Maurizio Crosetti, "la Repubblica", 12 gennaio 2005
NOVI LIGURE - Quattro anni dopo, una sera d' inverno e un film per guardarsi meglio nello specchio, anche se quello che poi si vede può non piacere. Sono arrivati in sessanta, quasi tutti quando il film era già cominciato, e si sono seduti al centro della sala, come per tenersi più stretti. Sessanta persone su trentamila abitanti, nel vecchio cine «Moderno» foderato di verde. Sessanta anime curiose nel buio. Sessanta fantasmi. Sullo schermo, il titolo: «Sono stati loro», documentario di Guido Chiesa non su Erika e Omar, come tutti pensavano, ma sulle pazzesche quarantotto ore che seguirono il massacro di Susy Cassini e Gianluca De Nardo, 45 e 12 anni, la mamma e il bambino. Due giorni passati a dire «sono stati gli albanesi, è stata la banda degli slavi, i rapinatori, quelli che hanno portato le puttane a battere sullo stradone», proprio dietro la villetta color salmone della famiglia De Nardo. Quarantotto ore a ripetere che la paura viene sempre da fuori, insieme ai coltelli. Fuori di casa, il male assoluto. Dentro casa, gli agnelli che aspettano di essere macellati. Ma non era andata proprio così. Sessanta voci che stanno zitte finché scorre la pellicola, mentre il regista Chiesa ammette: «Ho paura che questo documentario dia fastidio ai novesi, ma anche agli ignavi politici che in parte lo hanno finanziato e che adesso preferiscono rimuovere». E davvero questa è una storia senza fine, tragica e beffarda, se la proiezione nel cuore di una Novi deserta arriva nel giorno in cui Erika spera di ottenere dai giudici i «permessi premio» già concessi a Omar, quello che ancora oggi chiamano «il fidanzatino». «E' prematuro» dichiara il legale dell' assassina, ma intanto la coppia ha già ottenuto la liberazione anticipata: dodici anni anziché sedici per lei, che ora sta al «Beccaria» di Milano e segue corsi di cucina, dieci anni invece di quattordici per lui, che è rinchiuso ad Asti e ha imparato il mestiere di meccanico. Chissà cosa pensano di premi, permessi e sconti le persone che nel film (e nella realtà, quel 21 febbraio 2001 e per due giorni almeno) invocavano la pena di morte per i criminali venuti dall' est. Per quei ladri che, strano, non avevano rubato nulla ma terrorizzavano perché c' erano, da qualche parte, pronti a colpire ancora. Quattro anni dopo, il verbo da usarsi all' imperativo è: dimenticare. Tutto il contrario di quello che obbliga a fare il film di Chiesa, uno schermo che invita alla memoria facendo scorrere il mostruoso circo mediatico di quei giorni. Un vortice con i titoli dei tg, Michele Cucuzza che fa la morale e poi introduce l' ospite, una danzatrice del ventre, poi la Saluzzi che piange e insulta «quella gentaglia», Fini che dice a Vespa «è ora di cambiare registro sull' immigrazione», le parole al vento dello psicologo Morelli e del «massmediologo» Klaus Davi, che proprio con la villetta color salmone cominciò a imperversare e ancora non ha smesso. Ma soprattutto i fantasmi meno coraggiosi, quelli che ieri sera non sono venuti e hanno preferito restare sbarrati in casa, forse perché hanno capito che lì dentro gli albanesi sanguinari non entreranno. Infine, quell' entità terribile e quotidiana che si chiama gente: «Ho paura a uscire di casa». «Vedo solo negri travestiti». «Devono dare la pistola ai vigili urbani». Alla fine della proiezione s' è alzato un timido applauso, debole come una fiammella di candela. Qualcuno ha parlato. «Sarebbe meglio dimenticare». «Quella tragedia non ha insegnato niente». «La paura non è mica passata». Altri, i più giovani, se la sono presa col regista: «Un bastardo, ha speculato sulla nostra città». «Girare un film del genere è da vere merde». I loro genitori, tutti altrove. Ben svegli, in attesa del nemico, per essere pronti quando il nemico verrà.