Girolamo De Michele, http://www.carmillaonline.com, gennaio 2010
La pubblicazione del volume La sfida educativa (Laterza, Bari 2009, pp. 224, € 14.00), a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), con la Prefazione di Camillo Ruini, consente di fare il punto sulla politica educativa e scolastica della Chiesa e delle lobbies ad essa correlate, e di ricostruirne le strategie a partire dalla loro formalizzazione in un vero e proprio progetto politico: come sempre avviene, è l’anatomia dell’uomo che consente di ricostruire quella della scimmia.
Una precisazione. La strategia progettuale di cui questo volume fa testimonianza è una strategia di lungo – anzi: lunghissimo – periodo. In un lontano, ma ancora attuale (e per alcuni versi preveggente) libro del 1954, Storia della scuola popolare in Italia, Dina Bertoni Jovine osservava che, all’indomani del Concordato del 1929, la politica scolastica del Vaticano «si svilupperà in una duplice direzione: diffondere una crescente indifferenza per la scuola dello Stato; sviluppare e rinvigorire una legislazione che favorisca la scuola privata, nella sicurezza che, nel campo dell’iniziativa privata, nessun ente potrà, per lungo tempo, competere con le forze clericali». Lo studio di Bertoni Jovine giungeva a constatare il fallimento del progetto, debole ed elitario, di un’educazione fondata sulla tradizione del riformismo illuministico, concretatosi con i Patti Lateranensi: un’impostazione che potrebbe valere anche per una storia della scuola e del problema educativo nell’Italia repubblicana. E che vale senz’altro per delineare le mosse di una potente lobby educativa nell’ultimo decennio.
Possiamo riassumere queste mosse in tre passaggi strategici.
Nel primo viene lanciato l’allarme dell’emergenza educativa.
Nel secondo si scatenano, con toni apocalittici e talvolta sguaiati
(ma non casuali), i taliban.
Infine viene avanzata una – apparentemente – pacata proposta che sembra
espungere i radicalismi e proporsi come una ragionevole piattaforma formulata
in nome del bene comune.
C’è, in realtà, un quarto passaggio, che resta celato
dall’apparente opposizione allo stato di cose presente: ma di questo, più
avanti.
Per definire questa strategia uso qui una categoria concettuale proposta a suo tempo da Umberto Eco in Apocalittici e integrati: i venditori di Apocalisse [1]. Il venditore di Apocalisse è quell’intellettuale che si costituisce come «esperto del “dove andremo a finire”», piuttosto che accettare l’esistenza di un nuovo orizzonte di problemi: come i dotti di Salamanca che confutarono Colombo, e davanti all’evidenza empirica dell’esistenza dell’America sostennero con pervicacia che «l’America esiste, è vero, ma è male che esista, e gravi danni ne conseguiranno per la comunità umana». Ricordate l’insegnante Saverio, ossia Roberto Benigni in Non ci resta che piangere? Voleva impedire a Cristoforo Colombo di partire perché la scoperta dell’America aveva messo in moto una serie di eventi culminati con la sofferenza della di lui sorella ad opera di un americano: ecco, il venditore di Apocalisse è uno così. Con una variante, rispetto all’originaria proposta di Eco: a volte assume toni ancora più catastrofici, e si fa esperto non del “dove andremo a finire”, ma del “dove siamo andati a finire”.
Dove siamo andati a finire, dunque? Nel pieno di un’emergenza educativa, ci dicono. E come ci siamo arrivati? Ce lo spiega (siamo al primo passaggio) un Appello per l’Educazione lanciato nel 2005 da Comunione e Liberazione in “appoggio” alla pubblicazione di Il rischio educativo di don Giussani [2]. L’appello è intitolato Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio: una frase di don Giussani che nasconde, dietro l’apparente ovvietà dell’enunciato, un ambiguo senso secondo. Se, infatti, in apparenza nessuno potrebbe negare l’enunciato nella sua formulazione ingenua, a ben vedere dentro questo accattivante Cavallo di Troia viene suggerito che il popolo avrebbe bisogno di essere educato perché attualmente non lo è: e, a ben pensarci, perché da solo non ne è capace. Per dirla con un intelligente blogger: se il pastore lo chiama gregge ci sarà un motivo. L’appello si apre con l’allarmante denuncia di «una cosa che non era mai accaduta prima: è in crisi la capacità di una generazione di adulti di educare i propri figli». Il motivo è presto detto: i maledetti 40 anni che ci separano dal ’68, fonte di tutti i mali. Un ritornello che diventerà, due-tre anni dopo, ossessivo: «Per anni dai nuovi pulpiti - scuole e università, giornali e televisioni - si è predicato che la libertà è assenza di legami e di storia, che si può diventare grandi senza appartenere a niente e a nessuno, seguendo semplicemente il proprio gusto o piacere». Questa l’anamnesi. La diagnosi è conseguente: «È diventato normale pensare che tutto è uguale, che nulla in fondo ha valore se non i soldi, il potere e la posizione sociale. Si vive come se la verità non esistesse, come se il desiderio di felicità di cui è fatto il cuore dell’uomo fosse destinato a rimanere senza risposta».
Nulla di nuovo, per certi versi. Si dà per certa una peculiare
concezione dell’educazione, della vita, del mondo; si constata che l’educazione,
la vita, il mondo non vanno nella direzione dovuta; si fornisce una descrizione
caricaturale di questo nuovo mondo, funzionale alla critica che dovrebbe
seguirne (una petizione di principio); e si conclude col «dove siamo
andati a finire» tipico dei dotti di Salamanca. Tutte cose già
dette, e meglio, nel libro di don Giussani.
Ma – è questo l’elemento rilevante – attorno a questo Appello
si coagula un insieme di firmatari che va ben oltre Comunione e Liberazione,
e che assume la forma di un vero e proprio schieramento pronto alla battaglia.
Impressionante è soprattutto il parterre del giornalismo; accanto
alla scontata la firma di Amicone e Bonacina (rispettivamente direttori
di Tempi e Vita), Davide Rondoni e Dino Boffo (all’epoca direttore di Avvenire),
troviamo Maurizio Belpietro (Il Giornale), Carlo Rossella e Paolo Liguori
(Mediaset), Mauro Mazza (direttore TG2), l’agente del SISMI Renato Farina
(Libero), Giuliano Ferrara (Il Foglio), Antonio Polito (Il Riformista),
Giancarlo Mazzuca (Quotidiano Nazionale), Franco Bechis, (Il Tempo), Ferruccio
De Bortoli (all’epoca in castigo al Sole 24 Ore), e Magdi non-ancora-Cristiano
Allam, il “pinocchio d’Egitto”, che sulla crisi della civiltà occidentale
è come i cagnolini di pezza sul cruscotto dell’automobile – non
serve a niente, ma non se ne può farne a meno [se vi siete persi
il saggio dedicato a Magdi Allam da Valerio Evangelisti, cliccate qui:
1,
2,
3,
4,
5].
E poi banchieri e affaristi: Franco Bazoli (Banca Intesa), Giuseppe Guzzetti
(CaRiPlo), Roberto Mazzotta (Banca Popolare di Milano), Giuseppe Mussari
(Fondazione Monte dei Paschi di Siena), Fabio Roversi Monaco (Fondazione
CaRisBo), Santo Versace (di professione fratello), Massimo Calearo (Federmeccanica,
poi deputato PD, poi fuoriuscito dal PD dopo aver scoperto che era un partito
“di sinistra”), Giorgio Squinzi (MAPEI) e Andrea Muccioli (San Patrignano),
Gaetano Quagliarello e Giorgio Israel. E qualche simpatica ciliegina sulla
torta, da Pupi Avati (tra i primi firmatari) alla Mina nazionale (in veste
di giornalista,
non di cantante: ma tant’è...).
È commovente pensare che tanti stimati giornalisti, ciascuno
nel proprio mestiere maestro di sincerità e trasparenza, abbiano
sentito questo doveroso imperativo come prioritario. E che tanti banchieri,
affaristi, uomini d’impresa, trascinati dall’imperativo etico di risollevare
le sorti dell’educazione, siano rimasti sorpresi dall’esplodere di una
crisi globale alla quale, per nobilissime ragioni, non avevano avuto tempo
di prestare attenzione.
Cosa succede dopo questo Appello che di fatto è un Manifesto? Che il tema dell’emergenza educativa, ormai lanciato, viene diffuso in modo ossessivo. E non solo dalle testate ufficialmente “di destra”: nel frattempo De Bortoli, che aveva qualcosa da farsi perdonare, ha finito di scontare il purgatorio al Sole 24 Ore, ed è tornato alla direzione del Corriere della Sera, dalle cui colonne partono le bordate di alcune tra le sue più autorevoli firme, come Ernesto Galli della Loggia ad Angelo Panebianco. Che, come dimostrano i loro editoriali, di scuola poco sanno e ancor meno capiscono, ma per la proprietà transitiva dell’autorevolezza espressa per la prima volta in San Giovanni decollato da Totò nel ruolo di Mastr’Agostino Miciacio (un ciabattino talmente bravo da essere soprannominato “il professore”, dunque per definizione un professore tout court, un pozzo di scienza capace persino di sapere come si fa una scarpa), se sono autorevoli in un campo lo sono, o ritengono di esserlo, sull’intero globo terracqueo, dunque anche sulla scuola.
La reiterazione dell’emergenza educativa procede di pari passo con la campagna sulla “dittatura del relativismo”, vero cavallo di battaglia del cardinale Ratzinger, nel frattempo assurto al Soglio Pontificio, e ne costituisce una sorta di conseguenza empirica: nell’età del vuoto nichilistico e dell’indifferenza etica, l’educazione non può che essere in stato d’emergenza. In verità la “dittatura del relativismo” è, dal punto di vista logico, filosofico ed effettuale, un ronzino azzoppato più che un cavallo, che esso si regga solo al prezzo di fallacie logiche e scorrettezze argomentative più volte rilevate [3]. Basterebbe ricordare queste parole di Gustavo Zagrebelsky: «dire a una persona "tu sei un relativista", significa qualcosa di molto simile al dirgli "tu sei un nichilista, tu non credi in nulla". Ma dire che le istituzioni democratiche devono essere relativiste significa che devono sostanzialmente rispettare una posizione di neutralità tra le posizioni sostanziali che vivono nella società in modo che tutte possano vivere e possano espandersi» [4]. Ma questo non preoccupa più di tanto. Nella società della comunicazione e dello spettacolo, nella società postmoderna, l’effetto prodotto da un enunciato è più importante del suo valore di verità: un paradosso che non sembra essere colto dagli spuntati avversatori del cosiddetto nichilismo postmoderno.
In parallelo con la campagna di denuncia dei mali della modernità
– «dove siamo andati a finire, signora mia!» – procede la campagna
sull’emergenza educativa. Nella quale si distinguono, per la violenza con
cui, sgomitando, si affacciano sulla scena, i catastrofisti.
Ne è un esempio Giorgio Israel, che in una impressionante serie
di interventi su quasi tutti i quotidiani in qualche modo rappresentati
nell’Appello per l’Educazione reitera sempre gli stessi concetti. Il principale
dei quali è l’estensione dell’emergenza educativa all’intero Novecento:
la crisi dell’educazione, infatti, è il prodotto di una distorsione
pedagogica che parte da John Dewey e Jean Piaget, per arrivare, ai giorni
nostri, a Morin, ai teorici della “complessità” e del concetto di
“sistema” (concetti che per Israel sono come il famoso punto G: non riuscendo
a trovarli perché non li capisce, ne nega l’esistenza), attraverso
la pedagogia sovietica, don Milani e l’attuale riforma educativa del governo
Zapatero.
Questa ricostruzione ricorda certe deliranti teorie del complotto,
che costituiscono la migliore confutazione empirica della pseudo-teoria
della creazione mediante un disegno intelligente: come quella che vuole
Aldo Moro consegnato dalle Brigate Rosse a una Loggia Massonica segreta
al cui vertice (cioè al 51mo grado, da cui Grado-LI) ci sarebbe
stato il Maître du Glaive (=il Signore del Gladio), con annessi cavalieri
dell’Ordine di Malta, Rosa-Croce e via delirando [5]; o consimili deliri
neo-nazisti sul complotto giudo-massonico che avrebbe per sede non più
i sotterranei della Banca di Londra, ma il MIT di Boston; o infine, una
qualunque puntata del programma televisivo Voyager. Basterà osservare
che su Dewey e Piaget sono stati costruiti i sistemi scolastici di un secolo
intero, e che se la tesi di Israel avesse una parvenza di verità
la catastrofe educativa avrebbe dovuto travolgere l’intero sistema occidentale
di istruzione.
Accanto al professor Israel, come non notare Mario Giordano, col suo
libro just in time sulla scuola 5 in condotta, che attinge copiosamente
a La fabbrica degli ignoranti di Giovanni Floris (il conduttore di Ballarò)
[6], e condivide con quest’ultimo la bufala del numero di bidelli che sarebbe
superiore a quello dei carabinieri?
Un vecchio trucco retorico, nella gestione delle dispute pubbliche,
è di far affiorare una posizione apparentemente radicale per poterne
assumere i contenuti fingendosi portatori di una tesi moderata, o quantomeno
misurata. E infatti, accanto agli sciabolatori senza briglie, viene a costituirsi
poco a poco una posizione che ingloba l’Appello per l’Educazione, magari
senza esplicitarlo, e reitera il tema dell’emergenza educativa in forme
più accurate, e a un più alto livello. Se ne fa carico, in
modo esplicito, Joseph Ratzinger il 29 maggio 2008 [qui]:
«In Italia, come in molti altri Paesi, è fortemente avvertita
quella che possiamo definire una vera e propria "emergenza educativa".
Quando, infatti, in una società e in una cultura segnate da un relativismo
pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari,
i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente,
tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al
proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più
quale sia il proprio ruolo e la propria missione. Così i fanciulli,
gli adolescenti e i giovani, pur circondati da molte attenzioni e tenuti
forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della
vita, si sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che
nascono inevitabilmente dentro di loro, come davanti alle attese e alle
sfide che sentono incombere sul loro futuro. Per noi Vescovi, per i nostri
sacerdoti, per i catechisti e per l'intera comunità cristiana l'emergenza
educativa assume un volto ben preciso: quello della trasmissione della
fede alle nuove generazioni. Anche qui, in certo senso specialmente qui,
dobbiamo fare i conti con gli ostacoli frapposti dal relativismo, da una
cultura che mette Dio tra parentesi e che scoraggia ogni scelta davvero
impegnativa e in particolare le scelte definitive, per privilegiare invece,
nei diversi ambiti della vita, l'affermazione di se stessi e le soddisfazioni
immediate».
Tracciata la direttrice, è Camillo Ruini a indicarne in modo
più accurato gli sviluppi, con la Lectio Magistralis «La questione
dell'educazione al tempo del relativismo» (tenuta il 2 febbraio 2009,
e pubblicata il giorno successivo su L’Osservatore Romano: qui):
la premessa a La sfida educativa, non a caso citata nell’Introduzione.
Sostiene Ruini che l’«educazione autentica» sarebbe minata
alla base da tre aspetti della cultura contemporanea: accanto alla dittatura
del relativismo e al nichilismo, il «"naturalismo", o più
esattamente riconduzione e riduzione dell'uomo a un elemento della natura:
[...] la tendenza a considerare l'uomo "soltanto una particella della natura".
Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando
egemone l'idea che il soggetto umano non sia altro che un risultato dell'evoluzione
cosmica e biologica: certamente il suo risultato più alto, almeno
per ora e nella piccola porzione dell'universo da noi meglio conosciuta,
ma pur sempre un risultato omogeneo a tutti gli altri, in particolare agli
animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive. In questa
ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l'intelligenza
e la libertà, non vengono certo negati, ma considerati semplicemente
sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi
progressivamente».
Accanto al rigetto di ogni concezione dell’umano e del suo posto del
mondo che non presupponga una Verità già data, viene insinuato
il sospetto su ogni concezione scientifica del mondo. Non a caso La sfida
educativa, a proposito dell’educazione alle «scienze della natura»
(si noti quel “della natura”, che sottintende l’esistenza di un’altra scienza,
non della ma al di là della natura, alla quale la prima sarebbe
logicamente subordinata), sostiene che «già la semplice presentazione
delle principali teorie scientifiche pone la questione della loro “verità”,
della corrispondenza delle loro affermazioni con una “realtà” che
non dipende da noi». L’apprendimento critico del sapere scientifico
dovrà quindi aver cura di «distinguere le affermazioni scientifiche
da quelle che scientifiche non sono. Si potrà così avviare
i giovani a distinguere le diverse forme di accertamento della verità
[corsivo mio]» [p. 55].
Chi ha orecchie per intendere intende, o intenderà.
O farà meglio ad intendere.
Questo concreto esempio serve a introdurre le tesi centrali del volume.
Il modello educativo proposto viene presentato come alternativo a due diversi
modelli educativi generali.
Il primo è quello che «punta sulla divaricazione di educazione
e formazione, in funzione dell’acquisizione di conoscenze, abilità,
competenze coerenti con l’assetto tecnologico del mondo contemporaneo»:
un modello aziendalistico, nel quale «l’educazione, in definitiva,
si risolve in trasmissione di informazioni e di capacità e in socializzazione
culturale».
Non è difficile individuare la radice di questo modello: si tratta
dei modelli educativi proposti dall’OCSE, dalle grandi lobbies industriali
interessate al ricco mercato dell’istruzione, con diverse sfumature dalla
stessa Commissione Europea. È un modello col quale, in parte, la
politica scolastica dell’ex ministro Berlinguer e dei suoi collaboratori
(Vertecchia, Frabboni) si è compromessa. Ma col quale anche l’attuale
governo si compromette in eguale, e forse maggiore misura, nella sua ossessione
di ridurre il sapere a unità oggettive, univoche, misurabili quantitativamente,
espungendo qualsivoglia forma di autonomia e di soggettività. È
una contraddizione che va tenuta presente.
Ma va anche tenuta presente la scorrettezza di questa presentazione:
che suggerisce che ogni prassi didattica che privilegia lo sviluppo delle
competenze sulla centralità dei programmi e delle nozioni lo faccia
per spirito aziendalistico. Che ogni didattica orientata non alla trasmissione
dei contenuti derivanti dalla tradizione, ma allo sviluppo di un’autonoma
capacità di orientarsi nel mondo attraverso l’acquisizione di strumenti
cognitivi – la didattica dell’imparare a imparare, del privilegiare la
testa ben fatta alla testa piena (Montaigne) - sia di per sé veicolata
al modello aziendalistico. È un esercizio di occultamento e di messa
in caricatura delle tesi contrarie di cui è cattivo maestro Giorgio
Israel, e che qui viene sapientemente occultato dalle forme retoriche.
Il secondo modello generale, «valorizza la spontaneità.
In prospettiva antiautoritaria, questa concezione contrasta l’idea di educazione
come trasmissione di modi di comportamento, di valori, di tradizioni e
pensa anzitutto in termini di autoeducazione, con al centro la qualità
del soggetto, la sua espressività e la sua creatività, intese
come spontaneismo soggettivo, e quindi anche sperimentale e nomade»
[p. 9].
Qui è chiaro cosa si avversa: l’idea che l’essere umano sia
capace di autodeterminazione; che sia in grado di creare un senso a partire
dall’assenza di senso; che sia autonomamente capace di scegliere tra la
pluralità delle proposte, dei valori, delle concezioni del mondo
attraverso la propria esperienza auto-formativa. Che lo scetticismo sia
un metodo che non conduce, come crede Joseph Ratzinger, al prevalere di
insoddisfazione, vuoto esistenziale, sradicamento, fragilità emotiva,
precarietà delle relazioni, sfiducia, odio di sé, confusione
dei ruoli di genere, calo del desiderio, impotenza generazionale – e chi
più ne ha, più ne metta; ma che, d’accordo con Giacomo Leopardi
– piaccia o non piaccia, il maggior esempio del nichilismo europeo – sia
la condizione per giungere, attraverso l’esperienza dell’arido vero, alla
dimensione dell’etica, alla social catena.
Da questo punto di vista non stupisce che gli autori di questo volume,
e i loro eminenti ispiratori, abbiano un approccio allarmato e allarmistico
della relazione tra infanzia e esperienza informatica: «fin di primi
anni di vita la mente è invasa dalle forme analitiche e frammentarie
delle pratiche informatiche e l’esperienza emotiva è eccitata e
sovraccaricata da un volume spropositato di sollecitazioni immaginative»
[p. 8]. Un dato che contrasta con quanto studiosi della mente del calibro
di Steven Johnson e Henry Jenkins hanno notato sullo sviluppo di capacità
logiche, di connessione del reale, financo mnemoniche della mente infantile
sollecitata dai nuovi media. Riemerge qui l’idea che il bambino – anzi:
il fanciullo – non sia un essere dotato di ragione (come presuppone la
didattica per moduli nella scuola elementare), ma un essere «tutto
intuizione e sentimento»: che, con le parole del ministro Gelmini
che ha bisogno di vedere nella maestra un sostituto della figura materna.
Ma è proprio questo, in ultima analisi, che unifica il variegato
schieramento politico-culturale che stiamo esaminando: l’autodeterminazione
dell’essere umano. Il suo non essere gregge, ma pastore di sé. È
per questo – non certo per bazzecole sul corso del sole o sull’infinità
dell’universo – che Giordano Bruno finì al rogo, e Galilei ci andò
vicino.
Per contro, il modello educativo cattolico-giussaniano incardina il
soggetto alla trasmissione della tradizione attraverso l’autorità
del maestro-testimone, la cui superiorità risiede(rebbe) nel possedere
un disegno unitario dotato di un centro; nel presupposto (se-dicente) antropologico
che «l’essere umano non è dotato di tutto ciò di cui
ha bisogno per diventare se stesso» [12]; che la ricerca di senso
dev’essere subordinata al riconoscimento che un senso è già
dato, e che tale ricerca si configuri come libera solo nella misura in
cui è libera di riconoscere quel senso – meglio: quel pre-giudizio
– come “Verità”. Che la fine dei “grandi racconti”, cioè
le «narrazioni delle grandi tradizioni culturali, religiose, morali
o politiche, che hanno proposto sensi unitari dell’esistenza, del mondo
e della storia» [16] sia un male – oh, Salamanca! – perché
solo un grande racconto può giungere «sino alla questione
di Dio», e solo tale questione può far sì che l’uomo
attribuisca un senso unitario alla realtà.
Che le “grandi narrazioni” siano finite perché erano sì
dotate di senso, ma di un senso imposto dalle classi, dai generi, dalle
potenze dominanti non sembra sfiorare la mente purissima di questi dotti.
Così come non ha spazio la constatazione che la capacità
di produrre narrazioni plurali riempie il vuoto lasciato dal “grande racconto”
dimostra la capacità autopoietica dell’essere umano.
Si tratta, in definitiva, di una riproposizione “debole” di un sapere
disciplinare che assoggetta l’educato ad una rassicurante tutela. Che,
davanti al rischio di vivere e di dare un senso alla propria esistenza,
ripropone lo scambio tra rassicurazione e rinuncia alla libera creazione
di sé. Che è una delle risposte possibili alla crisi della
società disciplinare: il rifugio nel caldo tepore delle passioni
tristi, nell’autopercezione di incompiutezza e incapacità come premessa
alla cessione del consenso verso l’autorità. In altri termini, in
risposta a una società globale che non si lascia governare, e spesso
neanche amministrare,viene proposto anche sul piano educativo un potere
pastorale che piega a proprio vantaggio paura e incertezza.
Tutto chiaro?
No: c’è dell’altro.
Discutibile quanto si vuole, la linea politico-culturale perseguita
attraverso libri come Il rischio educativo e La sfida educativa avrebbe
pur sempre la dignità di un’opposizione alle correnti politiche
educative: come accade, ad esempio, in Spagna.
Cosa accade in Italia?
Accade che, accanto all’opposizione “culturale”, le lobbies cattoliche
si dimostrano capaci di uno sfrenato consociativismo, incassando con la
sinistra da quello stesso Stato che con la destra contestano, accusandolo
di perseguire «l’ideologia della professionalizzazione».
Per capire come ciò accada, è necessaria una rapidissima
ricognizione dei rapporti tra scuola pubblica e scuola privata nell’ultimo
decennio: nel corso del quale si è affermato un «sistema pubblico
integrato» che ha trasformato le scuole private, e segnatamente quelle
confessionali, in scuole pubbliche private.
Cominciò il ministro Berlinguer, con la parificazione del sistema
educativo pubblico e privato: a condizione che il sistema privato aderisse
ad una serie di norme e controlli, si disse. Un compromesso storico-educativo:
il destino nei cognomi, diceva uno striscione studentesco all’epoca.
Il passo successivo fu, ad opera del ministro Moratti, la parificazione
dei titoli degli insegnanti nelle scuole private con quelli delle scuole
pubbliche: facendo sì che decine di migliaia di insegnanti che avevano
costruito una carriera secondo le regole della scuola pubblica si videro
scavalcati da insegnanti che avevano avuto accesso all’insegnamento non
per titoli, ma per conoscenze personali, selezionati non secondo le competenze
acquisite, ma secondo gli stili di vita e le adesioni ideologiche graditi
ai rettori delle scuole private.
Infine, i Decreti che consentono alle scuole private di accedere al
finanziamento pubblico, con buona pace della Costituzione, che all’art.
33, comma 3 stabilisce che scuole ed istituti privati devono essere istituiti
senza oneri per lo Stato. Prima il ministro Moratti (DM 11 febbraio 2005),
poi il ministro Fioroni (DM 21 maggio 2007) stabiliscono che la condizione
ineludibile per le scuole private per ottenere il finanziamento pubblico
sia un numero minimo di alunni per classe: 8 (OTTO)! Questo mentre il numero
minimo di alunni nella scuola pubblica sale, di anno in anno, sino a 30-32.
Il tutto senza alcun riguardo per la qualità della didattica.
Perché, con buona pace degli esaltatori delle virtù delle
scuole private, le nostre private sono tra le peggiori del mondo, come
attestato proprio quelle rilevazioni OCSE-PISA
abusate e manipolate per denigrare la scuola pubblica. Nello specifico,
l’Italia è l’unico paese dell’area OCSE nel quale le prestazioni
degli alunni delle scuole private sono non al di sopra, ma decisamente
al di sotto di quelli delle scuole pubbliche. E questo divario è
ancora più grave se si considera che gli istituti privati sono in
buona parte istituti liceali: perché, se la media delle prestazioni
degli studenti italiani esaminati nei test PISA risulta inferiore alla
media OCSE, è però altrettanto vero che le prestazioni degli
studenti dei Licei sono al di sopra della media OCSE, laddove – vale ripeterlo
– le risultanze degli istituti privati sono agli ultimissimi posti della
classifica OCSE.
E dunque, oggi le scuole private sono finanziate dallo Stato: sono,
cioè, un onere per lo Stato. Per quello Stato la cui Costituzione
dice senza oneri per lo Stato: così come dice che l’Italia ripudia
la guerra.
Di quanti soldi stiamo parlando?
La Finanziaria appena approvata assegna alle scuole private 540.1 milioni
di euro. Ma a questa cifra andrebbero aggiunte altre voci sparse tra le
pieghe della Finanziaria: il Rapporto
Sbilanciamoci 2010, che ogni anno elabora una dettagliata e motivata
contro-Finanziaria,
calcola in 732 milioni il contributo effettivo alle scuole private.
Ma non basta: poi ci sono i contributi degli enti locali. Perché
la Costituzione dice per lo Stato, non per gli Enti Locali: così
come la Maga Magò, nel duello dei Maghi, aveva promesso a Merlino
«niente draghi», non «niente draghi viola».
Ad esempio, la Regione Lombardia, governata da 15 anni da Roberto Formigoni
e saldamente in mano alla lobby politico-confessionale CL-Compagnia delle
Opere, assegna alle scuole private, nelle quali studia il 9% della popolazione
studentesca lombarda, l’80% dei fondi regionali per il diritto allo studio,
cioè circa 50 milioni di euro all’anno, ricorrendo, come denuncia
un
rapporto sindacale, a un vero e proprio trucco contabile: «Mentre
i genitori degli studenti della scuola pubblica devono esibire il certificato
Isee – il riccometro - per poter accedere a un piccolo contributo, i richiedenti
il buono scuola godono di un meccanismo inventato ad hoc per loro, denominato
“indicatore reddituale”, dove i limiti di reddito sono molto più
tolleranti e, soprattutto, dove non si deve dichiarare la propria situazione
patrimoniale, sia mobiliare, che immobiliare. E il risultato di questo
trucco è tanto stupefacente, quanto indecente, considerato che oltre
4mila beneficiari del buono scuola dichiarano al fisco addirittura un reddito
tra 100mila e 200mila euro annui oppure che altri risultano residenti nella
zone più prestigiose e costose delle nostre città, come per
esempio Galleria Vittorio Emanuele o via Manzoni a Milano».
Questo mentre alla scuola pubblica vengono tagliati, in tre anni, più
di 8 miliardi di euro. E, per restare in Lombardia, la storica esperienza
delle Scuole
Civiche milanesi rischia di morire per mancanza di finanziamenti.
E intanto, come scrive Marco
Lodoli, proliferano le scuole private d’élite: «Chi se
lo può permettere si tira fuori dal mazzo e iscrive i suoi bambini
nelle scuole più care ed esclusive: e non lo fa perché lì
si studia di più e meglio, ma solo perché i suoi pupi fanno
comunella con altri rampolli dorati, amicizie che faranno comodo più
avanti, e tutto il resto vada pure in malora. Siamo tornati al darwinismo
sociale, preparato fin dall’infanzia». E si comincia a capire perché
banchieri, affaristi, finanzieri si interessino tanto all’educazione.
Ricordate cosa scriveva Dina Bertoni Jovine sulla doppia politica della
Chiesa in materia di educazione e istruzione? Diffondere una crescente
indifferenza per la scuola dello Stato; sviluppare e rinvigorire una legislazione
che favorisca la scuola privata. Con una mano, le lobbies cattoliche agitano
l’allarme sull’emergenza educativa per denigrare e svilire la scuola pubblica,
con l’appoggio di un curioso esempio di ministro che, per la sua incapacità
di saper fare altro che sparare sul proprio quartier generale, potremmo
definire catto-maoista; con l’altra mano, attingono a volontà alla
cassa dell’affare-istruzione, grazie a quei fondi che si rendono disponibili
con i tagli alla scuola pubblica.
E potete star certi che, in questo caso, la mano destra sa benissimo
cosa fa la mano sinistra.
E ambedue, una volta incassato, applaudono.
Note
[1] Umberto Eco, «Da Pathmos a Salamanca», in Apocalittici
e integrati, Bompiani, Milano 1964, pp. 367-371.
[2] Luigi Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005.
[3] Mi permetto di citarmi: «È noto che su questa espressione,
ottenuta unendo due parole che scritte l'una dietro l'altra non significano
alcunché, Ratzinger ha scritto un libello a quattro mani con Marcello
Pera – un episodio inquietante, che dimostra come si possano occupare cattedre
universitarie senza alcuna seria verifica sulla scientificità della
produzione dei cattedratici. "Dittatura del relativismo" è, dal
punto di vista logico, una fallacia bella e buona, ottenuta confondendo
i livelli di denotazione delle parole usate: è come dire che la
democrazia non è democratica perché non ammette la dittatura
(come infatti affermava il cattolico tedesco Carl Schmitt). Ma non è
necessario ricorrere alla teoria dei tipi per confutare il PeRatzinger,
questa strana bestia filosofica, metà cardinale e metà vegetale:
basta, di Bertrand Russell qualche pagina più accessibile. Ad esempio
questa: «A un certo tipo di persone piace moltissimo ripetere "tutto
è relativo". Si tratta naturalmente di una sciocchezza, perché
se tutto fosse relativo non ci sarebbe più nulla con cui stare in
relazione»
Ciò che in logica si presenta come fallacia, in un'analisi del
linguaggio comune quale quella proposta da Harry G. Frankfurt è
una stronzata, cioè un discorso né vero né falso,
che cioè non presenta alcun interesse per (affermare o negare) la
verità: «mai dire una bugia quando puoi cavartela a forza
di stronzate». Sennonché, se dal punto di vista puramente
logico una stronzata resta tale anche se detta da un cattedratico, un cardinale
o un papa – tutt'al più sono questi a divenire "dicitori di stronzate"
–, dal punto di vista del rapporto tra linguaggio e mondo il ruolo e l'autorevolezza
dell'enunciatore contribuiscono nella prassi a costituire il valore dell'enunciazione.
Accade così che la "dittatura del relativismo", autorevolmente enunciata,
avvolga nelle sue nebbie logico-argomentative la sostanza della questione,
occultando la posta in palio e dando l'impressione che l'alternativa sia
tra un mondo privo di valori (il relativismo) e l'unica alternativa costituita
dai valori naturali» [Si deus est, unde Ratzinger? – I parte: qui].
[4] Gustavo Zagrebelsky, «Laicità. Pericolosi Non Possumus»,
l’Unità 23 marzo 2007 [qui].
[5] Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca, Il misterioso intermediario.
Igor Markevic e il caso Moro, Einaudi, Torino 2003.
[6] Mario Giordano, 5 in condotta. Tutto quello che bisogna sapere
sul disastro della scuola, Mondadori, Milano 2009; Giovanni Floris, La
fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, Rizzoli, Milano
2008.