abusivi dei perseguitati. E' un rovesciamento
di valori morali di portata epocale, che lascia scorgere la sostanza spirituale
del capitalismo scorta da Max Weber nell'etica protestante: successo e
potenza sono segni certi di conformità al bene, debolezza e sconfitta
riflettono adesione al male e tare ripugnanti. Così si acclama a
gran voce la giornalista che incita all'odio contro gli immigrati, il commentatore
che denuncia l'arroganza dei palestinesi acquattati nei loro villaggi ridotti
in macerie, il saggista che ci dimostra l'inferiorità connaturata
di civiltà devastate dal colonialismo.
Vincere non è solo bello: è anche giusto. Schiacciare
gli sconfitti significa punirli della loro abiezione. Chi si ribella all'inversione
dei valori è un ingenuo abbarbicato alla favoletta del politically
correct, e merita la sorte di coloro per cui si schiera. Adottato questo
schema, si ha la cifra esatta di tante prese di posizione recenti. Comunque
Carmilla non può occuparsi di tutto. Questo numero vuole essere
anzitutto un duro colpo all'antiamericanismo. Da leggere con la cuffia
sulle orecchie mentre si riascoltano i Circle Jerks e i Public Enemy, gli
Steppenwolf e Woody Goothrie. Le voci vere di un'America vera, che va aiutata
a sottrarsi al destino indicato da Richard Wright nel più bello
dei suoi romanzi, Fame americana: "Se questo paese non riesce a trovare
la
via di un sentiero umano, se non può informare il proprio comportamento
con un senso profondo della vita, allora tutti noi, neri e bianchi, finiremo
nella stessa fogna…".