Paolo Ciofi, www.paolociofi.it, 1 dicembre 2012
Invece di domandarsi come sia possibile, e a quali condizioni, uscire
dalla crisi, i guardiani dell’ortodossia liberista continuano a porre la
domanda sbagliata: come si fa a rilanciare il libero mercato tutelando
il capitalismo? È esattamente questa la questione sollevata nel
suo Manifesto capitalista dal prof. Luigi Zingales, bocconiano e docente
alla Booth School of Business dell’Università di Chicago, il cui
volto spensieratamente pensante è apparso in diverse trasmissioni
televisive.
Per sua sfortuna, nel tentativo di dare un fondamento alla sua teoria
(si fa per dire) liberista, il professore inciampa in un presupposto falsificante,
presentato come una strabiliante scoperta epocale. Infatti, nei panni di
un novello Indiana Jones alla ricerca dell’arca perduta, L. Z. viene a
sapere che «il vero e straordinario segreto insito (!) nel sistema
capitalistico non è la proprietà privata né la ricerca
del profitto, ma la concorrenza».
Evidentemente, dalla lontana patria dei Chicago boys il prof. non ha
avuto l’opportunità di spingersi fino Taranto, dove una proprietà
parassita in nome del profitto trafuga i capitali all’estero e in Italia
semina ricatti, corruzione e morte. «I proprietari siamo noi»,
gridavano gli operai al momento dell’occupazione degli uffici dell’Ilva.
Perché no, se la Costituzione stabilisce che si possono trasferire
«ad enti pubblici o a comunità di lavoratori» imprese
in «situazioni di monopolio» e che «abbiano carattere
di preminente interesse generale»?
D’altra parte, quando sostiene che il segreto del capitale è
la concorrenza, Zingales sembra non accorgersi di cadere in un clamoroso
qui pro quo. Concorrenza perché? Non c’è bisogno di Karl
Marx, basta Emanuele Severino per capire che essendo la concorrenza un
mezzo c’è bisogno di definire un fine. E proprio perché il
fine consiste «nell’incremento indefinito del profitto privato»,
sottolinea il filosofo, ne deriva che il capitalismo, in assenza di anticorpi
che lo contrastino, tende a depredare congiuntamente l’essere umano e la
natura.
Per Zingales, invece, la crisi nasce da un eccesso di regolazione del
potere pubblico, che soffocando il libero mercato ha prodotto un «capitalismo
clientelare», di cui l’Italia è espressione ineguagliabile.
La ricetta a questo punto è semplice: riavvolgere il nastro della
storia e ritornare al liberismo duro e puro, ripulendo le stalle dalla
corruzione e dal malaffare. Una retrocessione verso il passato, ossia verso
il fantasma di un capitalismo “buono”, che ha figliato la crisi e il capitale
finanziario globale.
Dunque, libero mercato contro «capitalismo clientelare»,
che va rifondato su saldi principi di eticità: dai quali deriva
che «le privatizzazioni non sono solo un’esigenza di bilancio, ma
una necessità civile e morale». Un’impostazione che illumina
non solo la corruzione della politica, ma la degenerazione di un’intera
formazione economico-sociale. Nella pratica, un Manifesto capitalista a
disposizione dei poteri forti della finanza, fatto proprio dal grande innovatore
Matteo Renzi.
Lo mettono bene in chiaro le 36 pagine del suo programma, che tanto
piacciono a Ichino, nelle quali non trovate alcun accenno alla Costituzione
di questa Repubblica fondata sul lavoro. Il modello è quello degli
Stati Uniti, «il miglior Paese per un povero». E pazienza se
in quel Paese delle meraviglie è scoppiata la crisi che ha invaso
il mondo.
L’ideologo liberista non si cura dei dettagli, si preoccupa come Monti
di «efficientare» l’Italia. E in nome della superiore moralità
del libero mercato, in America sta dalla parte di Mitt Romney, il candidato
plurimiliardario accusato di aver eluso il fisco con un abbattimento dell’aliquota
d’imposta dal 35 al 15 per cento. Parola di Zingales, pedagogo di Renzi.
Il quale, con l’espediente dell’innovazione, in realtà indica ai
giovani la strada di un’umiliante subalternità alla dittatura del
denaro.