di Enrica Collotti Pischel, "il manifesto", 9 gennaio 2000
La notizia della fuga dalla Cina del giovanissimo Lama Ugyen Trinley
Dorje, terza autorità nella gerarchia delle reincarnazioni del buddhismo
tibetano è stata ritenuta molto ghiotta dai giornali italiani e
viene considerata un grave scacco per il governo cinese che non sarebbe
riuscito a impedirla, nonostante il proprio apparato militare.
Quest'interpretazione ignora che i cinesi non hanno mai fatto nulla
per fermare la fuga dei rappresentanti politici e religiosi tibetani dalla
Cina: nel 1959 l'intera classe dirigente tibetana, con alla testa il Dalai
Lama, si allontanò da Lhasa con una lunga fuga a piedi, nonostante
il pattugliamento degli aerei da combattimento cinesi. Fa parte della politica
delle autorità cinesi il pensare che gli avversari è sempre
meglio tenerli fuori del paese che dentro, meglio lontani dai loro adepti
che vicini. Se poi le circostanze equivoche di quest'ultimo episodio -
cioè la mancata condanna di Pechino - possano far pensare a ipotesi
di contatti con il Dalai Lama e di trattative di conciliazione, è
difficile dirlo ora. Certamente il fatto che la grande organizzazione propagandistica
che negli Stati Uniti (ma anche in Europa e nello stesso nostro scafato
e realistico paese) sostiene la causa dell'indipendenza tibetana si sia
buttata sull'episodio, non rende certo facile un'intesa: i cinesi sanno
fare molto bene i compromessi e sono disposti a concluderli quando siano
convenienti. Ma ritengono che debbano essere cercati e raggiunti con la
massima discrezione e comunque al di fuori di pressioni che li possano
far apparire come una resa a pressioni straniere. E non dimentichiamo mai
che "straniero" per l'intera Asia orientale nell'ultimo secolo e mezzo
ha significato umiliazione e asservimento: di essa fece parte anche il
tentativo pi volte condotto di staccare il Tibet dalla Cina.
Il più povero
Molte cose dovrebbero essere dette a proposito del mito del Tibet che
ha preso piede, anche nei ranghi della sinistra. Dal cinematografico Shangri-la,
al di fuori del tempo, dello spazio e del clima, alle ovvie seduzioni di
turismo "estremo", dalle tendenze a vedere esempi validi in civiltà
rimaste primitive e tagliate fuori dal processo della storia, alla sistematica
disinformazione diffusa da potenti mezzi mediatici statunitensi e al fascino
che sugli occidentali delusi esercitano le religioni e le ideologie esotiche
ed esoteriche, tutto confluito in un'affabulazione della quale sono stati
vittime in primo luogo proprio i tibetani.
Certamente sono uno dei popoli più poveri del mondo, esposti
a molteplici forme di oppressione: tra esse quella cinese è stata
con ogni probabilità meno gravosa di quella esercitata dai monaci
e dagli aristocratici, dei quali i pastori e i contadini erano fino al
1959 "schiavi", nel senso letterale del termine, in quanto sottoposti al
diritto di vita e di morte dei loro padroni. Che poi tutti, ma con ben
diverso vantaggio, trovassero conforto nel ricorso a una delle forme più
degradate di buddhismo (il buddhismo tantrico tibetano popolato di fantasmi
e di incantesimi ha ben poco a che vedere con la meditazione intellettuale
e la creatività artistica dello Zen), si può anche comprenderlo.
Per fare un minimo di chiarezza è necessario comunque precisare
alcune cose. Il Tibet non è stato "conquistato dalla Cina comunista
nel 1950": dopo precedenti più discontinui rapporti, fu conquistato
dall'impero cinese nella prima metà del secolo XVIII, e da allora
è stato considerato parte dello stato cinese da tutti i governi
della Cina, anche dal Guomindang. La Cina (in cinese "Stato del Centro")
è stato ed è uno Stato multietnico nel quale è in
corso da millenni un processo di trasferimenti di gruppi etnici e soprattutto
di fusione dei gruppi periferici entro quello più importante, che
rappresenta nove decimi dei cinesi ed è sempre stato capace di offrire
ai suoi membri una maggiore prosperità e i benefici di una cultura
più concreta. Mettere in discussione la natura multietnica della
civiltà e dello Stato cinesi significherebbe mettere in moto la
più spaventosa catastrofe degli ultimi secoli. Quella praticata
dalla Cina non è mai stata una politica di "pulizia etnica", bensì
di fusione entro un insieme non etnico ma contraddistinto da una comune
cultura e da comuni pratiche produttive: più che sterminarle, i
cinesi hanno comprato le minoranze.
E' vero che i tibetani per ragioni geografiche sono, entro lo "Stato
del Centro", il gruppo più lontano dalla comune cultura, però
da 250 anni sono stati sempre governati da funzionari cinesi nominati dal
governo centrale: giuridicamente e istituzionalmente ciò ha un senso.
Gli inglesi, all'apice del loro potere sull'India all'inizio del secolo
XX, intrapresero, tuttavia, una serie di manovre per staccare il Tibet
dalla Cina e porlo sotto la loro influenza, giungendo, nel 1913, a convocare
una conferenza a Simla nella quale le autorità tibetane cedettero
vasti territori all'India britannica. Nessun governo cinese ha mai accettato
la validità di quella conferenza. Nel periodo precedente il 1949
il governo del Guomindang considerava il Tibet, a pieno diritto, parte
del proprio territorio, tanto che durante la Seconda guerra mondiale concedeva
il diritto di sorvolo agli aerei alleati.
Il ruolo della Cia
Non ha quindi alcun senso dire che la Cina conquistò il Tibet nel 1950; nel 1950 le forze di Mao completarono in Tibet il controllo sul territorio cinese; nel 1951 fu raggiunto un accordo con il Dalai Lama per la concessione di un regime di autonomia. Verso il 1957, nel pieno dell'assedio statunitense alla Cina, i servizi segreti inglesi e americani fomentarono una rivolta dei gruppi di tibetani arroccati sulle montagne delle regioni cinesi del Sichuan e dello Yunnan, lungo la strada che dalla Cina porta al Tibet. I cinesi repressero certamente la rivolta con pugno di ferro: nelle circostanze internazionali nelle quali si trovavano e nel loro contesto etnico non era razionale pensare che si comportassero diversamente. Alla fine del 1958 i servizi segreti inglesi annunciarono che, all'inizio del 1959, la rivolta si sarebbe trasferita a Lhasa e avrebbe cercato l'appoggio del Dalai Lama. Ed è infatti ciò che avvenne: sullo sfondo della rivolta, il Dalai Lama dichiarò decaduto l'accordo per il regime autonomo e fuggì con la maggioranza della classe dirigente tibetana in India, dove costituì un proprio governo in esilio e il proprio centro di propaganda. Nessun governo al mondo ha riconosciuto questa compagine. Recentemente la Cia (i servizi segreti americani sono infatti obbligati a rendicontare prima o poi le loro spese di fronte ai contribuenti) ha ammesso di avere finanziato tutta l'operazione della rivolta tibetana.
Pechino: autonomia no
Dopo il 1959 il governo cinese spossessò monasteri e aristocratici
e "liberò gli schiavi", iniziando una politica di modernizzazione
forzosa (vaccinazioni, costruzione di opere pubbliche) e di formazione
di una classe dirigente locale, figlia di schiavi, sottoposta a un bombardamento
educativo razionalista e anti-religioso. Furono questi giovani che durante
la rivoluzione culturale distrussero templi e monasteri.
Dopo la morte di Mao, i governanti cinesi hanno cercato di ristabilire
i rapporti con i tibetani, migliorando le sorti economiche dell'altipiano
ma importando anche gran numero di cinesi, non solo militari. Hanno anche
trattato indirettamente con il Dalai Lama, che - politico asiatico molto
scaltro - non chiede l'indipendenza, ma una più o meno larga autonomia:
Pechino non ha mai tuttavia voluto concedere un reale autogoverno, che
aprirebbe rischi di secessione e metterebbe in discussione tutti i rapporti
etnici del vasto paese. Alle spalle del Dalai Lama si è sviluppato,
intanto, un vasto insieme di interessi della classe dirigente tibetana
che ormai è nata all'estero e vi ha ricevuto una formazione culturale
moderna: è questa che chiede un'indipendenza che potrebbe essere
ottenuta solo con una guerra spietata alla Cina e potrebbe essere innestata
dal reclutamento di giovani guerriglieri in India - segnali "terroristici"
in questo senso ci sono già stati. Erano proprio dissennati i governanti
cinesi che ritenevano che l'attacco alla Serbia, motivato dalla difesa
dei "diritti umani" in Kosovo, fosse in effetti la prova generale di un
attacco alla Cina?