Giorgio Cremaschi, "il manifesto", 23 marzo 2012
Un industriale torinese nel passato ripeteva ad ogni assemblea dell’Unione
industriali che bisognava abolire l’articolo 18, perché voleva in
mano una pistola con il colpo in canna. Io poi non la uso, diceva, perché
non mi piace licenziare, ma i lavoratori devono sapere che quella pistola
ce l’ho.
Questa è il significato dello smantellamento dell’articolo 18
deciso dal governo con la scandalosa copertura del Presidente della
Repubblica. L’articolo 18 viene semplicemente cancellato. Infatti i licenziamenti
discriminatori sono vietati già oggi da qualsiasi convenzione, legge,
costituzione, italiana, europea, internazionale. Ed è uno dei tanti
falsi del governo che con questo provvedimento questo divieto sia esteso
sotto i quindici dipendenti. Esso c’è sempre stato, ma non ha mai
agito per la semplice ragione che nessun padrone è così stupido
da licenziare per esplicita discriminazione personale, ideologica, razziale.
Su tutti gli altri licenziamenti, quelli veri, salta la copertura dell’articolo
18. Naturalmente salta per chi ce l’aveva, cioè per circa 8 milioni
di lavoratori dipendenti. Non un piccolo numero, quindi. Ed è ridicolo
questo balletto attorno all’applicazione della nuova legge nel pubblico
impiego. E’ ovvio che sarà così, perché tutte le amministrazioni
pubbliche, in un modo o nell’’altro, hanno applicato lo Statuto dei lavoratori.
Quindi se questo viene cambiato ne assumono automaticamente anche le modifiche.
Ma tutto questo fa parte di quel misto di incompetenza, arroganza,
sfacciataggine che oggi contraddistingue l’operato del ministro Fornero
e del suo Presidente del Consiglio. L’articolo 18 è la reintegra
del posto di lavoro, senza di essa il licenziamento è libero.
E’ utile ricordare che una legge contro la libertà di licenziamento
c’era già prima dello Statuto dei lavoratori, è la legge
604 del 1966, legge che prevede il solo indennizzo in caso di licenziamento
ingiusto. E’ stata proprio l’inefficacia di questa legge a indurre il Parlamento
a introdurre quell’istituto della reintegra che il governo oggi smantella
in forma brutale e truffaldina. La reintegra viene abolita del tutto per
i licenziamenti cosiddetti economici. In un periodo di crisi, di ristrutturazione,
di esternalizzazioni, di tagli comunque definiti, questo significa licenziare
a piacimento. “Alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai”, diceva
una vecchia battuta degli anni Trenta.
Anche il cosiddetto modello tedesco, che viene applicato ai licenziamenti
disciplinari, cambia in maniera profondamente negativa lo Statuto. In questo
caso, ammesso che il padrone sia così sciocco da usare questo strumento
visto che può adoperare l’altro, quello economico, senza più
alcun fastidio, spetta al giudice decidere se reintegrare il lavoratore
o dargli una semplice compensazione della perdita del posto. Ora questo
non è possibile. Nel caso di licenziamento ingiusto il giudice obbligatoriamente
deve reintegrare il lavoratore. Quest’ultimo può anche decidere
di transare economicamente con l’azienda, ma lo fa dopo che è stato
riconosciuto il suo diritto al reintegro. Se dovesse passare la nuova normativa,
sarebbe il giudice a decidere tutto e dovrebbe essere il lavoratore a dimostrare
che il licenziamento è così particolarmente ingiusto, da
richiedere la sanzione della reintegra. Insomma, si avrebbe una sorta di
inversione dell’onere della prova. Oggi è il padrone che deve dimostrare
che ha licenziato giustamente, domani sarebbe il lavoratore a dover dimostrare
che è stato ingiustamente licenziato. E’ lo scasso definitivo del
sistema di tutele garantito dallo Statuto dei lavoratori. Così,
in piena crisi economica, si sanziona un terribile squilibrio nelle imprese
a favore di chi comanda, un ricatto permanente sul potere e sui diritti
ancora esistenti. Con questo provvedimento tutto il mondo del lavoro diventerebbe
precario, alla faccia della lotta alla precarietà.
Che la scelta del governo sia gravissima, profondamente antisociale
e antidemocratica, di destra, lo sta finalmente comprendendo una
vasta parte del paese. Si può dire che per la prima volta il governo
Monti incontri un ostacolo, una risposta, una vera contestazione. Questo
nonostante le incertezze e le ambiguità delle confederazioni sindacali,
lo stato confusionale del Partito democratico, la debolezza delle opposizioni
e la forza preponderante del potere mediatico e istituzionale a favore
del governo. Per la prima volta monta una rivolta nel paese che sta sommando
tutte le ingiustizie di questo governo delle banche e comincia a presentare
a Monti il conto del proprio spread di diritti, sicurezze, condizioni di
vita. Per questo bisogna andare avanti. La manifestazione del 31 è
un primo appuntamento per dire no a questo governo e per costruire una
risposta in grado di durare. Poi ci sarà lo sciopero generale, poi
ci dovranno essere altre ed estese mobilitazioni. Non dobbiamo fermarci.
Finalmente una parte importante del paese comincia a capire chi è,
cosa vuole, perché bisogna a casa Monti. E’ il momento di diffondere
ovunque questa presa di coscienza.