Girolamo De Michele, www.carmillaonline.com, 12 febbraio 2007
La favola degli Italiani brava gente, dei colonizzatori buoni e gentili è ancora dura da sfatare, a dispetto di ricerche storiche accurate e dettagliate anche dal punto di vista documentaristico, come quelle di Angelo Del Boca, Tone Ferenc, Gianni Oliva, e di riviste come il Diario, I viaggi di Erodoto (Il confine orientale, n. 34/1998), Novecento. Proprio quest’ultima rivista, nel n. 3/2003, ha pubblicato una corposa inchiesta curata da Mimmo Franzinelli: I crimini di guerra italiani. All'interno di questa inchiesta, un drammatico quadro dei crimini commessi sulla popolazione slava dall'esercito italiano nell'ex-Jugoslavia nel periodo 1941-43.
«Controguerriglia ed eccidi di civili: questa la percezione delle
popolazioni dell’ex-Jugoslavia sull’occupazione italiana. Direttive e rapporti
delle autorità militari sull'attività delle nostre forze
armate in Siovenia e Croazia documentano l'adozione di una politica spietata,
avviata nella regione di Lubiana sin dal 1941 con uccisioni in massa di
prigionieri senza processo, in una catena di violenze contro i civili che
raggiunse l'apice nel 1942-43». Così inizia la sezione del
saggio di Franzinelli dedicata ai crimini italiani nella ex-Jugoslavia.
Artefice principale dei massacri perpetrati ai danni della popolazione
civile e dei resistenti contro l’occupazione nazi-fascista fu il generale
Mario Robotti, comandante dell'XI corpo d'armata, che nell'estate del 1942
decretò l'invio in “campi di prigionia” dei maschi tra i 18 e i
55 anni trovati in località isolate: «Internare tutti gli
sioveni e mettere al loro posto degli italiani (famiglie dei feriti e dei
caduti italiani). In altre parole far coincidere i confini razziali con
quelli politici». Inizia così la pulizia etnica italiana.
«Ad analoghi intenti, prosegue Franzinelli, si conformò la
strategia adottata nel luglio agosto 1942 dal generale Umberto Fabbri,
che ordinò al raggruppamento della Guardia a frontiera dei 5°
corpo d'armata la fucilazione di centinaia di croati e di sioveni residenti
nella parte della Croazia annessa alla provincia di Fiume: interi villaggi
furono bruciati e le popolazioni internate».
In Italia non si ama ricordare che i campi di concentramento non furono
una prerogativa tedesca: li abbiamo istituiti anche noi [nella foto a sinistra
il campo di concentramento di Gonars]: «Campi di concentramento per
oltre 100mila civili furono allestiti nel golfo dei Quarnaro sull'isola
di Arbe, in Friuli a Gonars e a Visco (Palmanova), in Veneto a Monigo (Treviso)
e a Chiesanuova (Padova), in Toscana a Renicci (nel comune di Anghiari).
L’esistenza dietro i reticolati era miserevole, per deliberata volontà
dei comandanti militari. Le proteste inoltrate dalla diplomazia vaticana
contro il regime disumano instaurato nei campi suscitarono commenti sprezzanti
e ipocriti. Il generale Mario Roatta, comandante superiore delle forze
armate in Slovenia Dalmazia, liquidò le richieste di miglioramento
dei lager di Rab-Arbe, dove languivano circa 6.500 prigionieri, con una
frase irritata: «Sarebbe stato assai meglio se autorità ecclesiastiche
locali, anziché dipingere a tinte fosche le condizioni dei campi
di concentramento, avessero indotto i fedeli a non affiancarsi ai partigiani,
nemici giurati della civiltà e della religione, contribuendo così
a rendere superflui o, quanto meno, a ridurre quei campi di concentramento
di cui ora soltanto, a cose fatte, si occupano» (16 dicembre 1942
al comando supremo, oggetto: «Situazione in Slovenia Campi di concentramento»).
Reazioni egualmente ciniche manifestò l'indomani il generale Gastone
Gambara (succeduto a Robotti nell'incarico di comandante deIl’XI corpo
d'armata): ”Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi
campo d'ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo.
Ad ogni modo alla lettera rispondere: ‘prendo atto – comunicherò
arrivi’. Praticamente faremo poi ciò che ci sembrerà meglio”».
Lo stesso feroce cinismo viene messo in atto nelle rappresaglie contro
la popolazione civile, con una ferocia che nulla ha da invidiare a quella
nazista durante la resistenza: «Ecco una direttiva impartita dal
generale Emilio Grazioli: «Estensione delle rappresaglie agli abitati
situati in prossimità dei luoghi ove si verificassero rappresaglie,
attentati, atti di sabotaggio ecc.» (dispaccio riservato n. 10826
dell'alto commissario per la provincia di Lubiana al comando dell'XI corpo
d'armata, per Siovenia e Dalmazia, 20 giugno 1942). Il generale Vittorio
Ambrosio stabilì che alle fucilazioni seguisse l'incendio delle
abitazioni dei giustiziati. Il tribunale militare di guerra insediato a
Lubiana decretò 83 pene capitali (tre delle quali contro militari
italiani); nella sola seduta dei 7 marzo 1942 sanzionò la morte
per 28 abitanti di Borovnica, 16 dei quali furono fucilati per ritorsione
contro l'attacco partigiano a un ponte ferroviario: il plotone d'esecuzione
era composto da elementi dell'ottavo battaglione «M» (dove
«M», ovviamente, sta per Mussolini). A macchiarsi dei più
gravi crimini furono proprio i reparti delle camicie nere; sostenuti da
forti motivazioni ideologiche, essi infierirono sulle popolazioni nella
convinzione di adempiere a un dovere patriottico. Ne facevano parte vecchi
squadristi dei 1921-22, che si erano arruolati volontari per ragioni politiche;
i loro valori di riferimento si desumono dalle lettere da essi scritte
in patria. Ecco un eloquente stralcio epistolare della camicia nera Ricci
Guglielmo (I Battaglione Squadristi toscano), al «Carissimo Camerata
Fasolino», in data 26 giugno 1942: «Come son cierto saprete
che mi trovo in terra di Dalmazia e proprio nella città di Spalato.
Qui facciamo la guerra al Comunismo e non gli diamo pace poiché,
escruso gli italiani, sono tutti comunisti e come son vili spesso ci fanno
delle imboscate e a tradimento uccidono tanti nostri fratelli. Però
quando ne prendiamo qualcuno li cambiamo i connotati tanto basti che anche
pochi giorni orsono si andò a Sebenico e si fece il plotone di eseguzione
e se ne fucilò ventisei e con buona soddisfazione a me tocò
proprio il capo di tutti i comunisti della Croazia. Se avessi visto Fasolino
che sciena tanto e che per aver tirato tanto bene che non ci fu bisogno
dei colpo di grazia si ebbero molti elogi, e fra tanti quello dei governatore
S.E. Bastianini».
La documentazione fotografica ha riproposto, per l'occupazione militare
nei Balcani, le raccapriccianti immagini di teste mozìe di partigiani
esibite da militari italiani sorridenti: immagini tragicamente somiglianti
a quelle scattate negli anni trenta dai colonizzatori in terra d'Africa».
Franzini ricorda infine, a titolo di esempio, la testimonianza di un
cappellano militare, Don Pietro Brignoli, dislocato dal 1941 al 1943 in
Siovenia e in Croazia tra i Granatieri di Sardegna, che descrisse «nei
più minuti particolari la marcia distruttiva delle nostre forze
regolari. Il diario dei sacerdote bergamasco, scritto in uno stile diretto
e franco, non può certo essere tacciato di faziosità e di
falsificazioni, stante l'abbondanza di particolari e la figura dei suo
estensore». Il diario di Don Brignoli fu pubblicato in modo parziale
e ambiguo quattro anni dopo la morte del parroco (17 agosto 1969) con il
titolo Santa Messa per i miei fucilati, senza spiegazioni sui criteri censori
né segnalazione delle parti omesse, e con questa premessa: «Dobbiamo
precisare che abbiamo esitato a lungo prima di prendere la decisione di
pubblicare un documento eccezionale sì, ma spaventoso». Il
diario di Don Brignoli è finito rapidamente fuori commercio, e non
ha mai avuto ristampe. È possibile acquistarne una delle copie esistenti
qui.
«Nonostante le amputazioni subite, scrive Franzinelli, la lettura
di quel libro è sconvolgente [...]. Don Brignoli, aggregato al 2°
reggimento Granatieri di Sardegna, enumera le crudeltà dell'azione
militare italiana, preoccupato dei prevedibile trascinarsi degli odii oltre
la stessa conclusione dei conflitto. I metodi d'occupazione sono descritti
in stile asciutto, con il rammarico del testimone impotente. Ecco un esempio:
«La nostra artiglieria e un gruppo di artiglieria alpina aprono un
fuoco infernale, da un'altura, su un paesetto nella valle: qualche donna
e qualche bambino uccisi, il resto della popolazione fuggita nei boschi,
dove tutti i maschi incontrati dai nostri battaglioni venivano considerati
come ribelli e trattati di conseguenza» (16 luglio 1942). Le esecuzioni
in massa erano all'ordine dei giorno: «Le camicie nere avevano arrestato
tutti i maschi validi che non erano fuggiti: il tribunale di guerra dei
nostro reggimento, che li giudicò, ne condannò a morte 18»
(21 luglio 1942). Il cappellano depreca le ruberie dei soldati ai danni
dei civili, divenute abitudine inveterata: «Non feci che predicare
e arrabbiarmi: “Ma almeno qui, dove la popolazione ci ha ricevuto bene
e ci ha dato ogni ben di Dio, non rubate!”. Era come parlare ai muri»
(25 luglio 1942). Dinanzi al ripetersi dei furti, che non risparmiavano
nemmeno i collaborazionisti, questa la sconsolata conclusione dei reverendo:
«Il soldato italiano non solo fa piazza pulita nei campi e nei pollai
dei nemici, ma non rispetta neppure quelli degli amici» (27 agosto
1942, a commento delle razzie compiute in un villaggio che aveva accolto
favorevolmente le nostre truppe). Quando qualche civile convinto delle
promesse di correttezza campeggianti nei manifesti murali redatti dagli
uffici di propaganda, si presentava per rivendicare il maltolto, accadevano
scene pietose: «Un contadino ebbe il coraggio di venire a domandare
un indennizzo, perché i soldati gli avevano portato via le patate,
ma l'ufficiale dice all'aiutante: “Questo deve essere un partigiano di
certo: fa' venire i carabinieri!”» (7 agosto 1942). La strategia
dei vertici militari è stigmatizzata in una pregnante considerazione:
«Distruggendo, noi leviamo anche ai ribelli il mezzo di vivere; spaventando
questa gente più di quanto non siano in grado di fare i ribelli
per la minor copia di mezzi, la faremo piegare verso di noi» (5 agosto
1942). I rapporti tra il cappellano e gli ufficiali volsero al peggio:
«In tutta la divisione era conosciuta la mia ritrosia, anzi la mia
aperta avversione contro quel perverso sistema di mandare all'altro mondo
i cristiani come se, anziché di uomini, si trattasse di ragni. Tanto
che qualcuno, al Comando di divisione, se n'era lamentato, perché
impacciavo il Comando militare nell'adempimento dei suo eroico dovere,
facendo osservare che gli altri cappellani (e non era vero, almeno di tutti)
si mostravano militari di più spirito, e quando si fucilava qualcuno,
anche loro erano contenti e dicevano che più si ammazza di questa
gente e meno nemici si hanno». Rimpatriato, Don Brignoli, nelle giornate
dell'8 e 9 settembre 1943, partecipò ai tentativi di resistenza
contro i reparti tedeschi che entravano a Roma. Nel dopoguerra si sarebbe
dedicato all'assistenza degli orfani di guerra. Quelle sue sofferte pagine
diaristiche meriterebbero senz'altro una riedizione e un'attenta lettura».
Per approfondire:
Materiale documentario e fotografico sui crimini italiani nella ex-Jugoslavia
è visionabile sul sito Crimini di guerra