Francesco Codello, "Rivista anarchica", febbraio 2004
La logica della separazione (due Popoli, due Stati) fa sua la logica
del Potere. Dobbiamo incoraggiare e sostenere tutte quelle forme di ribellione
e di dissenso che vogliono riportare la ragione, la libertà e l’uguaglianza
a fondamento della resistenza ad ogni forma di dominio.
Il 1° dicembre scorso è stato presentato a Ginevra un progetto
di accordo israelo-palestinese, un concreto e realistico tentativo di portare
la pace in un conflitto che dura ormai da più di un secolo.
In ordine di tempo, al momento in cui scrivo, è questo di Ginevra
l’ultimo sforzo prodotto per consentire a due popoli di vivere in pace.
Ciò che lo rende diverso dagli altri è che questo incontro
tra palestinesi e israeliani è stato organizzato da personalità
della cultura, della società civile, della politica di ambedue le
realtà senza l’avallo ufficiale delle autorità costituite
della Palestina e dello stato israeliano.
Questo accordo, pur costando ad ambedue gli schieramenti, sacrifici
e sofferenze, è comunque un concreto e fattibile passo per raggiungere
una pacificazione nell’area mediorientale.
Si tratta di sostenere iniziative concrete su tutte le principali questioni
che costituiscono i termini della discordia e quindi della continua guerra.
Questo documento si basa sulle risoluzioni delle Nazioni Unite sul Medio
Oriente, la conferenza di Madrid (1991), gli accordi di Oslo (1993), l’accordo
su Hebron (1997), accordo di Wye River (1998). Inoltre si ispira all’accordo
di Camp David (luglio 2000) e di Taba (gennaio 2001) che sostengono l’obiettivo
di creare uno stato palestinese indipendente a fianco di quello israeliano.
I promotori del trattato Beilin-Rabbo, dal nome dei primi firmatari,
sostengono che con le conclusioni a cui si ispira, la pace è realisticamente
possibile e attuabile da subito.
Il punto centrale è ovviamente l’ipotesi di costituire uno stato
Palestinese accanto a quello Israeliano.
Condizione ineludibile
Insomma ancora una volta la condizione ineludibile, così come
per tutti coloro che hanno proposto soluzioni pacifiche, è la coabitazione
di due Stati, uno che garantisca gli ebrei l’altro i palestinesi. Accanto
a questa fondamentale dichiarazione, l’accordo sviluppa soluzioni relative
alle dimensioni precise dei due territori e alla delimitazione dei confini
all’interno delle frontiere definite ancora il 4 giugno del 1967; Gerusalemme
diventerà definitivamente capitale della Palestina e i quartieri
ebraici a est della città rimarranno sotto sovranità israeliana
(ci sarà sovranità specifica nei luoghi sacri delle varie
religioni); i coloni che si trovano in Cisgiordania e nella striscia di
Gaza saranno rimpatriati e così accadrà all’esercito che
si trova ad occupare questa terra; i rifugiati palestinesi potranno essere
indennizzati; il controllo sul rispetto degli accordi sarà garantito
da una forza multinazionale formata in primis da Nazioni Unite, Stati Uniti,
Europa, Russia.
Questa soluzione è fortemente appoggiata da un settore di israeliani
e di palestinesi che rifiutano le politiche di Sharon e di Arafat e che
trova consensi sempre più vasti soprattutto all’interno della società
civile israeliana.
Un altro elemento qualificante e incoraggiante è l’esplicito
riconoscimento da parte palestinese, in questo accordo, del diritto dell’esistenza
di uno stato ebraico in Palestina. Inoltre occorre ribadire che questo
accordo di Ginevra, pur non avendo alcun valore giuridico, apre concretamente
una speranza di pace proprio perché affronta e da una soluzione
concreta a tutti i nodi e le controversie che sono presenti sul teatro
di guerra tra i due popoli. Come sostiene l’israeliano Amram Mitzna «l’iniziativa
di Ginevra segna una svolta nella Storia, in quanto permette ai governi,
se lo desiderano, di comprendere esattamente quali concessioni concordate
dalle due parti permettono di porre fine al conflitto» (Le Monde
Diplomatique, dicembre 2003).
Il fatto di non essere prodotto da due istituzioni ufficiali rende
questo documento più credibile perché voluto da cittadini
di una e dell’altra parte. Di questo è convinto il palestinese Qadura
Fares che scrive: «L’iniziativa di Ginevra è una visione basata
sulla razionalità e sulla volontà sincera di arrivare ad
una soluzione. È la visione che presentiamo ai politici come agli
intellettuali e all’opinione pubblica, affinché i due popoli possano
decidere essi stessi il loro destino. Questa trasparenza e questa larga
diffusione sono essenziali perché, se può capitare che gli
uomini politici siano ostaggio di ideologie e pregiudizi, l’opinione pubblica
spesso distingue meglio la via di un avvenire migliore. Dato che non rappresentiamo
un’istituzione ufficiale, tentiamo di preparare il terreno ad una soluzione
politica equilibrata, fondata su una giustizia accessibile» (Idem).
Una forte convinzione e un ritrovato ottimismo trapela tra i protagonisti
di questa proposta e questo, vista la composizione mista dei promotori,
non può che infondere in noi tutti una certa speranza. Se accanto
a ciò vogliamo considerare come, soprattutto in Israele, stia crescendo
un movimento spontaneo e stiano maturando una serie di iniziative di base
a forte carattere pacifista e antimilitarista, certamente il flebile filo
della speranza di pace non può che essere solidificato da tutto
ciò.
E la speranza è sicuramente una componente indispensabile per
ogni progetto umano e individuale, è la nutrice dei sogni e un ottimo
antidoto contro la rassegnazione e la disperazione prodotte dai fondamentalismi.
Ma questa soluzione così coraggiosamente proposta sembra, come
sostiene Amos Oz («L’Espresso» del 30/12/2003), una pace degli
stanchi, simile più a un divorzio che non a un inizio nuovo. Più
una fine di una forzata convivenza che non il principio di un amore.
Due Stati in cambio di uno
Personalmente credo più ad un valore simbolico che, se opportunamente
sostenuto e liberato dall’illusione tutta Politica che la soluzione stia
in due Stati al posto di uno, può liberare tra i contendenti la
luce derivante dall’aver capito realmente che proprio al di là dei
due poteri, vi sono uomini e donne che desiderano incontrarsi e dialogare.
Inoltre solo dall’incontro diretto e reale, non mediato dall’immaginario
religioso e politico dei fondamentalismi, può scaturire una vera
prospettiva di pace fondata sulla libertà e la giustizia sociale.
Togliere le illusioni, che Sharon e Arafat alimentano nei rispettivi
popoli, di divenire i veri sovrani dell’area contesa, magari facendo leva
sui fondamenti e sui relativi messianici postulati religiosi, è
una delle operazioni che tutti i veri sostenitori della pace hanno l’obbligo
di perseguire a favore piuttosto di un continuo e sistematico, ma libero
e dal basso, intreccio compromissorio tra ebrei e palestinesi.
Il pregio immaginario di questo accordo è quello di fondarsi
non tanto su delle affermazioni di astratti principi, in un contesto esasperato
dalle disuguaglianze concrete e giornaliere, ma di solleticare azioni e
comportamenti possibili fin da subito e fondati su logiche egualitarie
e di dimostrare che la soluzione esiste già anche a prescindere
dalla logica politica e statale. In questo senso, e solo in questo, mi
appare comunque un’iniziativa da sostenere e incoraggiare dal punto di
vista libertario e non tanto nel punto di partenza, ma ahimè anche
di arrivo, che riconosce come auspicabile i due stati. Alzare confini,
anche in nome della pace, non si è mai dimostrato produttivo nella
storia, se si mira all’integrazione e alla miticizzazione, unico obiettivo
realmente pacifico.
La logica della separazione, che questo trattato sostiene come inevitabile
anche se dolorosa, sostanzialmente accetta la logica della Politica e dello
Stato, è quindi subalterna alla riproduzione del potere, che questa
volta sarà magari meno duro ma comunque discriminante, perché
non tocca le condizioni interne di disuguaglianza delle due realtà.
Credo infatti che vadano incoraggiate e sostenute tutte quelle forme
di ribellione e di dissenso che all’interno dei due schieramenti stanno
lottando per riportare la ragione al centro della convivenza, la libertà
e l’uguaglianza possibile e concreta a fondamento della resistenza ad ogni
forma di dominio.
Esiste già una contro società in Israele e in Palestina,
anche se minoritaria, composta da uomini e donne che abbattono tutti i
muri divisori riconoscendosi reciprocamente come esseri umani portatori
di medesimi diritti e doveri seppur di fedi e culture diverse. La strada
è ancora lunga e le tappe sono spesso forzate e ineludibili, ma
l’importante è non perdere il senso ultimo e più vero del
cammino e non assuefarsi mai neanche al peggiore dei crimini.
La consapevolezza della propria debolezza è anche in questo
caso l’unica salvaguardia contro l’onnipotenza del potere.