Leandro Del Gaudio, "il mattino", 14 agosto 2012
Il suo nome è entrato negli annali come esempio - più
unico che raro - di cittadina rom condannata per sequestro di persona.
Si chiama Angelica Varga, sta per compiere venti anni, gli ultimi quattro
trascorsi in cella: una vicenda personale legata a un pezzo di storia di
Napoli, con tanto di attenzione mediatica nazionale.
Ricordate? Metà maggio del 2008, sabato mattina, una stradina
di Ponticelli. Poi: la ragazzina arrestata per sequestro di persona, la
rabbia popolare, l’espulsione di oltre ottocento rom dal quartiere orientale.
E ancora: un giudice che non scarcera Angelica, perché di «etnia
rom», quindi incline a compiere delitti analoghi», la sentenza
definitiva e il suo caso diventa un primato da giurisprudenza: una ladra
di bambini, l’incubo metropolitano messo su carta bollata, con tanto di
firma di un giudice.
Un caso chiuso. Quattro anni e mezzo dopo, Angelica si racconta. È
stata scarcerata da poco, proprio negli stessi giorni in cui a Ponticelli
venivano arrestati alcuni presunti camorristi che «con odio razziale»
incendiavano i campi rom (storia del 2010) per impedire che i piccoli zingari
frequentassero le scuole del quartiere. Storie simili, anche secondo Angelica
Varga, che su una panchina del centro di Napoli si racconta: «Desidero
cose elementari: la verità, poi un lavoro qui a Napoli, una famiglia,
l’integrazione. Ma anche una cultura dell’integrazione a Napoli, che -
come la mia storia insegna - non esiste ancora».
C’è una sentenza, una verità giudiziaria, lei ha rapito
una bambina in fasce, punto. Qual è la sua versione?
«Ero a Napoli da un mese e mezzo, ero da poco arrivata da Bistrita
(Transilvania, Romania), la mia città natale. La mattina uscivo
con una mia amica di poco più grande, che faceva piccoli sbagli.
Mi portò con lei in una casa, voleva rubare qualche oggetto di valore.
Facemmo appena in tempo a salire una rampa di scale, che venimmo bloccati
da un uomo. La mia compagna riuscì a scappare, io finii in cella.
Non parlavo italiano, ma ero tranquilla, mi dicevo: non ho portato via
niente, ora mi rilasciano. Invece, quindici giorni di cella e ho capito:
sequestro di persona, rapimento, stavo impazzendo».
Eppure, lei in quella stanza ci è entrata. Ha accarezzato
quella bimba nel carrozzino, l’ha abbracciata?
«Mai. Non l’ho neppure vista quella bambina. Non siamo entrate
in casa, non ci riuscimmo. Facemmo appena in tempo a salire una rampa di
scale che fummo bloccate, la mia compagna scappò via, io rimasi
lì senza immaginare cosa mi sarebbe toccato vivere».
Poi, mentre lei era in cella, a Ponticelli è scoppiato il
finimondo: un quartiere in fiamme, raid incendiari, un popolo in fuga.
Venne a sapere cosa stava accadendo?
«Lo seppi in cella, me lo dissero le altre ragazze, che provavano
a sostenermi. È stato orribile e assurdo. Sono stati espulsi tutti,
in una notte è stato spezzato il progetto di integrazione che tante
famiglie avevano intrapreso. Non c’erano solo ladri in quegli accampamenti,
ma anche ragazzi che andavano a scuola, c’era mio fratello, i miei parenti:
via tutti, dalla notte al giorno. Hanno trovato una scusa orribile per
cacciarci, per allontanarci. E io sono stata quattro anni e mezzo in cella».
Un mese fa sono stati arrestati alcuni presunti camorristi di Ponticelli:
per «odio razziale» hanno scatenato incendi nel 2010, non volevano
gli zingari a scuola dei loro figli.
«Conosco questa storia. Credo sia molto simile alla mia, perché
al di là dell’episodio che mi ha visto condannata, credo che qualcuno
abbia soffiato sul fuoco, credo che qualcuno aspettasse un pretesto - come
il rapimento di un bambino - per scatenare la guerriglia contro di noi».
Ripetiamo: per i giudici lei è responsabile di quel rapimento,
la sentenza è definitiva, se potesse incontrare la mamma della bimba
rapita per pochi minuti, cosa le direbbe?
«Nutro ancora troppa rabbia per quello che mi è successo,
voglio guardare avanti, niente polveroni polemici».
Cosa fa da quando è libera?
«Voglio ringraziare i miei legali, gli avvocati Liana Nesta e
Cristian Valle che hanno creduto in me e hanno provato a difendermi anche
contro i pregiudizi. Ho trovato attorno a me tanta solidarietà,
ora provo a ripartire. Ho vent’anni, vorrei un lavoro (so fare la parrucchiera),
una vita normale da cittadina napoletana. Nel frattempo, quando posso,
faccio anche un po’ di volontariato».
In che senso?
«Parlo bene italiano, spesso mi reco in alcuni campi rom dell’hinterland
assieme ad altri volontari, dove cerco di svolgere un ruolo in un più
ampio progetto di integrazione».
È andata anche a Ponticelli?
«No, lì non sono mai tornata. Mi fa troppo male rivedere
quei posti, per anni ho rivissuto dentro di me quella scena, quel cancello
che si apre, gli scalini, l’uomo che mi afferra il braccio, qualcuno che
mi chiede di firmare carte che ho fatto bene a non firmare: perché
io quella piccola nel carrozzino, non l’ho neppure vista una volta in vita
mia».