di Luigi Cavallaro, "la rivista del manifesto", N. 51, giugno 2004
Il conservatore concluderà che il suo istinto ha ricevuto un'ampia giustificazione in quello che ho detto. [-] D'altro canto il liberale e il socialista moderato saranno felici di trovare che essi hanno avuto ragione nella loro diffidenza verso il sindacalismo radicale, che la migliore strada consiste nel continuare e ampliare il programma di servizi sociali [-]. Infine, il rivoluzionario apprenderà da questo scritto che la situazione è proprio quella che supponeva, cioè che non vi è nulla da fare nell'attuale contesto sociale, che è un completo spreco di tempo cercare di emendarlo e che l'unica attività sensata è organizzarsi in vista di cambiamenti rivoluzionari. Così credo proprio di esser stato capace, una volta tanto, di accontentare tutti.
1.L'articolo di Pierangelo Garegnani, Tiziano Cavalieri e Meri Lucii
apparso nel marzo scorso su questa rivista 1 pone un quesito teorico e
un problema politico. Il quesito teorico è: quali sono le conseguenze
di un aumento dei salari? Il problema politico è: nelle condizioni
date, è desiderabile un aumento dei salari?
Al quesito teorico gli autori rispondono con nettezza: date le condizioni
tecniche della produzione, la conseguenza di un aumento dei salari (reali)
è una diminuzione del saggio di profitto. L'analisi mostra poi che
la diminuzione del saggio di profitto innesca due reazioni da parte delle
imprese, che nel medio periodo portano a un aumento del saggio d'inflazione
e a un aumento del saggio di disoccupazione: all'esplosione salariale del
quinquennio 1968-72, che vede i salari monetari dell'industria manifatturiera
crescere in media del 10,3% nei cinque paesi considerati (Gran Bretagna,
Francia, Germania federale, Stati Uniti e Italia), segue dapprima l'impennata
dell'inflazione (che passa da una media del 2,8% nei sedici anni precedenti
ad una media del 4,8% nel quinquennio considerato), poi - complici le politiche
deflazionistiche attivate dopo lo shock dei prezzi petroliferi del 1973
- l'aumento della disoccupazione, che «progressivamente sostituisce
l'inflazione nel contenere l'incremento dei salari reali» 2.
Ma c'è un altro aspetto che emerge dalla ricostruzione tracciata
nell'articolo, ed è che un aumento dei salari monetari può
comportare una variazione dello stesso segno dei salari reali. Nel quinquennio
1968-72, infatti, i salari monetari crescono più dell'inflazione
(e in taluni casi anche più della produttività: in Italia
e in minor misura in Francia e Germania) e dunque muta la distribuzione
del reddito reale tra salari e profitti; è solo la disponibilità
dell'arma del rialzo dei prezzi che consente alle imprese di recuperare
nel periodo successivo la quota di prodotto sociale perduta a vantaggio
dei salari.
Questo aspetto dell'analisi introduce al problema politico. Muovendo
dal rilievo per cui l'adesione alla moneta unica impedisce alle imprese
di scaricare sui prezzi gli incrementi di costo (per le ovvie conseguenze
che ne deriverebbero sulla competitività delle proprie merci), è
stato brillantemente argomentato da Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo
che si avrebbero oggi tutte le condizioni «per una riattivazione
virtuosa del conflitto distributivo» 3. Una volta escluso che dall'aumento
dei salari monetari possa dipendere l'innesco di una qualche spirale inflazionistica,
ogni aumento del salario monetario si tradurrebbe, infatti, in un incremento
del reddito reale dei lavoratori, che «sarebbe ora che, dopo aver
fatto tanti sacrifici per entrare nell'unione monetaria, [-] iniziassero
a sfruttare i vantaggi potenziali della stessa, che sono numerosi ma finora
ben poco indagati» 4. E non è tutto: associando opportunamente
l'analisi sraffiana dei prezzi e della distribuzione e il principio keynesiano
della domanda effettiva, si potrebbe giungere a sostenere che, data la
maggiore propensione al consumo dei titolari di redditi più bassi,
una politica di aumento generalizzato dei salari funzionerebbe da volano
per la domanda effettiva, il reddito e l'occupazione.
In quanto segue proverò a verificare se simili argomentazioni
siano plausibili o meno. Va detto subito, a scanso di equivoci, che non
è certo mio intendimento negare cose purtroppo ben note, cioè
che da (almeno) dieci anni a questa parte i salari hanno perduto terreno
sia in termini reali che relativi 5, che ciò ha comportato un consistente
impoverimento delle famiglie e che dunque occorrerebbe una decisa inversione
di rotta; intendo piuttosto richiamare l'attenzione sul fatto che la possibilità
di ottenere salari reali più elevati mediante una lotta sui salari
monetari può sortire effetti solo in presenza di certe condizioni
e proporre qualche elemento di riflessione onde capire se esse siano riscontrabili
nella situazione data, cioè qui e ora.
2. Come si sa, l'inflazione è una brutta bestia. (Per certi versi
è una bestia bellissima, ma qui non se ne discuterà.) Nonostante
l'effetto principale su cui richiamano l'attenzione i teorici neoclassici
sia quello di indurre variazioni dei prezzi assoluti, una sua conseguenza
non meno rilevante (probabilmente, anzi, la più rilevante) è
quella di alterare i prezzi relativi e, in ultima analisi, la distribuzione
del reddito tra i fattori che da tali variazioni sono (diversamente) influenzati.
Di solito questi effetti vengono mascherati dalle rilevazioni statistiche,
che - ponderando i diversi saggi d'incremento dei prezzi riscontrati per
le varie merci in proporzione al `peso' che queste hanno nel paniere di
spesa di una famiglia operaia - pervengono a determinare un saggio uniforme
d'inflazione per tutto il sistema economico. Ma nella realtà i prezzi
non variano tutti nella stessa proporzione: alcuni crescono di meno del
saggio medio, altri di più. Ce ne siamo accorti da quando il cambiamento
della valuta ci ha, per così dire, privato della memoria dei prezzi
di centinaia di beni e fatto concentrare su quelli di uso più corrente
(generi alimentari e servizi in genere), che sono quelli che nel corso
degli ultimi due anni hanno presentato una dinamica più sostenuta:
la reazione generale, infatti, è stata quella di ritenere che l'Istat
sottostimasse il tasso medio d'inflazione (cioè la media degli incrementi
di prezzo delle varie merci, calcolata come s'è detto), mentre è
più probabile che fossero i consumatori a sovrastimarlo 6.
Torniamo allora al problema politico. In linea generale, è senz'altro
vero che oggi le imprese esposte alla concorrenza di prezzo non possono
rintuzzare incrementi del salario con aumenti dei prezzi senza con ciò
stesso perdere quote di mercato 7. Ma è altrettanto vero che in
Italia, pur in assenza di una crescita più marcata che nelle altre
economie europee (soffriamo anzi del problema opposto), i prezzi al momento
attuale crescono più rapidamente della media dell'area dell'euro,
circa dello 0,7%. Ciò indica che per molti settori della nostra
economia (servizi bancari, bancoposta, Rc auto, alberghi, ristoranti, pubblici
esercizi, tariffe dei servizi pubblici, tariffe professionali: in genere,
il terziario) non vale il vincolo della concorrenza: i prezzi possono aumentare
e indurre un cambiamento della distribuzione di segno inverso rispetto
a quello provocato dall'aumento dei salari. Di conseguenza, non si può
affermare che un aumento generalizzato dei salari monetari rappresenta
una misura in grado di indurre un corrispondente aumento dei salari reali
se prima non si chiarisce quanta parte di questo aumento andrà dispersa
in cambiamenti dei rapporti relativi tra il salario monetario e i prezzi
dei servizi non esposti alla concorrenza. Per fare solo un esempio, se
il maggior salario monetario pagato dalle imprese manifatturiere viene
compensato o più che compensato da un aumento dei prezzi dei beni
di consumo, non avremo alcun aumento dei salari reali (né tanto
meno della domanda effettiva), ma semplicemente il trasferimento di una
quota del prodotto sociale dalle imprese manifatturiere alla grande e piccola
distribuzione commerciale.
Si noti che un'ipotesi del genere è tutt'altro che implausibile.
Secondo un vecchio ma non invecchiato studio di Roberto Convenevole, essa
è all'origine della profonda trasformazione subita nel periodo 1951-1973
dall'economia italiana, che ha visto nell'arco di tempo in questione «un
preciso flusso di redistribuzione del reddito a vantaggio del terziario
e a scapito dell'industria [-] attraverso un continuo miglioramento delle
ragioni di scambio del terziario nei riguardi degli altri due settori»
8. Per Convenevole, anzi, lo stesso aumento dei salari reali verificatosi
nel periodo 1968-72 non testimonierebbe affatto di un'avanzata delle classi
lavoratrici nella distribuzione del reddito: nel 1973, infatti, il salario
relativo lordo nelle imprese manifatturiere (vale a dire il rapporto fra
il salario reale pagato e il surplus reale prodotto nel settore) era appena
il 74% di quello del 1951, confermandosi così quella tendenza alla
diminuzione del salario relativo che Marx aveva individuato come effetto
costante del progresso tecnologico. Si sarebbe trattato, piuttosto, della
prima volta in cui i salariati riuscirono a difendere i propri livelli
di salario monetario dall'erosione costante operata ai loro danni dei profitti
industriali, che a loro volta cercavano per questa via di recuperare le
quote di sovrappiù cedute a beneficio del terziario, cioè
della sfera della circolazione; più precisamente, sarebbe stato
il fatto stesso di resistere «a scatenare un'inflazione generalizzata
all'interno del sistema» 9.
3. Alle osservazioni che precedono se ne può aggiungere un'altra.
Considerando il periodo compreso fra il 1993 e il 2001, si può rilevare
che, su 28,6 punti percentuali di aumento dei prezzi al consumo, ben 24,3
sono attribuibili a corrispondenti variazioni dei prezzi alla produzione
10. Poiché nel periodo in esame il costo del lavoro ha avuto un
ruolo pressoché nullo nella dinamica dell'inflazione, diventa ragionevole
volgersi a guardare il ruolo che ha il capitale nella formazione dei prezzi.
Qui la grandezza rilevante è il rapporto capitale-prodotto (o `grado
d'intensità del capitale'), vale a dire l'ammontare d'investimento
che bisogna intraprendere (e quindi l'ammontare di beni di consumo cui
si deve rinunciare) per produrre un'unità aggiuntiva di merce: dire
che un dato processo di produzione ha un'intensità di capitale maggiore
rispetto ad un altro equivale, infatti, a dire che il prezzo della merce
finale incorpora una più elevata quota di spese per il capitale
(profitti e ammortamenti) rispetto alle spese per la forza-lavoro 11.
Orbene, mentre nel resto d'Europa il grado d'intensità del capitale
è andato calando significativamente nel corso degli anni '90, in
Italia ha registrato un trend sostanzialmente stabile. Ciò significa
che il nostro paese è diventato complessivamente meno produttivo
del resto d'Europa: non tuttavia perché i lavoratori italiani lavorano
meno dei loro colleghi europei (anche di queste sciocchezze si è
costretti a sentire), quanto piuttosto perché il divario tecnologico
accumulato nei confronti del resto d'Europa 12 fa sì che noi dobbiamo
importare le attrezzature necessarie all'ammodernamento dei processi produttivi,
i cui costi, associandosi ai bassi salari italiani, rendono l'intensità
di capitale più elevata qui che altrove.
Tutto ciò mette capo a una difficoltà aggiuntiva per
una politica di espansione salariale: dato che quest'ultima non produce
alcun effetto circa le scelte concernenti la composizione del prodotto
sociale, che restano saldamente in mano alle imprese, è ragionevole
supporre che, quand'anche i mutamenti della distribuzione prospettati nel
paragrafo precedente non dovessero verificarsi e i salari aumentassero
realmente, trainando conseguentemente la domanda effettiva, la debolezza
tecnologica della struttura produttiva italiana avvicinerebbe alquanto
il momento in cui la crescita del reddito incontra il limite del fabbisogno
di importazioni 13.
4. Se dunque è discutibile che una strategia di politica economica
imperniata sull'aumento dei salari monetari possa conseguire gli obiettivi
che vi sono sottesi (aumento dei salari reali, della domanda effettiva
e dell'occupazione), non meno dubbi mi suscita l'altra affermazione, secondo
cui essa rappresenterebbe «l'unica strategia credibile per dare al
lavoro subordinato voce in capitolo sulla costruzione europea» 14.
Obietterei, infatti, che perseguire per questa sola via il risultato di
un aumento del benessere delle classi lavoratrici produrrebbe maggiore
conflittualità, accentuata competizione fra sigle sindacali, crescente
divisione fra le stesse e, in ultima analisi, il rischio di abbandonare
il contratto nazionale di lavoro a favore di un sistema decentrato di contrattazione
in cui sarebbero i settori (e i territori) più forti a spuntare
maggiori livelli salariali (monetari).
Ciò non significa che non ci sia nulla da fare o che tutto vada
per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Il salario, infatti, è
variabile dipendente rispetto al profitto ma variabile indipendente se
inteso quale `reddito reale', al netto cioè delle imposte e al lordo
dei servizi sociali (scuola, sanità, pensioni, ecc.). Secondo un'opinione
non sospetta di simpatie antagoniste, anzi, le principali fonti d'arricchimento
dei lavoratori nel secolo scorso - ciò che ha consentito l'aumento
del loro potere d'acquisto del 250% a partire dal 1950 - sono state le
spese sociali per beni e servizi, principalmente scuola e sanità:
«è l'entità di questa redistribuzione in natura che
permette di misurare la differenza fra paesi scarsamente redistributivi
e paesi fortemente redistributivi» 15, ed è probabilmente
il suo venir meno in conseguenza delle politiche di rientro dal debito
pubblico che acuisce nel tempo presente la percezione del proprio impoverimento
reale da parte dei lavoratori.
È proprio su questo punto, peraltro, che il `ponte' gettato
da Brancaccio e Realfonzo fra le analisi classico-keynesiane à la
Garegnani e quelle `circuitiste' à la Graziani 16 può mostrare
tutta la sua fecondità 17. Tra i problemi principali che affliggono
quanti si rifiutano di sottostare ai diktat derivabili dalla teoria neoclassica
e si sforzano di contrapporvi altre analisi e altre prescrizioni vi è
quello rappresentato dalla mancanza di un linguaggio condiviso. Solidale
nella critica all'ortodossia, la sinistra teorica si è infatti sempre
divisa nell'individuazione di un paradigma alternativo, che fosse capace
di fondere organicamente (e non di giustapporre) l'analisi monetaria e
quella delle variabili reali e offrire così una visione del processo
economico alternativa rispetto ai modelli neoclassici. Quel `ponte', invece,
potrebbe aprire rilevanti possibilità per produrre spiegazioni alternative
circa le relazioni che gli ortodossi ci dicono sussistere fra deficit,
debito, prodotto interno lordo e tassi d'interesse nominali; suggerisce
risposte non convenzionali circa gli effetti della spesa pubblica e del
prelievo fiscale sulla distribuzione del reddito reale; corrobora analiticamente
il convincimento comune alla sinistra comunista secondo cui gli interessi
dei lavoratori e in generale dei cittadini «potranno trovare riconoscimento
solo attraverso un massiccio intervento politico sull'intera struttura
del sistema» 18. Vogliamo discuterne?
note:
1 T. Cavalieri, P. Garegnani, M. Lucii, Anatomia di una sconfitta,
«la rivista del manifesto», n. 48, aprile 2004, pp. 44-50.
2 Ibidem, p. 47.
3 E. Brancaccio, R. Realfonzo, I redditi senza politica, «il
manifesto», 22 febbraio 2004.
4 Ibidem.
5 Cfr. S. Levrero, A. Stirati, La leva del salario, in questa
rivista, n. 32, ottobre 2002, pp. 21-25; M. Zenezini, Quanto costano i
bassi salari?, ivi, n. 33, novembre 2002, pp. 32-36.
6 Cfr. L. Guiso, Inflazione percepita e rilevata, http://www.lavoce.info/news/view.php?id=28&cms_pk=713&from=index.
7 Che l'ingresso nell'euro abbia mutato i termini in cui si poneva
la spirale salari-prezzi è un fatto su cui convergono anche molti
analisti ortodossi: cfr., ad esempio, T. Boeri, G. Bertola, A che serve
il tasso d'inflazione programmata?, ora in T. Boeri (a cura di), www.lavoce.info.
Un anno di interventi e analisi dell'economia italiana, Laterza, Roma-Bari
2003, pp. 54-57.
8 R. Convenevole, Processo inflazionistico e redistribuzione
del reddito, Einaudi, Torino 1977, p. 113.
9 Ibidem, p. 35.
10 Cfr. D. Palma, Specializzazione produttiva e nuove tendenze
dell'inflazione in Italia negli anni '90, in S. Ferrari, R. Romano, Europa
e Italia. Divergenze economiche, politiche e sociali, Franco Angeli, Milano
2004, p. 70.
11 Per questa nozione di `intensità di capitale' e per
la sua distinzione rispetto a quella di `grado di meccanizzazione', che
indica invece il rapporto capitale-lavoro, cfr. L. Pasinetti, Dinamica
strutturale e sviluppo economico. Un'indagine teorica sui mutamenti nella
ricchezza delle nazioni, Utet, Torino 1984, pp. 204 ss.
12 Cfr. per tutti L. Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale,
Einaudi, Torino 2003; S. Ferrari, R. Romano, Europa e Italia, cit.
13 Queste le conclusioni di D. Palma, Specializzazione produttiva
e nuove tendenze dell'inflazione in Italia negli anni '90, cit., pp. 74-75.
14 Così, invece, Brancaccio e Realfonzo, I redditi senza
politica, cit.
15 T. Piketty. Disuguaglianza. La visione economica, Università
Bocconi Editore, Milano 2003, p. 144.
16 E. Brancaccio, R. Realfonzo, La razionalità del conflitto,
«la rivista del manifesto», n. 50, maggio 2004, specialmente
alle pp. 51 ss.
17 Per una diversa opinione, fondata su alcune difficoltà
analitiche che emergono a proposito della possibilità di chiudere
lo schema del circuito monetario una volta che lo si sia riscritto in termini
di schemi di riproduzione, si veda G. Lunghini, C. Bianchi, The Monetary
Circuit and Income Distribution: Bankers as Landlords?, in R. Arena e N.
Salvadori (a cura di), Money Credit and the Role of the State. Essays in
honour of Augusto Graziani, Ashgate, Aldershot-Burlington 2004.
18 Brancaccio e Realfonzo, La razionalità del conflitto,
cit., p. 52.
Errata corrige
Con riferimento all'articolo di E. Brancaccio e R. Realfonzo, pubblicato nel numero di maggio 2004, gli autori segnalano che il convegno del 1978 cui essi fanno riferimento (p. 48, § 2) si svolse a Pavia, e non a Modena come erroneamente riportato nell'articolo. Gli atti del convegno vennero pubblicati nel volume, a cura di Giorgio Lunghini (a cui in particolare vanno le scuse degli autori e della redazione), Scelte politiche e teorie economiche in Italia, Einaudi 1981.