Noam Chomsky, www.globalist.it, 19 Novembre 2012
(traduzione di Elena Bellini di We are all on the Freedom Flotilla 2)
Gaza -Anche una sola notte in cella è abbastanza per assaggiare
cosa vuol dire essere sotto il totale controllo di una forza esterna. E
ci vuole poco più più di un giorno a Gaza per iniziare a
rendersi conto di come dev'essere cercare di sopravvivere nella più
grande prigione a cielo aperto del mondo, in cui un milione e mezzo di
persone, nell'area più densamente popolata del mondo, sono costantemente
assoggettate al terrore casuale e spesso selvaggio e ad una punizione arbitraria,
senza nessun'altro scopo che quello di umiliare e degradare, e con l'ulteriore
obiettivo di assicurarsi che le speranze dei palestinesi per un futuro
decente verranno schiacciate e che il crescente appoggio mondiale per una
soluzione diplomatica che garantisca i loro diritti venga annullato.
L'intensità di questo impegno da parte della leadership politica
israeliana è stato drammaticamente illustrato negli ultimi giorni,
quando ci hanno avvisato che "impazziranno" se ai diritti dei palestinesi
verrà dato anche solo un parziale riconoscimento alle Nazioni Unite.
Non è un nuovo inizio. La minaccia di "diventare pazzi" ("nishtagea")
è profondamente radicata, fin dai governi laburisti degli anni '50,
insieme al relativo "Complesso di Sansone": raderemo al suolo il muro del
Tempio se attraversato. Era una minaccia risibile, allora; non oggi.
Nemmeno l'umilizione intenzionale è una novità, anche
se prende sempre nuove forme. Trent'anni fa i leader politici, compresi
alcuni tra i più noti "falchi", hanno sottoposto al Primo Ministro
Begin un racconto sconvolgente e dettagliato di come i coloni maltrattano
regolarmente i palestinesi nel modo più depravato e nella totale
impunità. L'importante studioso politico-militare Yoram Peri ha
scritto con disgusto che il compito dell'esercito non è difendere
lo stato, ma "demolire i diritti di un popolo innocente solo perchè
sono Araboushim (termine dispregiativo per indicare gli Arabi, n.d.t.;
come dire "negri", "giudei") che vivono in territori che Dio ha promesso
a noi".
I Gazawi sono stati selezionati per una punizione particolarmente crudele.
E' quasi un miracolo che la popolazione possa sopportare un tale tipo di
esistenza. Come ci riescano è stato descritto trent'anni fa in un'eloquente
memoria di Raja Shehadeh (The Third Way - La Terza Via), basata sul suo
lavoro di avvocato ingaggiato nelle battaglie senza speranza di cercare
di proteggere i diritti fondamentali restando all'interno del sistema giuridico
studiato per assicurare il fallimento, e la sua personale esperienza come
Samid, "perseverante", che vede casa sua diventare una prigione a causa
dei brutali occupanti e non può fare niente ma in qualche modo "resiste".
Da quando Shehadeh ha scritto, la situazione è peggiorata. Gli
Accordi di Oslo, celebrati in pompa magna nel 1993, hanno determinato che
Gaza e la Cisgiordania siano singole entità territoriali. Da allora,
gli Stati Uniti e Israele hanno dato il via al loro programma di separarli
completamente uno dall'altro, così come di bloccare gli accordi
diplomatici e punire gli arabi in entrambi i territori.
La punizione dei Gazawi si è fatta ancor più severa nel
gennaio del 2006, quando hanno commesso il crimine maggiore; hanno votato
"nel modo sbagliato" alle prime elezioni del mondo arabo, eleggendo Hamas.
Dando dimostrazione della loro appassionata "bramosia per la democrazia",
gli Stati Uniti e Israele, seguiti dalla timida Unione Europea, imposero
immediatamente un assedio brutale, insieme a pesanti attacchi militari.
Gli Stati Uniti, inoltre, ripristinarono immediatamente la procedura operativa
di quando qualche popolo disobbediente elegge il governo sbagliato: preparare
un golpe militare per restaurare l'ordine.
I Gazawi commisero un crimine ancora maggiore un anno dopo, fermando
il colpo di stato, il che portò ad una rapida intensificazione dell'assedio
e degli attacchi militari. Questi hanno raggiunto il culmine nell'inverno
2008 - 2009, con l'operazione Piombo Fuso, uno dei più codardi e
feroci esempi di forza militare nella storia recente, dal momento che una
popolazione indifesa, rinchiusa e senza via di fuga, fu vittima di un attacco
implacabile operato da uno dei più avanzati sistemi militari del
mondo, basato su armi statunitensi e protetto dalla diplomazia USA. Un'indimenticabile
testimonianza diretta del massacro - "infanticidio", per usare le loro
parole - viene dai due coraggiosi medici norvegesi che lavorarono nel principale
ospedale di Gaza durante l'attacco spietato, Mads Gilbert e Erik Fosse,
nel loro notevole libro "Eyes in Gaza - Occhi a Gaza".
Il neo Presidente Obama non fu in grado di dire una parola, a parte
il reiterare la sua sincera vicinanza ai bambini sotto attacco - nella
città israeliana di Sderot. L'assalto attentamente preparato giunse
a un termine prima della sua nomina, in modo che poi ha potuto dire che
"adesso è il momento di guardare avanti, non indietro", il rifugio
abituale per i criminali.
Ovviamente c'erano dei pretesti - ce ne sono sempre. Quello solito,
rispolverato quando serve, è la "sicurezza": in questo caso, razzi
"fatti in casa" da Gaza.
Come sempre succede, il pretesto mancava di qualsiasi credibilità.
Nel 2008 era stata stabilita una tregua tra Israele e Hamas. Il governo
israeliano formalmente aveva riconosciuto che Hamas l'aveva completamente
osservata. Non un solo razzo di Hamas era stato sparato prima che Israele
rompesse la tregua sotto la copertura delle elezioni USA del 4 novembre
2008, invadendo Gaza con motivazioni ridicole e ammazzando mezza dozzina
di membri di Hamas. Il governo israeliano era stato avvertito dagli alti
funzionari dei suoi servizi segreti che la tregua avrebbe potuto essere
rinnovata ammorbidendo il blocco criminale e mettendo fine agli attacchi
militari. Ma il governo di Ehud Olmert, conosciuto come una colomba, scelse
di rifiutare queste opzioni, preferendo ricorrere al proprio enorme vantaggio
in violenza: l'Operazione Piombo Fuso. I fatti salienti sono riportati
nuovamente dall'esperto in politica estera Jerome Slater nella recente
pubblicazione sull'Harvard MIT Journal "International Security - Sicurezza
Internazionale".
La metodologia di bombardamento utilizzata in Piombo Fuso è
stata attentamente analizzata da Raji Sourani, avvocato per i diritti umani
profondamente informato e internazionalmente stimato. Sourani osserva che
il bombardamento si concentrava a nord, colpendo civili indifesi nelle
arree maggiormente popolate, con nessun possibile pretesto militare. L'obiettivo,
suggerisce, potrebbe essere stato quello di spingere la popolazione spaventata
verso sud, vicino alla frontiera con l'Egitto. Ma i Samidin sono rimasti,
nonostante la valanga di terrore israelo-statunitense.
Un ulteriore obiettivo è stato quello di spingerli indietro.
Tornando ai primi giorni della colonizzazione sionista, si argomentava
da ogni parte che gli Arabi non avessero motivi per stare in Palestina;
avrebbero potuto essere ugualmente felici da qualche altra parte, e avrebbero
dovuto andarsene - "essere trasferiti", come educatamente suggerirono le
colombe. Questa non è una preoccupazione di poco conto per l'Egitto,
e forse è una ragione per cui l'Egitto non apre liberamente la frontiera
ai civili o anche ai materiali di cui c'è disperato bisogno.
Sourani e altre fonti ben informate sottolineano che la disciplina
dei Samidin nasconde una polveriera che potrebbe esplodere in qualsiasi
momento, inaspettatamente, come fece la prima Intifada a Gaza nel 1989
dopo anni di miserabile repressione che non aveva suscitato alcuna avvisaglia
o motivo di preoccupazione.
Per citare solo uno degli innumerevoli casi, poco prima che scoppiasse
la prima Intifada, una ragazza palestinese, Intissar al-Atar, fu colpita
a morte in un cortile scolastico da un residente della vicina colonia israeliana.
Era uno delle varie migliaia di coloni israeliani portati a Gaza in violazione
del diritto internazionale e protetti da una forte presenza dell'esercito,
che stanno rubando la maggior parte della terra e delle scarse risorse
idriche della Striscia e che vivono "agiatamente in 22 colonie in mezzo
a un milione e 400mila palestinesi indigenti" come viene descritto il crimine
dalla studiosa israeliana Avi Raz. L'assassino della studentessa, Shimon
Yifrah, è stato arrestato, ma rapidamente rilasciato su cauzione
quando la Corte ha determinato che "il reato non è abbastanza grave"
da giustificare la detenzione. Il giudice ha commentato che Yifrah voleva
solo spaventare la ragazza sparandole contro nel giardino della scuola,
ma non voleva ucciderla, quindi "non è il caso di un criminale che
debba essere punito, scoraggiato, e ha imparato la lezione attraverso l'arresto".Yifrah
venne condannato a 7 mesi con pena sospesa, mentre i coloni in aula esplodevano
in canti e danze. E poi regnò il solito silenzio. Dopotutto, è
routine.
E quindi così. Quando Yifrah venne rilasciato, la stampa israeliana
riportò che una pattuglia dell'esercito aveva aperto il fuoco nel
cortile di una scuola di ragazzini di età compresa tra i 6 e i 12
anni in un campo profughi della Cisgiordania, ferendo cinque bambini, presumibilmente
con l'intenzione di "spaventarli" solamente. Non ci furono processi, e
l'accaduto, di nuovo, non attirò nessuna attenzione. Era semplicemente
un altro episodio nel programma di "analfabetismo e punizione", disse la
stampa israeliana, che comprendeva la chiusura delle scuole, l'uso di lacrimogeni,
il picchiare gli studenti con i calci dei fucili, l'impedire il soccorso
sanitario alle vittime; e oltre alle scuole, un regno di brutalità
ancor più dura, che diventava ancora più selvaggio durante
l'Intifada, sotto il comando del Ministro della Difesa Yitzhak Rabin, altra
stimata colomba.
La mia prima impressione, dopo una visita di qualche giorno, è
stata di stupore, non solo per la capacità di andare avanti con
la vita, ma anche per la vibrante vitalità tra i giovani, specialmente
all'università, dove ho passato la maggior parte del mio tempo in
una conferenza internazionale. Ma anche lì si possono scovare segnali
che la pressione potrebbe diventare troppo dura da sopportare. Studi dicono
che tra i giovani uomini c'è una frustrazione che ribolle, un riconoscere
che sotto l'occupazione israelo-statunitense il futuro non riserva niente
per loro. E' solo che ce n'è così tanta che gli animali in
gabbia possono sopportare, e può esserci un'eruzione, magari in
forme orribili - il che offre un'opportunità per gli apologeti israeliani
e occidentali di condannare in modo ipocrita le persone che sono culturalmente
arretrate, come ha spiegato acutamente Mitt Romney.
Gaza ha l'aspetto di una tipica società del terzo mondo, con
sacche di ricchezza circondate da mostruosa povertà. Non è,
comunque, "sottosviluppata". Piuttosto è "de-sviluppata", e in modo
sistematico, per usare le parole di Sara Roy, la principale esperta accademica
di Gaza. La Striscia di Gaza avrebbe potuto diventare una prospera regione
mediterranea, con una ricca agricoltura e una fiorente industria ittica,
spiagge meravigliose e, come scoperto una decina di anni fa, buone prospettive
di risorse estensive di gas naturale all'interno delle sue acque territoriali.
Per coincidenza o meno, fu proprio quando Israele ha intensificato il blocco
navale, spingendo i pescherecci verso le coste, da quel momento entro le
3 miglia marittime.
Le prospettive favorevoli sono state abortite nel 1948, quando la Striscia
ha dovuto assorbire un flusso di profughi palestinesi che scapparono in
preda al terrore o furono espulse con la forza da quello che poi diventò
Israele, in alcuni casi espulsi mesi dopo il formale "cessate il fuoco".
Di fatto, sono stati espulsi anche quattro anni dopo, come riportato
su Ha'aretz (25.12.2008), in uno studio ragionato di Beni Tziper sulla
storia dell'israeliana Ashkelon dall'epoca dei Cananei. Nel 1953, dice,
c'era un "freddo calcolo secondo cui era necessario ripulire la regione
dagli Arabi". Anche il nome originario, Majdal, è stato "giudaizzato"
all'odierno Ashkelon, normale amministrazione.
Questo è successo nel 1953, quando non c'era nemmeno l'ombra
di necessità militari. Tziper stesso è nato nel 1953, e mentre
passeggia tra le rovine dell'antico settore arabo, pensa che "è
molto difficile per me, molto difficile, realizzare che mentre i miei genitori
stavano festeggiando la mia nascita, altre persone stavano venendo caricate
su camion e venivano espulse dalle loro case".
Le conquiste israeliane del 1967 e le loro conseguenze diedero ulteriori
scossoni. Quindi arrivarono i terribili crimini già menzionati,
fino al giorno d'oggi. I segnali sono facili da vedere, anche con una visita
veloce. Seduto in un hotel vicino alla costa, si può sentire il
rumore degli spari delle navi da guerra israeliane che spingono i pescatori
dalle acque territoriali di Gaza verso la costa, così sono costretti
a pescare in acque fortemente inquinate a causa del rifiuto statunitense-israeliano
di permetttere la ricostruzione dei sistemi fognari e della rete elettrica
che loro stessi hanno distrutto.
Gli Accordi di Oslo stabilirono i piani per due impianti di desalinizzazione,
una cosa necessaria in questa regione. Uno, un'infrastruttura avanzata,
fu costruito: in Israele. Il secondo a Khan Younis, nel sud della Stricia
di Gaza. L'ingengere incaricato di tentare di ottenere acqua potabile per
la popolazione spiegò che questo impianto era stato progettato in
modo da non poter utilizzare acqua di mare, ma doveva basarsi su falde
sotterranee, un procedimento più economico, che impoverisce ulteriormente
la già misera falda, garantendo problemi seri in futuro. Anche in
presenza di tale impianto, l'acqua è veramente scarsa. L'UNRWA,
che si prende cura dei rifugiati (ma non di altri Gazawi), ha recentemente
pubblicato un report lanciando l'allarme sul fatto che il danno alle falde
acquifere potrebbe presto diventare "irreversibile", e che, senza una rapida
misura correttiva, dal 2020 Gaza potrebbe non essere più un "posto
vivibile".
Israele permette l'ingresso del cemento per i progetti dell'UNRWA,
ma non per i gazawi coinvolti dall'urgente necessità di ricostruzione.
La limitata attrezzatura pesante è ridotta al minimo, visto che
Israele non ammette l'ingresso di materiali per la ricostruzione. Tutto
ciò fa parte del programma generale descritto dal funzionario israeliano
Dov Weisglass, consigliere del Primo Ministro Ehud Olmert, dopo che i Palestinesi
non obbedirono agli ordini nelle elezioni del 2006: "L'idea" ha detto "è
di mettere a dieta i Palestinesi, ma non fino a farli morire di fame".
Non è una bella cosa.
E il piano si sta seguendo scrupolosamente. Sara Roy ne ha data ampia
dimostrazione nei suoi studi accademici. Recentemente, dopo diversi anni
di sforzi, l'organizzazione israeliana per i diritti umani Gisha è
riuscita ad ottenere un provvedimento giudiziario perchè il governo
consegni la documentazione contenente i dettagli dei piani di dieta, e
le modalità di esecuzione. Jonathan Cook, giornalista israeliano,
li ha riassunti: "Funzionari del Ministero della Salute hanno fornito calcoli
del numero minimo di calorie di cui ha bisogno il milione e mezzo di abitanti
di Gaza per evitare la malnutrizione. Questi valori sono stati trasformati
in camion di cibo a cui Israele dovrebbe permettere l'ingresso ogni giorno...
una media di soli 67 camion - molto meno della metà del fabbisogno
minimo - sono entrati quotidianamente a Gaza. Questo paragonato agli oltre
400 camion che entravano prima dell'inizio del blocco". E anche questa
stima è oltremodo generosa, riportano i funzionari delle Nazioni
Unite.
Il risultato dell'imposizione della dieta, osserva l'esperto di Medioriente
Juan Cole, è che "circa il 10% dei bambini palestinesi di Gaza sotto
i 5 anni soffrono di un blocco della crescita a causa della malnutrizione...
in più, è diffusa l'anemia, che colpisce più dei 2/3
dei neonati, 58,6% dei bambini in età scolare e più di 1/3
delle donne incinte". Gli Stati Uniti e Israele vogliono assicurare che
non sia possibile nulla più che la sopravvivenza.
"Ciò che dev'essere tenuto a mente" osserva Raji Sourani, "è
che l'occupazione e la chiusura totale costituiscono un prolungato attacco
alla dignità umana della popolazione di Gaza in particolare e di
tutti i palestinesi in generale. Si tratta di degradazione sistematica,
umiliazione, isolamento e frammentazione del popolo palestinese". La conclusione
viene confermata da molte altre fonti. In una delle principali riviste
di medicina del mondo, The Lancet, un medico ospite di Stanford, inorridito
da ciò che aveva visto, descrive Gaza come "qualcosa di simile ad
un laboratorio per osservare l'assenza di dignità", una condizione
che ha effetti "devastanti" sul benessere fisico, psicologico e sociale.
Il costante controllo dal cielo, le punizioni collettive attraverso il
blocco e l'isolamento, l'irruzione nelle case e nelle comunicazioni e le
restrizioni poste a chi cerca di viaggiare, o di sposarsi, o di lavorare,
rendono difficile vivere una vita dignitosa a Gaza. All'Araboushim dev'essere
insegnato a non alzare la testa.
C'era la speranza che il nuovo governo Morsi in Egitto, meno schiavo
di Israele rispetto alla dittattura di Mubarak sostenuta dall'occidente,
potesse aprire il valico di Rafah, unico accesso verso l'esterno per i
gazawi intrappolati a non essere sottoposto al diretto controllo israeliano.
C'è stata una lieve apertura, ma non molto. La giornalista Laila
el-Haddad scrive che la riapertura sotto Morsi "è semplicemente
un ritorno dello status-quo degli anni passati: solo i palestinesi in possesso
di un documento di identità di Gaza approvato da Israele possono
utilizzare il valico di Rafah" il che esclude la maggioranza dei palestinesi,
compresa la famiglia el-Haddad, in cui solo una moglie ha il documento.
Inoltre, continua, "il valico non conduce alla Cisgiordania, né
permette il passaggio di beni, che sono limitati ai valichi sotto controllo
israeliano e soggetti a divieti per materiali di costruzione e esportazioni".
Il valico ristretto di Rafah non cambia il fatto che "Gaza resta sotto
stretto assedio marittimo e aereo, e continua ad essere chiusa al capitale
culturale, economico, e accademico nel resto dei territori occupati, in
violazione degli obblighi israelo-statunitensi degli Accordi di Oslo".
Gli effetti sono dolorosamente evidenti. All'ospedale di Khan Younis,
il direttore, che è anche primario di chirurgia, descrive con rabbia
e passione come anche le medicine per alleviare le sofferenze dei pazienti
scarseggiano, così come la semplice attrezzatura chirurgica, lasciando
i medici senza supporto e i pazienti in agonia. Le storie personali aggiungono
una vivida base al generale disgusto che si prova davanti all'oscenità
della pesante occupazione. Un esempio è la testimonianza di una
giovane donna che è disperata per il fatto che suo padre, che sarebbe
stato orgoglioso che lei fosse la prima donna nel campo profughi ad avere
una laurea, è "morto dopo 6 mesi di lotta contro il cancro, all'età
di 60 anni. L'occupazione israeliana gli ha impedito di recarsi in un ospedale
israeliano per curarsi. Ho dovuto interrompere i miei studi, il lavoro
e la mia vita e restare seduta accanto al suo letto. Ci sedemmo tutti,
compresi mio fratello medico e mia sorella farmacista, tutti impotenti
e senza speranza guardando la sua sofferenza. E' morto durante l'inumano
blocco di Gaza del 2006 con un quasi inesistente accesso al servizio sanitario.
Penso che sentirsi impotenti e senza speranza sia il sentimento più
letale che un essere umano possa provare. Ammazza lo spirito e spacca il
cuore. Puoi combattere contro l'occupazione ma non puoi combattere il tuo
sentirti impotente. Non riesci a cancellare quel sentimento".
Disgusto davanti all'oscenità, aggravato dal senso di colpa:
noi possiamo porre fine a questa sofferenza e permettere ai Samidin di
godersi le vite di pace e dignità che meritano.
Noam Chomsky ha visitato la Striscia di Gaza dal 25 al 30 ottobre
2012.