Costantino Cossu, "Lo straniero", aprile 2009
Mi tocca riprendere il filo d’un discorso cominciato sul n. 104 di “Lo
straniero” e, purtroppo, confermato dai fatti. In Sardegna, nelle elezioni
regionali che si sono tenute il 15 e il 16 febbraio, il centrodestra ha
stravinto: Ugo Cappellacci, il candidato governatore del Partito della
libertà, ha staccato Renato Soru di quasi dieci punti e la
coalizione berlusconiana ha superato il centrosinistra di diciotto punti.
A essere sconfitti – e male, molto male – non sono stati soltanto il Partito
democratico e i suoi alleati, ma anche il progetto politico che aveva trovato
un leader nel fondatore di Tiscali. Ma la disfatta elettorale segnala
movimenti profondi, che bisogna saper vedere e saper leggere se non si
vuole rimanere, nell’interpretazione dei dati usciti dalle urne, a un livello
di superficie. Due dati, in particolare, emergono con assoluta evidenza:
quanto sia forte e pervasivo il consenso che Silvio Berlusconi è
riuscito a ottenere in ogni piega della società italiana, e quanto
per contro siano deboli le risposte della sinistra, nelle sue varie articolazioni,
al progetto berlusconiano, ormai compiuto, di saldatura d’un blocco sociale
popolar-conservatore esteso e ideologicamente compatto.
Perché il centrosinistra ha perso malamente in Sardegna? E perché
ha perso malamente Soru? La prima spiegazione, importante ma in misura
uguale rispetto alle altre che vedremo dopo, è il fattore Berlusconi.
Il presidente del Consiglio per tutta la durata della campagna elettorale
è venuto in Sardegna ogni week end, senza mancarne neppure uno.
Ha battuto l’isola palmo a palmo, portandosi dietro il candidato, Cappellacci,
che lui e solo lui aveva scelto. Figlio di un ex commercialista del Cavaliere,
Cappellaci ha avuto la meglio su tutti i ras locali del centrodestra:
fatti fuori sia il sindaco di Cagliari Emilio Floris (Forza Italia) sia
Mariano Delogu, leader di Alleanza nazionale. Berlusconi li aveva passati
al setaccio dei suoi sondaggisti, mettendoli a confronto con Soru, e aveva
scoperto che erano perdenti. Come del resto Cappellacci. Perciò
a novembre dello scorso anno aveva fatto testare se stesso contro l’ex
presidente di Tiscali, con il “Corriere della sera” che dava la notizia
in prima pagina elucubrando su un’ipotetica preoccupazione di Berlusconi
rispetto alla possibilità che Soru diventasse leader del Pd dopo
Walter Veltroni. Il Cavaliere, invece, stava pensando alle regionali
sarde. E siccome i risultati del test “Silvio contro Renato” erano incoraggianti,
a un certo punto il premier ha rotto gli indugi e ha deciso che la campagna
di Sardegna l’avrebbe fatta lui in prima persona. Cappellacci sarebbe stato
poco più che una comparsa. E così è stato.
Nei comizi Berlusconi ha affrontato tutti i temi al centro
della campagna elettorale: il disastro dell’industria, le prospettive del
turismo unico settore che ancora tira, il collasso del sistema dell’istruzione
e della formazione, l’urgenza di liberare vastissime zone dell’isola dalla
presenza delle basi militari, lo spopolamento delle campagne per la crisi
sempre più pesante dell’agricoltura. Ma lo ha fatto alla sua maniera:
promettendo anche ciò che sapeva non avrebbe potuto mai realizzare.
Agli operai dell’Eurallumina di Portovesme, nel polo industriale del Sulcis,
che la multinazionale moscovita Rusal voleva licenziare in blocco, il presidente
del Consiglio ha detto che avrebbe sistemato tutto con una telefonata a
Vladimir Putin. Passate le elezioni, la Rusal ha fatto sapere che andrà
avanti senza tentennamenti: dal primo di aprile 2009 uno dei più
importanti stabilimenti italiani per la lavorazione dell’alluminio chiuderà.
Sul turismo, poi, mano libera ai costruttori: villaggi turistici e campi
da golf per fare della Sardegna – testuale – “il più grande giardino
del Mediterraneo”, una specie di gigantesca estensione del parco di Villa
Certosa, la dimora del premier in Costa Smeralda. E sulle servitù
militari, il progetto di fare del poligono di Quirra, dove si sperimentano
armi di tutti i tipi e intorno al quale ci si ammala di sindrome dei Balcani
(da uranio impoverito), il polo principale dell’industria aeronautica nazionale.
I sardi hanno creduto a tutto. Non è servito a niente che Soru
abbia battuto la grancassa sulla solfa del brianzolo venuto a colonizzare
l’isola; gli elettori hanno dato fiducia all’imprenditore di
successo che raccontava barzellette, mimava le gag di “Scherzi a parte”,
faceva vergognose battute sui desaparecidos argentini e in ogni piazza
diceva che Soru non bisognava votarlo perché era triste. Nel Sulcis,
zona a egemonia di sinistra da sempre, il crollo è stato clamoroso.
In tutti i principali centri industriali, da Iglesias a Carbonia, il voto
operaio si è spostato massicciamente a destra. Alla Maddalena, che
Soru è riuscito a liberare dalla base dei sommergibili nucleari
della Us Navy e sulla quale ha fatto cadere una pioggia di milioni per
finanziare il G8 che si terrà questa estate, il tracollo del governatore
uscente e della sua coalizione è stato nettissimo, mentre soltanto
quattro anni fa, alle elezioni comunali, la destra era stata messa nell’angolo.
A Sant’Elia, quartiere popolare di Cagliari dove Soru ha avviato un piano
di risanamento urbanistico e attuato interventi di vario tipo per arginare
in qualche modo il degrado e l’emarginazione, il centrodestra ha vinto
con un vantaggio enorme. La presunta “diversità” sarda si è
sciolta come neve al sole abbagliante della berlusconiana way of life.
Di fronte a tutto questo sarebbe troppo facile e stupidamente auto-assolutorio,
per gli sconfitti in Sardegna ma anche a Roma e in Abruzzo, dare
la colpa solamente alla pervasività di un modello antropologico
vincente sostenuto da un apparato mediatico imponente. Il fatto è
che al populismo televisivo di Berlusconi arrivano da sinistra risposte
assolutamente insufficienti. Un Partito democratico che assume a ragione
della sua stessa nascita l’amministrazione in versione soft delle ricette
neo-liberiste applicate dalle destre in Italia e nel mondo non ha alcuna
speranza di sconfiggere Berlusconi. Tanto più quando quelle ricette
sono messe in discussione da una crisi generale di sistema che richiederebbe
di uscire dal paradigma neoliberista. O si ha la capacità
di proporre un’alternativa vera – in termini di politica economica ma anche
di visione del mondo – oppure ad amministrare la vecchia baracca la gente
continuerà a mandare i leader della destra, percepiti come più
adatti allo scopo. E tanto più la crisi diventerà grave,
tanto più il rischio di un massiccio spostamento a destra di ceti
medi e popolari si farà concreto, come analoghi passaggi della storia
europea del Novecento dovrebbero avere insegnato.
In Sardegna, il centrosinistra – e Renato Soru che ne è diventato
uno dei leader a proiezione nazionale – hanno perso anche per questa grave
insufficienza di prospettiva, per la debolezza di un progetto politico,
quello del Pd, che sinché resterà nella sostanza subalterno
alle pratiche e alla cultura della destra sarà perdente (non insegna
davvero nulla la lunga notte dei democratici americani e la sortita dalla
crisi che Barack Obama è riuscito alla fine a trovare?).
Detto questo, c’è però, anche, il discorso sul “sorismo”,
chiamiamolo così. Discorso che è necessario fare, a conclusione
di questo ragionamento, perché la vicenda politica di Renato Soru
ha alcuni tratti di particolarità che la distinguono da quella del
Partito democratico. Quando nel 2004 Soru, con una lettera aperta spedita
ai quotidiani sardi, si propose alla guida della Regione Sardegna, i vertici
regionali dei Ds e della Margherita gli fecero una guerra spietata. Non
lo volevano. Se Soru riuscì a spuntarla fu perché fondò
un suo movimento, Progetto Sardegna, che i sondaggi accreditarono subito
di un otto per cento di consensi tra gli elettori sardi. Senza quei voti
la partita con il centrodestra, che aveva amministrato (malissimo) nella
precedente legislatura, era perduta in partenza. Fu così che quando
Soru minacciò di correre da solo, Ds e Margherita decisero, obtorto
collo, di sceglierlo come loro candidato. Se oggi si va a rileggere il
programma di Progetto Sardegna, si vede che era molto più avanzato
rispetto alle scelte sostanzialmente moderate fatte poi dal Pd di Veltroni.
Era un programma che puntava a rompere il monopolio trasversale sulle scelte
politiche e economiche sino a quel momento esercitato da un notabilato
che faceva del controllo sulla distribuzione delle risorse pubbliche
la fonte principale della propria legittimazione e del proprio consenso
elettorale. Un meccanismo di clientele – diffuso del resto, come si sa,
non solo in Sardegna – che portava a giganteschi sperperi di ricchezza
e a un sostanziale blocco dello sviluppo e della crescita civile dell’isola.
Soru con quel meccanismo voleva rompere. Non altrettanto i gruppi
dirigenti locali di Ds e Margherita. Che infatti al “sorismo” hanno poi
resistito in tutti i modi, prima fuori e poi dentro il Pd. Non parliamo
poi del centrodestra. Progetto Sardegna era la voce politica di una Sardegna
nuova e largamente minoritaria (questo è il punto centrale) che,
per una serie di particolari quanto contingenti circostanze, si è
trovata non solo a avere un leader ma anche a imporlo come guida (con moltissimi
mal di pancia) di tutto il fronte di centrosinistra.
Resta da dire che a perdere Renato Soru ci ha messo del suo. Su due
livelli. Il primo è quello dell’interpretazione, diciamo così,
del ruolo istituzionale di presidente dell’esecutivo in un sistema presidenzialistico
com’è quello che è stato realizzato nelle nostre Regioni
con la legge che consente agli elettori di scegliere il governatore indipendentemente
dal voto assegnato alle liste di partito. Soru ha interpretato quel ruolo
in modo verticistico, accentrando su di sé praticamente ogni decisione,
delegando quasi niente, circondandosi di assessori e di collaboratori sempre
pronti a dire sì e soltanto sì. Ha perso in questo modo uomini
chiave nell’azione di governo e si è esposto a gravi incidenti di
percorso sia sul terreno delle procedure amministrative sia su quello dell’impostazione
strategica delle politiche. Ha poi fatto passare una legge statutaria (cioè
di integrazione dello Statuto speciale della Regione Sardegna che è
parte della Costituzione repubblicana) che riduce drasticamente il ruolo
del consiglio regionale e accresce quelli del capo del governo. È
apparso infine poco incline al dialogo con le parti sociali, sindacati
e associazioni di categoria, non sempre portatori soltanto d’interessi
corporativi come invece l’amministrazione Soru ha dato l’impressione di
ritenere. Sul terreno della comunicazione, poi, e in particolare della
indispensabile azione di costruzione di un consenso largo intorno a molte
giuste scelte di governo, l’ex presidente di Tiscali è stato, paradossalmente,
un vero disastro.
Ma di scelte giuste Soru ne ha fatte davvero molte. Elenchiamo solo
le più importanti: risanamento di un bilancio regionale collassato
dalla precedente amministrazione di centrodestra; piano di tutela delle
coste e del paesaggio dall’assalto della speculazione edilizia; efficace
lotta agli sprechi e alle posizioni di rendita nella pubblica amministrazione;
rivendicazione al demanio regionale delle immense aree sottoposte a servitù
militare; investimento massiccio in alta formazione e razionalizzazione
del sistema della formazione professionale di base (un vero buco nero nel
bilancio regionale); una riforma della sanità regionale che ha messo
fine a scandalosi sperperi di denaro e a un sistema di finanziamenti che
favoriva, spesso in maniera poco trasparente, le cliniche private; una
legge sul conflitto di interesse molto rigorosa (sul modello canadese e
statunitense).
L’errore più grave – questo è il secondo livello – Renato
Soru l’ha fatto quando ha sciolto il suo movimento, Progetto Sardegna,
nel Pd. L’ex presidente di Tiscali è rimasto preso nelle pastoie
di un partito che alla debolezza generale del progetto politico aggiunge
il permanere, al proprio interno, di logiche di potere legate alla perpetuazione
dei gruppi dirigenti, nazionali e locali. Soru è entrato in questa
palude, ha corso alle primarie per la carica di segretario regionale perdendo
il confronto con il rivale Antonello Cabras (ex socialista e presidente
di una giunta regionale di centrosinistra negli anni novanta), ha manovrato
per scalzare Cabras e mettere al suo posto un segretario a lui fedele,
Francesca Barracciu, con il risultato fallimentare di spaccare il Pd, di
portarlo al commissariamento da parte di Roma e di giocarsi, in campagna
elettorale, l’appoggio di una metà buona del suo stesso partito.
Ora che il centrodestra ha stravinto e che l’ispirazione originaria
di Progetto Sardegna è stata nella sostanza annullata dalle logiche
di un centrosinistra incapace di una reale proposta alternativa rispetto
al berlusconismo trionfante, la Sardegna nuova che a Soru aveva affidato
il proprio disegno di un futuro diverso si trova a riprendere, in salita,
un cammino che aveva iniziato molto prima di Soru. Quella Sardegna non
è stata cancellata dalla sconfitta elettorale. Ricomincerà
da capo. Forte, si spera, della lezione, appresa nei cinque anni appena
trascorsi.