Centro Nuovo Modello di Sviluppo, "Lavori in corso" n. 249, ottobre 2011
In forma di domande e risposte, semplici e chiare, la spiegazione delle
origini della crisi del debito pubblico e delle proposte di come risolvere
la suddetta crisi. Proposte radicali che proseguono il discorso sul debito
e sulla crisi in generale che ospitiamo da alcuni numeri della nostra newsletter
1. Cos'è il debito pubblico?
2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
4. Chi detiene il debito pubblico italiano?
5. Che cos'è la speculazione sul debito pubblico e perché
ci danneggia?
6. Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?
7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito
pubblico?
8. Cosa significa “congelamento del debito?
9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento
del debito?
10. E' vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche
non avranno più indietro i loro depositi?
11. E' possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie
che hanno investito in Buoni del Tesoro?
12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico
senza danno sociale?
1. Cos'è il debito pubblico?
R. Il debito pubblico si forma quando le strutture dello stato (governo,
regioni, province, comuni) spendono più di quanto incassano attraverso
imposte, tributi, tariffe, oneri sociali. Lo scarto che si crea nel corso
di un anno si definisce deficit. La somma di tutti i deficit accumulati
ad una certa data forma il debito. In altre pa -
role il deficit esprime la sfasatura relativa ai singoli anni; il debito
la situazione debitoria complessiva accumulata negli anni.
Uno stato con potere di battere moneta, può finanziare il proprio
debito con l'emissione di nuova moneta. Il che corrisponde ad una tassazione
generalizzata di tutti i cittadini, perché l'emissione di nuova
moneta, a parità di produzione, provoca inflazione, ossia aumento
generale dei prezzi che decurta il potere d'acquisto di tutti.
L'Italia ha utilizzato questa via prevalentemente negli anni settanta,
facendovi ricorso più limitato negli anni successivi. Ma da quando
è entrata nell'euro, nel 2001, questa possibilità le è
preclusa del tutto perché il potere di emissione è assegnato
alla Banca Centrale Europea, espressione delle banche centrali della zona
euro, a
loro volta espressione delle banche private dei singoli stati.
La Banca Centrale Europea non ha fra i propri compiti quello di soccorrere
i paesi debitori e gli unici modi che questi hanno per fare fronte alle
proprie difficoltà finanziarie sono il dilazionamento dei pagamenti
nei confronti dei propri fornitori e l'accensione di prestiti presso banche
e qualsiasi altro soggetto (assicurazioni,
fondi, famiglie) disposto a fornire denaro in cambio di un tasso di
interesse. Generalmente il prestito è ufficializzato da un certificato
emesso dal Ministero del Tesoro, che certifica l'ammontare ricevuto, la
data di restituzione e il tasso di interesse riconosciuto. Tali certificati
sono genericamente definiti titoli di stato o titoli di debito
pubblico, ulteriormente suddivisi in Bot (Buoni ordinari del tesoro),
Cct (Certificati di credito del tesoro), o altro, in base alle condizioni
specifiche del prestito.
2. Come si è formato il debito pubblico in Italia?
R. In Italia, il debito pubblico ha cominciato ad assumere dimensioni
preoccupanti negli anni settanta, allorché iniziò a formarsi
un divario consistente fra entrate e spese pubbliche. Mentre in alcuni
periodi le uscite crescevano più ampiamente delle entrate, in altri
succedeva che le prime salivano mentre le seconde
scendevano. Ad esempio, nel periodo 1971-1974 le entrate, in rapporto
al prodotto interno lordo (Pil), si ridussero dello 0,5% (dal 29 al 28,5%),
mentre le uscite crebbero dal 36,9 al 43,4%. Fra le ragioni per cui nel
corso degli anni si sono avute entrate inferiori a quelle che il sistema
avrebbe potuto garantire, va citata la riduzione delle aliquote sugli scaglioni
più alti di reddito, la bassa tassazione dei redditi da capitale,
la riduzione se non l'eliminazione delle imposte patrimoniali, l'elevato
tasso di evasione fiscale, l'espandersi dell'economia in nero.
Fra le ragioni per cui si è avuta un'accelerazione delle uscite,
vanno citate le politiche a sostegno delle imprese, il pensionamento precoce
nel settore pubblico, l'abnorme espansione occupazionale in ambito pubblico
e il mantenimento di inutili carrozzoni con finalità al tempo stesso
clientelari ed elettorali, l'esplosione dei
privilegi dalla politica, le ruberie a vantaggio di imprese appaltate
dallo stato per spartire il bottino con i partiti al governo, la corruzione
valutata 60 miliardi di euro l'anno.
Ma non va dimenticato il ruolo degli interessi che specie negli anni
ottanta sono stati elevatissimi. Nel 2010 la spesa per interessi è
stata pari a 70,1 miliardi di euro corrispondente all'8,8% dell'intera
spesa pubblica e al 15,7% delle entrate tributarie (Imposte dirette e indirette
esclusi oneri sociali). In effetti gli interessi,
oltre ad accrescere le uscite e quindi il debito, rappresentano una
redistribuzione alla rovescia: concentrano nelle tasche di pochi la ricchezza
di tutti.
Fonti: Maria Teresa Salvemini, Le politiche del debito pubblico, Laterza 1992; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Nunzia Penelope, Soldi rubati, Salani Editore 2011.
3. A quanto ammonta il debito pubblico italiano?
R. Secondo i dati della Banca d'Italia, al giugno 2011 il debito pubblico
totale ammontava a 1901 miliardi di euro pari al 122% del Pil realizzato
nel 2010. Ma economisti come Loretta Napoleoni, affermano che è
impossibile avere il dato preciso perché in ogni ambito delle amministrazioni
pubbliche, dal Ministero del Tesoro, fino all'ultimo comune d'Italia, possono
essere stati accesi prestiti presso banche private compiacenti che in cambio
di laute commissioni hanno escogitato degli stratagemmi per farli passare
come anticipi su operazioni future. Ma il problema è che si tratta
di operazioni assimilabili a scommesse che possono o non
possono dar luogo ad incassi. In conclusione si fanno comparire fra
le entrate somme che negli anni successivi possono trasformarsi in debiti,
gravati di interessi, perché l'evento auspicato non si è
realizzato. Benché si tratti di operazioni configurabili come veri
e propri falsi in bilancio, purtroppo sono utilizzate anche
dai governi. Il caso più eclatante è stato scoperto a
carico della Grecia che aveva agito con la complicità della banca
d'affari Goldman Sachs. Per essere ammessa nell'euro, nell'anno 2001 e
seguenti, la Grecia aveva bisogno di dimostrare che il suo deficit annuale
era inferiore a quello reale e non potendo agire sul piano delle
uscite, aveva deciso di falsificare i dati sul piano delle entrate.
In altre parole si era fatto anticipare da Goldman Sachs dei soldi su polizze
assicurative relative ad eventi finanziari futuri (l'innalzamento dei tassi
di interesse piuttosto che la rivalutazione di certe valute) di cui nessuno
poteva prevedere l'andamento. Ma ciò non
interessava a nessuno: il problema era ingannare, poi si sarebbe visto.
E infatti nel 2010 il bubbone è scoppiato perché non poteva
essere più tenuto nascosto. Ed oggi la Grecia non sa di che morte
morirà. Gustavo Piga, professore dell'università di Tor Vergata,
ha spiegato che tutti i grandi paesi industrializzati del mondo, Italia
compresa, ricorrono all'uso di queste polizze assicurative, meglio conosciute
come derivati, che però sono costosissime e tal volta articolate
in una maniera tale che se l'evento assicurato non si realizza, può
essere il cliente a dover pagare l'assicuratore. Ne sanno qualcosa i 519
comuni d'Italia che dalla sottoscrizione di simili polizze, con banche
del calibro di Deutsche-Bank o Ubs, stanno registrando perdite per quasi
un miliardo di euro. Così l'utilizzo delle moderne tecniche di ingegneria
finanziaria sta aggravando il debito pubblico e lo sta rendendo sempre
più opaco, ossia fuori controllo. I vincenti, ancora una volta,
sono le banche e le assicurazioni.
Fonti: Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Gustavo Piga, Derivative and public debt management, Isma 2001; Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli 2011.
4. Chi detiene il debito pubblico italiano?
R. Una prima classificazione può essere fatta in base alla nazionalità
dei detentori. Da questo punto di vista, al giugno 2011, il debito pubblico
era detenuto per il 56,4% da soggetti italiani e il 43,4% da soggetti stranieri.
Una seconda classificazione può essere fatta in base alla tipologia
giuridica dei detentori. Da questo punto
di vista, la quota detenuta dalle famiglie, al giugno 2011, corrispondeva
al 12,7%. Tutto il resto era detenuto da investitori istituzionali: banche,
assicurazioni e fondi. Più precisamente: 3,6% Banca d'Italia; 26,2%
banche commerciali italiane, 13,8% assicurazioni e fondi italiani, 10,6%
banche estere, 32,8% fondi esteri.
In conclusione, limitatamente alla parte di debito detenuto dagli investitori
istituzionali, la suddivisione fra soggetti italiani ed esteri è
praticamente al 50%, mentre la suddivisione fra banche e fondi è
rispettivamente del 46,8 e 53,2%.
Fonti:Elaborazione dati Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico 14 ottobre 2011 n. 51; Morgan Stanley, Who owns Italy's government debt?, luglio 2011.
5. Che cos'è la speculazione sul debito pubblico e perché
ci danneggia?
La speculazione è una strategia attuata da parte di fondi, assicurazioni
e banche per guadagnare sul debito a più riprese. Le tecniche finanziarie
sono molte, ma una delle più ricorrenti è la speculazione
al ribasso che consiste nel vendere, al prezzo di oggi, titoli che saranno
consegnati fra una settimana o fra un mese. Il tempo è un elemento
determinante, ma non è la semplice separazione fra data di vendita
e data di consegna che consente agli speculatori di guadagnare. Il vero
segreto è che non possiedono i titoli che offrono, in fondo il trucco
sta tutto qui. La loro speranza è che nel frattempo il prezzo scenda
e quando arriverà il tempo di consegnare i titoli, li compreranno
sul momento a prezzi ribassati. Nella differenza fra l'alto prezzo di vendita
di oggi e il basso prezzo di acquisto di domani, sta il loro guadagno.
Sempre che tutto vada bene. Ma banche e fondi non si affidano al caso.
Quando prendono una decisione sanno come fare per creare le condizioni
favorevoli al loro obiettivo perché hanno abbastanza denaro per
indirizzare la storia. Se puntano su un'operazione al ribasso, in un primo
momento si muovono con circospezione, cercano di piazzare le loro vendite
senza dare nell'occhio. Poi quando stabiliscono che il prezzo deve crollare
danno un'accelerazione all'offerta e il gioco è fatto. La massa
di offerta insospettisce chi frequenta le borse: se tutti vendono una certa
roba vuol dire che non vale niente, meglio starne alla larga. Ma proprio
perché nessuno compra, il prezzo scende davvero e il timore si trasforma
in realtà esattamente come volevano i burattinai.
Ovviamente questa è solo una semplificazione delle mille diavolerie
che la finanza moderna si è inventata per guadagnare sulla dabbenaggine
della moltitudine di piccoli risparmiatori che si aggirano per le piazze
finanziarie. Ma quasi sempre la loro strategia si basa sulla psicologia
di massa. Ottimismo e pessimismo,
fiducia e paura sono i grandi alleati dei burattinai della finanza
e quando stabiliscono che a loro serve un sentimento o l'altro si attivano
con i loro potenti mezzi
per provocarlo. La speculazione al ribasso si nutre della paura, e
immediatamente l'intero sistema informativo cerca di amplificarla con titoli
tipo: “I mercati non credono nel sistema Italia, prezzi in picchiata”.
Smettiamola di parlare di mercato: anche lì c'è una massa
manovrata e una minoranza che manovra e né
l'una né l'altra crede in qualcosa ad eccezione dei soldi. Ai
fondi europei, americani, chissà forse anche cinesi, non importa
niente di cosa succederà alla Grecia o all'Italia. Non si preoccupano
neanche di cosa succederà all'economia mondo di cui fanno parte
anche loro. La loro è una logica da pirateria: attaccano, rubano
e scappano. Che poi la nave affondi o riprenda a navigare non è
affar loro.
Va comunque sottolineato che nella prima fase, il guadagno degli speculatori
non si realizza alle spalle dello stato, ma degli altri soggetti privati
che svendono i loro titoli per effetto della paura. Il danno per lo stato
arriva in un secondo momento, allorché si ripresenta sul mercato
finanziario per ottenere nuovi prestiti. A questo
punto scatta la seconda strategia di arricchimento degli speculatori,
che invocano la sfiducia nei confronti dello stato per pretendere interessi
più alti sui nuovi prestiti richiesti. Considerato che per l'Italia
ogni punto di aumento percentuale degli interessi corrisponde ad un maggiore
esborso di 35 miliardi di euro, si capisce la
preoccupazione per gli attacchi speculativi.
Ma va precisato che la speculazione è possibile solo perché
la legge la consente. Niente vieterebbe al governo e al parlamento di prendere
dei provvedimenti che impediscono gli attacchi speculativi almeno sui titoli
pubblici. Per farlo, basterebbe avere il coraggio di mettersi contro il
potere finanziario che però i politici non
hanno, perché per rimanere al potere non è del popolo
che hanno bisogno, ma della complicità del potere economico.
Del resto si sa che molti politici hanno i piedi contemporaneamente
in due scarpe: quella della politica e quella degli affari. Due casi per
tutti: Matteo Colaninno, al tempo stesso deputato PD e vice presidente
del gruppo Piaggio, e Silvio Berlusconi, al tempo stesso deputato PDL,
presidente del Consiglio e principale
azionista di Fininvest. Dunque non deve stupire se la consegna dell'intero
arco parlamentare è piegarsi al ricatto dei mercati e affrettarsi
a fare delle manovre correttive che hanno lo scopo di convincere i mercati
che lo stato italiano è un debitore affidabile. Un debitore, cioè,
disposto a fare tirare la cinghia al suo popolo pur di pagare gli interessi
ai creditori.
La disponibilità dei nostri politici a calare le braghe è
senza limiti e non protestano neanche quando gli interessi si fanno così
esosi da correre il rischio che lo stato soccomba. Del resto alle banche
questa prospettiva non sembra interessare, anzi forse è proprio
ciò che vogliono, come è nella politica di molti strozzini
a cui non interessa tanto cosa possono guadagnare dagli interessi, ma cosa
possono ricavare dalle spoglie del debitore.
Questa è la terza strategia di arricchimento degli speculatori.
In molti paesi del Sud del mondo è abituale che gli strozzini
cedano prestiti ai piccoli contadini ad interessi da capogiro in modo da
dissanguarli e fare scattare la trappola alla prima rata non pagata. A
quel punto inviano avvocati, notai e sicari, ciascuno con la propria arma
di ricatto, per costringere i contadini a chiudere la
partita cedendo i propri averi. E se il debitore non ha niente da dare
possono prendersi lui stesso in ostaggio riducendolo in schiavitù.
Nei confronti degli stati indebitati si assiste alla stessa scena. Nelle
loro capitali arrivano emissari di ogni genere, della Banca Centrale Europea,
del Fondo Monetario Internazionale, delle società di rating, tutti
con la stessa missiva: “pagate ciò che il mercato vi impone e se
non potete pagare, svendete”.
Soprattutto “svendete” perché il vero disegno di mercanti, banche,
assicurazioni, imprese di servizi, tutti intrecciati fra loro come serpenti
in amore, è di mettere le mani sulle proprietà degli stati.
Vedere tanta ricchezza e non poterla toccare, alla stregua di un frutto
proibito, è una sofferenza indicibile, da sempre si scervellano
per impossessarsene. Così si scopre che si scrive debito, ma si
pronuncia privatizzazione, il sogno eterno dei mercanti di accaparrare
palazzi, spiagge, parchi, isole, ma anche acqua, scuola, sanità,
elettricità, gas, strade e tutto il resto che gli stati possiedono
e gestiscono. Beni comuni che la struttura pubblica mette gratuitamente
a disposizione di tutti per il bene di tutti, ma che i mercanti vogliono
per sé per ricavarci profitto.
6. Perché si tagliano le spese sociali in nome del debito pubblico?
R. Dobbiamo prendere coscienza che il debito pubblico è un nodo
che rischia di compromettere lo stato sociale dei prossimi trecento anni.
E sicuramente lo è se la parola d'ordine di destra e sinistra continua
ad essere “restituire il debito senza colpire i ricchi”. Tant'è
si perseguono due sole strade, entrambe esplosive: la riduzione delle spese
sociali e la svendita del patrimonio pubblico.
Si giustifica il taglio alle spese sociali con l'argomentazione che
il primo obiettivo di risanamento della finanza è evitare di accumulare
altro debito. Il che si ottiene col pareggio di bilancio, ossia con una
riduzione delle spese sufficiente ad avere di che pagare gli interessi.
Se fossimo governati da partiti che hanno a cuore l'equità e il
benessere dei cittadini, le manovre correttive sarebbero realizzate aumentando
le tasse sui ricchi e tagliando le spese inutili e dannose come quelle
militari e i privilegi della politica. Ma oggi né destra, né
sinistra hanno a cuore il bene comune e sia l'una che l'altra cercano di
raddrizzare i conti pubblici accanendosi verso i redditi medio-bassi e
tagliando le spese per il personale, per l'istruzione, per l'assistenza,
per i comuni che si occupano delle politiche sociali a livello locale.
Ed ecco il taglio di 8 miliardi di euro alla scuola nel triennio 2009-2011;
di 10 miliardi alla sanità dal 2011 al 2014, di 15 miliardi di euro
a regioni e comuni nello stesso periodo.
Ma la preda che governo, confindustria e Unione Europea sono assolutamente
intenzionati a spolpare è la previdenza sociale. Eppure tutti sanno
che il nostro sistema previdenziale è fondamentalmente in equilibrio.
Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2009, dimostrano che il saldo
tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali
al netto delle ritenute fiscali è in attivo per 27,6 miliardi di
euro, pari all'1,8% del Pil.
Solo un artificio contabile consente alla Corte dei Conti di affermare
che il sistema previdenziale è in deficit, addirittura di 77 miliardi
nel 2010. Ma ciò dipende dal fatto che il fondo previdenziale è
usato anche per il pagamento delle pensioni sociali e dei sussidi di disoccupazione
che dovrebbero essere a carico della fiscalità
generale. In realtà l'accanimento verso il sistema previdenziale
non è dovuto alla sua debolezza, ma alla sua solidità. Nel
2010 i versamenti per contributi sociali sono ammontati a 214 miliardi
di euro, quasi un terzo delle entrate totali dello stato. Se solo una parte
potesse essere sottratta al pagamento delle pensioni, si potrebbero
risolvere molti problemi senza mettere le mani nelle tasche dei ricchi.
In ogni caso va tenuto presente che il pareggio di bilancio è
solo uno degli obiettivi. L'altro è l'abbattimento del debito accumulato,
la famosa restituzione del capitale in nome della quale si impongono ulteriori
sacrifici.
Ma tutto ha un limite e anche i politici sanno di non poter restituire
1900 miliardi di euro solo con i tagli alle spese, perciò ricorrono
alla vendita del patrimonio pubblico esattamente come si fa in famiglia
che dopo aver tagliato sul riscaldamento, sul cinema, sul telefono, si
vendono le proprietà di famiglia. Tant'è la parola
d'ordine è privatizzare e solo per miracolo, grazie al referendum
di maggio, abbiamo salvato l'acqua. Ma il decreto di agosto 2011 prevede
misure per la privatizzazione di tutte le municipalizzate, mentre il provvedimento
per l'introduzione del federalismo, varato nel 2010, trasferisce i beni
demaniali ai comuni con licenza di venderli per il risanamento delle casse
locali. Di questo passo ci troveremo una comunità nazionale senza
più un edificio, un parco, una strada, un'azienda pubblica che garantisca
qualsivoglia servizio gratuito a favore di tutti. Così stiamo recitando
il requiem dell'economia del bene comune, ricordandoci che una volta
dilapidata ci vorranno secoli per ricostruirla.
Fonti: dpr 98/2011 convertito in legge 111/2011; dpr 138/2011 convertito in legge 148/2011; Felice Roberto Pizzuti, Pensioni, perchè è giusto indignarsi, il Manifesto 27.10.2011; Corte dei Conti, Rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica; Decreto legislativo n.85 del 28 maggio 2010.
7. Perché tutti invocano la crescita per la soluzione del debito
pubblico?
R. Il debito è come una tavola a cui si presentano degli ospiti
inattesi. Si può decidere di respingerli e il problema è
risolto, ma se si accolgono ci sono due soli modi per servire anche loro:
ridurre le razioni di tutti o aumentare le portate. Ed ecco la crescita
come soluzione del debito in alternativa ai tagli e agli aumenti di tasse.
L'argomentazione è che se aumenta la ricchezza prodotta, automaticamente
dovrebbe aumentare anche il gettito fiscale e quindi le risorse per il
pagamento di interessi e capitale. Ma la crescita pone tre ordini di problemi:
una questione di soldi, una questione di diritti, una questione di compatibilità
ambientale.
La questione dei soldi si pone perché per investire le imprese
hanno bisogno di stimoli. Se si tratta di imprese orientate al mercato
interno, come quelle delle costruzioni e delle infrastrutture, richiedono
ordini. Si aspettano che lo stato le ingaggi per la costruzione di strade,
ponti, ferrovie, acquedotti. Se si tratta di imprese
orientate al mercato globale richiedono sovvenzioni. Si aspettano che
lo stato le aiuti con finanziamenti alla ricerca, con facilitazioni fiscali
e riduzione degli oneri sociali, in modo da avere meno costi e quindi essere
più competitive. Ma dove trovare i soldi se il fondo del barile
è già stato raschiato? L'indicazione delle imprese
è tagliare ulteriormente le spese correnti per recuperare risorse
per loro. Così la crescita si trasforma in antagonista delle spese
sociali. Sapendo di non avere soldi da spendere, il governo Berlusconi
ha cercato disperatamente delle scorciatoie per favorire le imprese a costo
zero. Ma l'unica via che ha trovato è la riduzione del costo del
lavoro tramite la riduzione delle garanzie contrattuali: preminenza dei
contratti aziendali sui quelli nazionali, maggiore libertà di licenziamento,
minori tutele nelle assunzioni. Così la crescita si trasforma in
antagonista dei diritti dei lavoratori. Ma il problema principale è
che oggi non ci sono più margini per la crescita. E non tanto per
ragioni economiche, quanto ambientali. Le nostre economie sono già
cresciute fin troppo, se tutti i paesi del mondo pretendessero di raggiungere
i nostri livelli di ricchezza, il pianeta collasserebbe.
L'assottigliarsi delle risorse e la necessità di ridurre l'inquinamento
ci impongono sobrietà nei consumi e prudenza nella produzione. La
nostra sfida non è accrescere la produzione, ma ristrutturarla in
modo da garantire a tutti di vivere bene nel rispetto dei limiti del pianeta.
Per riuscirci dobbiamo aver chiaro che il benessere non si misura con la
quantità di lattine di cocacola che buttiamo nel carrello della
spesa o col numero di apparecchi televisivi che abbiamo per casa. Prima
che dalle cianfrusaglie di mercato, la dignità personale dipende
dalla qualità dell'abitare, dalla possibilità di curarsi
e vivere in buona salute, dalla capacità di esercitare pienamente
le funzioni di cittadino sovrano, dalla possibilità di fare comunità,
dalla possibilità di potersi nutrire, vestire, muoversi, scaldare
a buon mercato. Per
questo il vero sviluppo, quello umano e sociale, non dipende dalla
crescita del prodotto interno lordo, ma dal grado di equità, di
inclusione lavorativa, di solidarietà collettiva che siamo capaci
di mettere in atto. Dipende dal livello di diritti che sappiamo garantire,
dalla quantità e qualità dei servizi collettivi che sappiamo
fornire,
dal tipo di città che sappiamo strutturare, dalle forme e dai
tempi di lavoro che sappiamo organizzare, dalle forme di partecipazione
che sappiamo promuovere.
Non di più, ma meglio e diverso devono essere le nuove parole
d'ordine. Non si tratta di creare nuove fabbriche, ma di trasformare quelle
esistenti per renderle più eco-compatibili e metterle in condizione
di produrre ciò che serve secondo nuovi schemi di consumo orientati
ai bisogni fondamentali per tutti. Trasformarle non
solo da un punto di vista tecnico, energetico e produttivo, ma anche
dell'assetto proprietario, delle forme di assunzione, dei tempi di lavoro,
dei livelli salariali, dei diritti sindacali, tenendo a mente che il lavoro
non è un costo da comprimere, ma una ricchezza da valorizzare.
Una funzione che tutti abbiamo il diritto-dovere di svolgere in forma
dignitosa e sicura per poter prendere parte alla ricchezza prodotta. E
non solo in ambito mercantile, ma sempre di più in ambito collettivo
perché quando le risorse si fanno scarse non è espandendo
il mercato, ma l'economia della solidarietà collettiva, che si può
permettere a tutti di vivere con dignità. Dunque non è alla
crescita che dobbiamo puntare, ma a un altro modello organizzativo che
pur mantenendo consumi e produzione al minimo, consente a tutti la piena
inclusione lavorativa, il pieno soddisfacimento dei bisogni fondamentali,
la piena realizzazione umana,
sociale e politica. Ma per riuscirci è quanto mai necessario
trovare un via di uscita dal debito alternativa a quella presente, per
non trovarci del tutto spogliati.
8. Cosa significa “congelamento del debito?”
R. Congelare il debito non significa dichiarare fallimento, o default,
come dicono gli inglesi. Il fallimento è una dichiarazione di resa
assunta per impotenza economica. Il congelamento è una dichiarazione
di volontà assunta per decisione politica. E' il sussulto di un
popolo che si riappropria della propria sovranità. Congelare
il debito significa sospendere il pagamento di capitale e interessi,
a banche, fondi e assicurazioni, per un periodo di tempo di uno o due anni,
in modo da recuperare quella libertà e quella cognizione di causa
necessarie a poter definire, in piena autonomia, criteri e tempi di uscita
dal debito.
Il primo obiettivo del congelamento è mettere fuori gioco la
speculazione in modo da non avere più la pistola dei mercati puntata
alla tempia. Se gli speculatori sapessero che non si può ottenere
più niente, perché i rubinetti dello stato sono chiusi, la
smetterebbero con i loro giochetti per fare aumentare i tassi di interesse.
Portarsi fuori ricatto è già un passo importante per
recuperare libertà decisionale, ma nel contempo bisogna fare luce
sui fatti perché indagando possono emergere elementi che ribaltano
la situazione. Oggi che conta solo l'interesse dei creditori, ci si focalizza
solo sui numeri che misurano la capacità di pagamento dello stato.
Ma se cambiamo prospettiva e mettiamo al centro della nostra attenzione
la tutela della collettività, capiamo che prima di tutto dobbiamo
studiare la formazione del debito per stabilire se persiste o meno l'obbligo
del pagamento.
Quando i popoli del Sud del mondo hanno analizzato come si era formato
il debito dei loro paesi, hanno scoperto che gran parte era stato accumulato
per arricchire indebitamente politici e centri di potere economico. Pertanto
lo hanno ripudiato perché non si può chiedere ai popoli di
impiccarsi per ripagare le malefatte dei governanti con la complicità
delle banche. Dunque il secondo obiettivo del congelamento del debito è
prendersi il tempo per condurre una seria indagine sulla formazione del
debito in modo da definire quale parte è doveroso pagare perché
utilizzato per il bene comune e quale parte, invece, è legittimo
ripudiare perché dovuto a frode, ruberie, corruzione, sprechi, opere
inutili e dannose, arricchimenti e regalie indebite a caste, banche, imprese.
Un'indagine che valuti anche il ruolo avuto dagli interessi e che esamini
la lista dei creditori per capire se ce ne sono che da decenni si arricchiscono
alle spalle del debito pubblico. In tal caso bisognerà fare un conto
di quanto hanno incassato per stabilire se non sia arrivato il momento
di dire basta. A meno che non si voglia affermare che la rendita è
un diritto perpetuo, bisognerà pur stabilire quando cessa il diritto
del creditore a pretendere un compenso dal debitore. Ad esempio, quando
l'esborso per interessi è pari al doppio del capitale non potrebbe
aver senso annullare ogni rapporto di dare e di avere? E ancora non basta.
Una seria indagine deve occuparsi anche delle entrate perché se
è vero che il deficit è una sfasatura fra entrate e uscite
non è detto che la responsabilità sia solo dell'eccesso di
spesa. Può essere dovuto anche a una carenza di entrate. In Italia,
ad esempio, abbiamo un tasso di evasione altissimo e sappiamo che dal 1982
ad oggi si sono abbassate le aliquote oltre i 75000 euro dal 72 al 45%.
Per lo stato ha significato senz'altro un mancato incasso che gli ha procurato
un doppio danno: il peggioramento del debito e un maggiore esborso per
interessi. Per i ricchi, invece, si è trattato di un doppio guadagno:
mancato esborso fiscale e incasso di interessi perché la beffa è
che i soldi risparmiati sono finiti comunque allo stato, ma sotto forma
di prestito. E allora chi è il vero debitore: il popolo depredato
dai ricchi o i ricchi che hanno derubato il popolo?
9. Quali possono essere le conseguenze collettive del congelamento del
debito?
R. Ogni volta che uno stato osa sfidare le regole imposte dai creditori,
si paventano scenari tenebrosi per il loro futuro. In realtà i paesi
che in passato hanno avuto il coraggio di dichiarare una moratoria sul
pagamento del debito, non sono naufragati, ma sono rinati. Lo mostra l'esperienza
della Russia nel 1998, dell'Argentina nel 2001, dell'Ecuador nel 2007.
L'Ecuador, tra l'altro, è un esempio concreto di inchiesta sul debito.
Sette mesi dopo la propria elezione, il neopresidente Rafael Correa ha
istituito una commissione d'inchiesta formata da 18 esperti che hanno cominciato
a lavorare nel luglio 2007. Dopo 14 mesi di lavoro hanno consegnato un
rapporto che mostrava chiaramente l'esistenza di numerosi prestiti accesi
in violazione delle più elementari norme di legalità. Sulla
base di tali risultanze, nel novembre 2008 il governo ha dichiarato la
sospensione del pagamento di titoli in scadenza nel 2012 e nel 2030. Finalmente
il governo di questo piccolo paese è uscito vittorioso da una prova
di forza con le banche nordamericane e per 900 milioni di dollari ha ricomprato
titoli del valore nominale complessivo di oltre 3 miliardi. Se si considerano
anche gli interessi annullati, il risparmio totale per l'Ecuador è
stato di 7 miliardi di dollari che il governo può spendere per spese
sociali, sanità, istruzione, trasporti.
Certo si dirà che la posizione dell'Italia non è quella
dell'Ecuador, e uno sgarbo ai creditori potrebbe costarle la fuga massiccia
di capitali, l'espulsione dall'euro, una catastrofe economica a causa del
fallimento delle banche. Tutte ipotesi che andrebbero verificate non solo
per capire quante probabilità hanno di avverarsi,
ma anche per stabilire se siano realmente minacce o se invece non potrebbero
rivelarsi delle opportunità.
Premesso che nessuna forza economica, sia essa bancaria, finanziaria,
o commerciale, ha interesse a mandare a fondo un paese come l'Italia, perché
loro sarebbero i primi a rimetterci, va precisato che se anche perdessimo
capitali forse non sarebbe un gran danno dal momento che non sono impiegati
per attività produttive,
ma per iniziative speculative. Quanto alla nostra presenza nell'euro,
si impone una valutazione fra costi e benefici. Sicuramente ci hanno guadagnato
le imprese fortemente inserite nel mercato europeo, ma ci hanno perso,
fino a morire, molte piccole a vocazione locale, che sono state sgominate
dalle potenti imprese tedesche
o francesi. Da più parti si richiede, se non di uscire dall'euro,
di consentire la contemporanea circolazione di monete regionali, per favorire
le imprese locali. E se proprio dovessimo tornare alla lira, forse non
sarebbe del tutto negativo. Quanto meno restituiremmo al nostro stato il
potere di controllo sulla moneta, sui tassi
di interesse e sui tassi di cambio, tutti strumenti di governo dell'economia
oggi perduti a favore di Bruxelles che li gestisce unicamente nell'interesse
delle banche e dei grandi gruppi speculativi. Infine l'ultima minaccia:
il fallimento delle banche. A questo mondo tutto è possibile, ma
stando ai fatti, i titoli pubblici che le banche
detengono solo raramente e in piccola parte si trasformano in denaro
sonante. Solitamente se ne stanno chiusi nelle casseforti e quando arrivano
a scadenza non provocano un incasso di denaro, ma una partita di giro perché
la somma disponibile è subito riutilizzata per l'acquisto di titoli
di nuova emissione. Tutto questo per
dire che stiamo parlando di ricchezza virtuale scritta nei libri contabili,
che i detentori usano più come strumento giuridico per avere diritto
a una rendita, che come ricchezza da spendere. Se i titoli pubblici si
deprezzassero o venissero cancellati, la banca risentirebbe un danno più
per i mancati interessi che per la perdita
patrimoniale. Perciò un danno contenuto che certo può
ripercuotersi negativamente sugli azionisti e sui dipendenti, ma che difficilmente
porta al fallimento bancario.
Evento che può comunque essere prevenuto con opportuni interventi
legislativi.
Fonte: Eric Toussaint, La dette ou la vie, Cadmt 2011.
10. E' vero che se lo stato congela il debito, i clienti delle banche
non avranno più indietro i loro depositi?
R. Da un punto di vista strettamente finanziario la risposta è
no. Ma la capacità delle banche di rifondere i propri clienti è
fortemente influenzata dalla fiducia di cui godono. In condizioni di normalità
le banche soddisfano tranquillamente le richieste di rimborso, non perché
abbiano in cassa l'equivalente di tutti i depositi, ma
perché i clienti che chiedono di avere indietro i loro soldi
sono relativamente pochi.
Detta molto schematicamente, il mestiere delle banche è guadagnare
sull'impiego di soldi ottenuti da terzi, creando una differenza fra i tassi
di interessi pagati e quelli incassati. Pertanto hanno la convenienza a
impiegare tutto ciò raccolgono, lasciando nel cassetto il meno possibile.
In condizioni normali questa situazione
non preoccupa perché è dimostrato che il numero di persone
che si presentano per ritirare i propri risparmi sono pochi e in ogni caso
lo fanno solo per ragioni economiche.
Tutti gli altri, che non si trovano in stato di bisogno, dormono sonni
tranquilli perché sentono i propri soldi al sicuro. Ma questo equilibrio
può rompersi
se per una ragione qualsiasi la gente perde fiducia sull'affidabilità
delle banche. In quel caso tutti si precipitano a ritirare i propri depositi
ed è la volta buona che non li ottengono perché di soldi
in cassa non ce ne sono. In caso di congelamento del debito, può
scatenarsi una sfiducia collettiva che spinge a dare l'assalto alle
banche, ma molto dipende da come lo stato gestisce la situazione. Va
comunque tenuto presente che il rischio fallimento delle banche è
reale e non tanto per le quote di debito pubblico che detengono, ma per
il rischio di perdere somme colossali che hanno investito in spregiudicate
operazioni di speculazione finanziaria. Non a caso i governi occidentali
hanno già sborsato 13000 miliardi di dollari per salvare le banche
e altri ne stanno cercando. Tutto questo per dire che oggi non c'è
più nessuna certezza e che i primi ad avere l'interesse a rimettere
le cose a pulito sono proprio i piccoli risparmiatori. Una proposta in
tal senso è quella di nazionalizzare
le banche per la parte che coinvolge i risparmiatori e le imprese,
lasciando che tutto il resto sia abbandonato al proprio destino, esattamente
come hanno fatto in Islanda.
11. E' possibile congelare il debito pubblico salvaguardando le famiglie
che hanno investito in Buoni del Tesoro?
R. Poichè i Buoni del Tesoro sono nominativi, il congelamento
del debito può essere gestito in maniera altamente selettiva, in
base ai detentori e all'ammontare posseduto. Quindi può essere stabilito
che vengano esclusi dal congelamento i titoli intestati a persone fisiche
al di sotto di un certo valore per non compromettere la loro sicurezza
di vita.
12. Quali strategie si possono perseguire per ridurre il debito pubblico
senza danno sociale?
R. Prima di tutto bisogna abbatterne la dimensione, individuando, tramite
apposita Commissione d'inchiesta, la parte da ripudiare perché illegale,
illegittima e odiosa.
Ma se l'ammontare da ripagare persiste eccessivo, si impone la necessità
di ristrutturarlo tramite un ridimensionamento d'imperio o negoziazioni
con i creditori in modo da ridurre il peso degli interessi e del capitale
da restituire. In ogni caso serve un piano di restituzione che definisca
tempi e modalità di finanziamento. Il che
significa agire sia sul piano delle entrate che delle uscite.
Sul piano delle entrate, prima di tutto bisogna ripristinare una seria
politica fiscale di tipo progressivo come prescrive la Costituzione. Ossia
applicare aliquote crescenti al crescere degli scaglioni di reddito. Contemporaneamente
bisogna reintrodurre una seria patrimoniale che colpisca la ricchezza accumulata
oltre misura,
sotto forma di beni mobili e immobili, depositi e titoli. Oggi perfino
la Confindustria sostiene una simile proposta, evidentemente per paura
che l'eccesso di disuguaglianza o di sacrifici sociali possa scatenare
una pericolosa sollevazione popolare. Di sicuro il risultato sarebbe garantito:
Pellegrino Capaldo, storico banchiere ed esperto di finanza pubblica, ha
calcolato che un'imposta sugli immobili, fra il 5 e il 20 per cento del
loro valore, potrebbe garantire un introito sufficiente a poter dimezzare
il debito pubblico.
Il discorso sulle entrate potrebbe continuare con misure contro l'evasione
fiscale e l'economia in nero che procura un mancato incasso di oltre 120
miliardi di euro l'anno. Nel contempo si dovrebbe lavorare anche sul piano
delle uscite. Bisognerebbe eliminare ogni forma di spreco e di privilegio
a vantaggio di politici, alti funzionari e dirigenti di imprese pubbliche.
Bisognerebbe ridurre le spese militari ritirandoci da ogni missione
neocoloniale e cancellando qualsiasi sistema d'arma a scopo offensivo.
Si dovrebbero abbandonare tutte le opere faraoniche utilizzando gli stessi
soldi per il risanamento dei territori, il potenziamento delle infrastrutture
e delle economie locali, la riconversione della produzione in un'ottica
di sostenibilità, il miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento
delle comunità.