Davide Casartelli, "Prometeo", dicembre 2002
Bisogna fare i conti con Marx -- scrive P. Sylos Labini in una nota
sull'Unità del dicembre 2001, oggi raccolta con altri scritti in
un volumetto dal significativo titolo: Per la ripresa del riformismo. Bene.
Ma per fare questo -- aggiungiamo noi -- bisognerebbe almeno conoscere
profondamente Marx, che il professor S. L.. chiama "il pensatore", "il
profeta", ovvero ciò che Marx mai si sarebbe sognato di essere o
di apparire. Entriamo subito nel vivo del contendere ed ecco le principali
critiche rivolte alle "colonne portanti del marxismo" e alle sue "previsioni
errate":
"La massa dei proletari sarebbe divenuta l'immensa maggioranza della
popolazione e la miseria avrebbe avuto tendenza a crescere", diceva Marx.
Ebbene -- risponde S. L. -- nei moderni paesi capitalistici solo circa
un terzo della popolazione sono lavoratori salariati, mentre è aumentata
la piccola borghesia impiegatizia e quella relativamente autonoma, "che
Marx vedeva condannate ad un inesorabile declino".
Anche la tesi della miseria crescente, sostenuta da Marx, è
risultata falsa.
Errata, infine, è stata la sua pretesa di estendere le proprie
"perniciose teorie" alla arretrata Russia degli zar, anticipandovi il comunismo.
Marx, conclude S. L., voleva "diventare il salvatore dell'umanità
su questa terra", e col suo "orgoglio luciferino" avrebbe "forzato i dati".
Tesi, quelle di Marx, del tutto strumentali rispetto ai suoi progetti di
conquista del mondo. S. L. ha per maestro quel Sir Karl Popper che scriveva:
"Marx era personalmente molto ambizioso, uno che cercava il potere ed era
amareggiato perché questa ricerca del potere non lo portava in nessuna
parte"... (Il futuro è aperto, pag.140 -- Rusconi, 1989)
Le solite deformazioni
Ciò che colpisce subito, negativamente, in queste note -- oltre
al bassissimo livello delle argomentazioni, come sempre basate su falsificazioni
o spezzoni dell'altrui "pensiero" (il marxismo rivoluzionario, in questo
caso) -- è il fatto che pur provenendo esse dalla penna di un intellettuale
che vuole distinguersi in una battaglia contro il Principe di Arcore e
i suoi cortigiani, in nulla e per nulla si differenziano da quelle miserevoli
analisi e critiche, a dir poco sfioranti l'oscenità, che vengono
rivolte a Marx e al comunismo rivoluzionario proprio dai pennivendoli lautamente
foraggiati dal suddetto personaggio e dai cori osannanti dei suoi stipendiati
cortigiani. Analisi e critiche, se tali si possono definire, che i demolitori
del marxismo vanno monotonamente ripetendo da almeno un secolo. Ivi compresi
i numerosi voltagabbana, pseudo "marxisti" fino a quando lo stalinismo
viaggiava col vento in poppa e poi, ai primi segni di bonaccia e alle prime
falle nello scafo, trasferitisi su altre più comode imbarcazioni.
E in tutti, accanto alla scarsa o superficiale conoscenza dei testi lasciatici
da Marx, è evidente l'intenzione di equivocare per meglio avvalorare
le loro elucubrazioni mentali.
Prima di rispondere alle demolizioni di S. L. (lo faremo al seguito
di Marx piuttosto che dei suoi interpreti di varie provenienze e scuole),
dobbiamo però aprire una forse troppo lunga, ma necessaria parentesi.
Quando Marx "filosofava"...
Tutti quelli che hanno tentato -- complessivamente o in alcune sue parti
(e questo è ancor peggio) -- di demolire il marxismo, sulle errate
profezie di Marx hanno trovato uno dei punti di comune accordo. Marx avrebbe
avuto la pretesa di leggere il futuro della storia (loro la scrivono con
la maiuscola) in una sfera di cristallo, che la stessa storia avrebbe poi
mandato in mille pezzi. Questa è l'opinione del fior fiore di sociologi,
economisti e filosofi del bel mondo borghese. Come il famoso Colletti che
-- nel bel mezzo del cammin della sua vita, ex marxista, ex leninista,
ex stalinista, ecc. -- arrivava alla scoperta di un Marx ereditario di
Hegel per quanto riguarda la teoria dell'alienazione e della contraddizione
dialettica. Poiché Hegel era un filosofo idealista, questo lascito
avrebbe condotto Marx a perdersi in un "escatologismo teleologico" (una
ricerca dei destini umani per mezzo di cause finali), con conseguenti errori
gravissimi, come quello per l'appunto di prevedere una polarizzazione tra
borghesia e proletariato, la quale -- manco a dirlo -- sarebbe stata ampiamente
smentita dalla storia. Questa riduzione a due poli di una Totalità
(la società) arbitrariamente scissa, rivelerebbe il carattere dicotomico
della teoria marxista (con la divisione di un concetto generale in due
specifici), e sarebbe la conseguenza -- sempre secondo Colletti -- di una
applicazione dello schema dialettico e della logica della contraddizione
hegeliana.
Ma anche se ammettessimo questo bipolarismo di classe, diceva Colletti,
rimarrebbe l'errore di aver considerato questo conflitto, questo antagonismo,
nei termini di una contraddizione dialettica, cioè con una sua sintesi,
e non nei termini di una opposizione reale e pertanto non superabile. Il
tutto impediva a Marx di cogliere la nascita di nuovi settori e formazioni
sociali intermedie che progressivamente avrebbero preso piede nella moderna
società.
Non è qui il luogo per aprire una dissertazione "filosofica",
o meglio una esatta riproposizione del metodo dialettico con cui Marx arricchì
la propria indagine materialistica. Qualcosa in proposito va però
detto.
La dialettica di Marx, materialistica, è del tutto diversa da
quella astratta e idealistica di Hegel, laddove lo sviluppo storico (la
sintesi) non è più il movimento della "parte" verso il "tutto",
il fluire del reale (il finito) verso lo spirito (l'infinito), ma è
invece il prodotto della concreta lotta fra le classi. Dove la categoria
"classe", pur essendo un'astrazione, è una astrazione determinata,
cioè gli individui sono assunti in una categoria astratta (la classe)
nel senso che in essa gli stessi individui sono accomunati da concreti
interessi materiali (la loro collocazione nel processo produttivo generale),
a prescindere da quelli che individualmente li dividono. La sintesi, essendo
il prodotto della lotta fra le classi, ovvero fra individui accomunati
e divisi da precise ragioni materiali e non sulla base di un pensiero,
di un'idea o di un dio (forme diverse per indicare una qualche essenza
metafisica), non può essere data a priori. Questo avviene solo nella
dialettica di Hegel, dove essa è la rivelazione di un "Tutto", lo
spirito, e il dissolvimento in esso.
La storia, per Marx, non è dunque il raggiungimento di un fine
prestabilito nella mente di chicchessia, ma in qualche modo è il
suo stesso farsi, è il fare degli uomini nell'ambito di condizioni
che ogni generazione eredita dalla precedente. La possibilità di
prevedere, data l'individuazione della base materiale animante il conflitto
sociale, che la vittoria rivoluzionaria del proletariato possa condurre
al socialismo, non significa che il socialismo è già bello
e pronto come approdo ineluttabile dello sviluppo storico. La sua ineluttabilità
consiste nel fatto che, dato il crollo del capitalismo, non sono immaginabili
né ipotizzabili formazioni sociali di altro tipo. Altro che lettura
della storia nella sfera di cristallo! Qui la previsione è subordinata
alla realizzazione di un evento (la rivoluzione) che è uno dei maggiori
atti di volontà realizzatrice che gli uomini possano compiere. Nessuna
forma o interpretazione riconducibile ad uno storicismo assoluto né
tanto meno ad un meccanicismo schematico.
Artifici dialettici?
Poiché una sciocchezza tira l'altra, quando i demolitori del
marxismo non sanno più che dire, se la prendono -- anche questo
da un secolo e più -- con gli artifici della dialettica hegeliana
(la famosa negazione della negazione), che Marx avrebbe fatto propri ricorrendo
a "giochetti analitici" per dimostrare la necessità della rivoluzione
anticapitalista e l'instaurazione del comunismo. Un concetto, quest'ultimo,
ben dimostrabile invece dal punto di vista storico, cioè seguendo
un processo storico che, se nel medesimo tempo si rivelava anche come un
processo dialettico, non era certo colpa di Marx (come commentava Engels
nell'Antiduhring). La dialettica ci aiuta a comprendere sia la contraddizione
presente nel capitalismo e sia la necessità del processo del suo
superamento.
Dalla antica proprietà privata individuale, sminuzzata e poggiante
sul lavoro personale degli individui, era storicamente avvenuta la sua
negazione con il passaggio alla proprietà privata capitalistica,
mediante la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di pochi
e l'espropriazione della gran massa della popolazione, che ha trasformato
i lavoratori o produttori immediati in proletari ed ha instaurato lo sfruttamento
del lavoro altrui. Ma "la centralizzazione dei mezzi di produzione e la
socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui sono incompatibili
col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima
ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono
espropriati". Si annuncia, come conseguenza dello stesso sviluppo capitalistico,
il movimento in direzione della proprietà individuale fondata sulla
cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione
prodotti dal lavoro stesso. Non un ritorno alla proprietà privata,
dunque, ma la negazione della prima negazione, con il passaggio ad una
società di uomini liberi ed eguali dove dominerà una proprietà
contemporaneamente individuale e sociale. Così, lapidariamente,
nel Capitale, Libro primo, pag. 824-826
Stabilito che il modo di produzione capitalistico non è né
naturale né eterno (affermazione che fa andare in bestia i vari
Colletti e Sylos Labini), Marx avrebbe dato per scontato il crollo fatale
del capitalismo? In verità Marx ha sempre sottolineato la necessità
storica del modo di produzione capitalistico, in quanto realizzatore di
quelle condizioni indispensabili affinché il processo di produzione
individuale possa trasformarsi in processo lavorativo sociale. La stessa
estorsione di plusvalore avviene, col capitalismo, "in un modo e sotto
condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive,
dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e più
elevata formazione" (Il Capitale, Libro terzo, pag. 932)
Come avverrà la dissoluzione e trasformazione del capitalismo?
Tutte le sue contraddizioni non sono meccaniche; le crisi non hanno uno
sbocco rivoluzionario automatico. Proprio perché "il capitale non
è una cosa, ma un rapporto sociale mediato da cose", è nella
base sociale, nei rapporti fra le due classi antagoniste, proletariato
e borghesia, e nella lotta e nell'organizzazione politica rivoluzionaria
della classe sfruttata, che si dovrà collocare l'atto essenziale
della distruzione e del definitivo superamento del capitalismo. Il carattere
soggettivo, volontario e politico della lotta rivoluzionaria, che si accompagna
con varie circostanze materiali, è la condizione indispensabile
al realizzarsi della rivoluzione stessa e del superamento della borghese
società. L'unico escatologismo teleologico che a questo punto ci
sembra evidente è quello sulla inevitabile imbecillità a
cui è costretto il pensiero degli intellettuali borghesi!
Proletariato e ceti medi
Veniamo ora alla prima delle critiche "demolitrici" del marxismo, formulate
da S. L. in veste di neo-liberal-riformista.
Questo luminare della scienza economica borghese (tale era stimato
negli anni passati il nostro professore) in un suo saggio, Le classi sociali
negli anni '80, edito da Laterza nel 1986, aveva già dato l'annuncio
della graduale scomparsa della classe operaia e dello sviluppo quantitativo
delle classi medie. Un grossolano modo, attraverso un'altrettanto grossolana
analisi che nulla aveva di minimamente scientifico, per cercare di far
sparire tutti i conflitti di classe dalla società moderna. Tentando
di coprire e giustificare le capriole politiche della stessa sinistra borghese
e il definitivo abbandono del "concetto" di classe, specificatamente di
ogni "identità sociologica, politica e culturale della classe operaia".
Come raccontava anche G. Bosetti (Sinistra punto zero -- 1993), secondo
il quale nel 1989 la classe operaia costituiva solo il 35,4% degli occupati
(gli altri non erano salariati ma...ceto medio), fino a rappresentare negli
anni successivi solo 1/6 circa degli elettori e costringendo così
la "sinistra" a cercare "nuovi soggetti" (donne, diritto di cittadinanza,
ecologia, ecc.) per salvaguardare le proprie poltroncine parlamentari.
Era necessario "liberarsi da ideologie che hanno negato la democrazia"
(A. Occhetto, Un indimenticabile '89 -- 1990), ammettere il declino del
mondo del lavoro di fronte alla modernizzazione capitalistica e quindi
dichiarare ufficialmente la definitiva crisi del marxismo.
Quanto a Sylos Labini, nel ceto medio accomunava i piccoli imprenditori,
i lavoratori autonomi e soprattutto i ceti impiegatizi dell'industria privata
e pubblica, gli impiegati delle poste, ferrovie, sanità, previdenza,
ecc.. Lo faceva in virtù dei "loro connotati culturali, politici
e così via", traendo come conclusione di questa espansione numerica
dei salariati impiegati nei servizi, "una ulteriore diminuzione delle disuguaglianze
nelle condizioni economiche e sociali di tutta la popolazione". (pag.152
del citato saggio) Il proletariato scompariva così nelle nuove classi
medie.
La contrapposizione tra capitale e lavoro salariato è un'affermazione
che i corifei della borghesia -- qualunque sia l'abito indossato -- non
possono certamente digerire. Soprattutto se individuata e analizzata come
una contraddizione di tipo dialettico, che così e a priori -- Colletti
s'indignava -- avrebbe "già prefigurata quella che sarà la
soluzione finale, cioè il punto di arrivo a cui metterà capo
il reciproco movimento dialettico dei due poli".
Sta di fatto che la generalizzazione del salariato, della condizione
di proletariato alla stragrande maggioranza dell'umanità, è
oggi dominante in tutto il mondo capitalistico (globalizzazione del mercato
del lavoro): il salario, a livelli estremamente bassi nella maggioranza
degli Stati, costituisce l'unica fonte di sostentamento, l'unico mezzo
con cui acquistare sul mercato quanto occorre per la propria sopravvivenza,
secondo il grado di "civiltà dei consumi" raggiunto in ciascun paese.
L'offerta di merci (che il capitalismo più si "sviluppa" e più
si vedrebbe costretto ad allargare a dismisura) si presenta allettante
-- almeno nei paesi "progrediti" -- ma inaccessibile per il portafoglio
della maggioranza dei proletari. Senza parlare dei prodotti, e dei bisogni,
inutili e/o dannosi, creati dal capitalismo pur di realizzare plusvalore
attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro e le vendite, a rate, sul
mercato. Pretendendo nello stesso tempo di abbassare il costo del lavoro,
diretto e indiretto; di sostituire gli operai con la tecnologia e quindi
di ridurre le reali possibilità di acquisto delle suddette merci
da parte della massa dei proletari, lavoratori flessibili, precari o disoccupati.
Ne consegue la difficoltà crescente nella realizzazione del plusvalore
da parte dei capitalisti, e quindi nella accumulazione stessa del capitale.
Questo trattamento, che si conclude obiettivamente con un peggioramento
delle condizioni di vita delle masse proletarie in generale, soprattutto
se rapportate con quanto il progresso scientifico e tecnologico può
oggi offrire all'intera umanità, vale per l'operaio in fabbrica
come per l'impiegato negli uffici. Ed anche "l'intera classe dei cosiddetti
servizi, dai lustrascarpe fino al re, cade in questa categoria", commentava
ironicamente Marx. (Grundrisse)
Marx sosteneva che nella società capitalistica la popolazione
si sarebbe polarizzata in maggioranza nel proletariato, fra coloro che
se non trovano a chi vendere la propria forza-lavoro, in cambio di una
somma di denaro, rischiano di morire più o meno di fame. Tendevano
a scomparire invece i residui di tutte le antiche classi medie, in parte
legate ai resti del precedente modo di produzione; si decomponevano e proletarizzavano
i ceti artigianali, la piccola borghesia commerciale presente nella società
feudale; ma si sarebbero formate nuove classi medie, composte da uomini
che vivono del plusvalore prodotto da altri uomini in quell'unico processo,
industriale, da cui ha origine tutto il plusvalore che sarà poi
realizzato nel processo di circolazione. Uomini, quelli delle nuove classi
medie, che occupano un ruolo particolare nel processo totale di produzione
del capitale, svolgendo un lavoro improduttivo (in termini di plusvalore
per il capitale), cioè servizi di varia natura e che solo in parte
consentono la realizzazione -- non la produzione -- del plusvalore stesso.
Uomini che servono altri uomini e i loro interessi diretti e indiretti,
e quelli del capitale in generale, consumando una parte dei redditi borghesi
e dei profitti dei capitalisti. Tutto questo, e qui siamo al colmo della
deformazione teorica, si dice che Marx non se lo sarebbe neppure immaginato,
accecato com'era dalla dialettica hegeliana!
Il lavoratore commerciale -- scrive Marx nel Libro terzo del Capitale,
e questa categoria si è enormemente ampliata con lo sviluppo del
capitalismo -- non produce direttamente plusvalore; ma il prezzo del suo
lavoro è determinato dal valore della sua forza-lavoro, quindi dalle
spese di produzione di quest'ultima, mentre l'esercizio di questa forza-lavoro,
come una tensione, applicazione di forze e logorio, non è limitata
dal valore della sua forza lavoro, più che non lo sia quella di
ogni altro lavoratore salariato. Non esiste quindi alcun rapporto necessario
fra il suo salario e la massa di profitto che egli aiuta il capitalista
a realizzare. Ciò che il lavoratore commerciale costa al capitalista
e ciò che gli rende, sono grandezze diverse. Egli gli rende, non
perché produce direttamente del plusvalore, ma perché contribuisce
a diminuire le spese della realizzazione del plusvalore, nella misura in
cui egli compie un lavoro, in parte non pagato. I lavoratori commerciali
veri e propri appartengono alla classe di salariati meglio pagati, di quelli
il cui lavoro è qualificato, superiore al lavoro medio. Con tutto
ciò a misura che il modo capitalistico si sviluppa, il salario ha
la tendenza a diminuire,anche in rapporto al lavoro medio. In parte in
seguito alla divisione del lavoro nella sfera dell'ufficio; per questo
si deve stimolare lo sviluppo dell'abilità di lavoro in un'unica
direzione (...).
Il Capitale, Libro terzo, pag. 360
Vedi sviluppo dell'informatica, e lo stesso dicasi per la sfera finanziaria,
per il lavoratore di banca, per la sfera pubblicitaria, ecc. Ed è
proprio Marx, in modo quanto mai chiaro, a scrivere nella Storia delle
teorie economiche:
La grande speranza di Malthus -- che egli stesso indica come più
o meno utopistica --, è che si accresca in grandezza la classe media
e che il proletariato (operaio) costituisca una parte relativamente sempre
più piccola della popolazione totale (anche se cresce in linea assoluta).
Questo è in realtà il cammino della società borghese.
Esattamente il contrario di ciò che -- secondo S. L., Colletti
e altri -- avrebbe invece sostenuto lo stesso Marx.
Continuiamo a seguire quel "pensiero" di Marx che evidentemente il
nostro S. L. conosce, a quanto sembra, più per sentito dire che
per uno studio attento e completo:
Se sommiamo coloro che sono occupati in tutte le fabbriche tessili
con il personale delle miniere di carbone e di metallo, abbiamo 1.208.242;
se li sommiamo con il personale di tutte le officine e manifatture metallurgiche,
la somma di questi è di 1.039.605. Tutte e due le volte la somma
è minore del numero degli schiavi domestici moderni. Che edificante
risultato dello sfruttamento capitalistico delle macchine!
Ed eravamo alla metà del secolo XIX°, quando l'aumento della
produttività del lavoro stava solo facendo i suoi primi giganteschi
passi.
Dunque, egregi signori, Marx ha precisato in questi termini la questione:
Nei gradi più bassi dello sviluppo della forza produttiva sociale
del lavoro, cioè quando il pluslavoro è relativamente piccolo,
la classe di coloro che vivono in generale del lavoro altrui sarà
piccola in rapporto al numero dei lavoratori. Essa può accrescersi
in proporzioni molto considerevoli con lo sviluppo della produttività
e quindi del plusvalore relativo. (Storia delle teorie economiche)
La miseria crescente
Per il secondo punto delle critiche di S. L., ripetiamo quanto Marx
ha scritto (Il Capitale, Libro I°):
Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell'operaio,
qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare.
L'accumulazione di miseria è proporzionata all'accumulazione
di capitale.
L'accumulazione di ricchezza all'uno dei poli è dunque al tempo
stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù,
ignoranza, brutalizzazione e degrado morale al polo opposto, ossia dalla
parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.
"Di giorno in giorno diventa dunque più chiaro che i rapporti
di produzione, entro i quali si muove la borghesia, non hanno un carattere
unico, semplice, bensì un carattere duplice; che negli stessi rapporti
entro i quali si produce la ricchezza, si produce altresì la miseria;
che entro gli stessi rapporti nei quali si ha sviluppo di forze produttive,
si sviluppa anche una forza produttrice di repressione;che questi rapporti
producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese,
solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano
questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora crescente".
(Miseria della filosofia)
E' altresì evidente che per la dimostrazione concreta dell'assoggettamento
della classe operaia allo sfruttamento del capitale, sarebbe sufficiente
quel "consumo di sussistenza" al quale essa viene costretta costantemente
e che va inteso storicamente, cioè in rapporto al crescente livello
dei bisogni che -- grazie all'enorme sviluppo produttivo -- diventano socialmente
necessari. Marx diceva in proposito che "i bisogni storicamente diventano
una seconda natura".
Si documenti pure il professore S.L sulle condizioni del proletariato
negli Usa, il faro della civiltà liberale e della democrazia borghese.
Vada a vivere fra gli operai, europei, asiatici, africani, anziché
frequentare i salotti dove si cucinano i menù del neo riformismo,
a base di democrazia industriale, lavori gratificanti e non alienanti,
azionariato popolare (con le Borse in caduta libera), aumenti di produttività
(ma questi neo-riformisti perché non trascorrono almeno qualche
mese nelle fabbriche, prima di stendere al sole i loro programmini?). Si
accorgerebbe che i salari reali sono in costante diminuzione, mentre i
sistemi pensionistici, sanitari e assistenziali sono allo sbando. Restando
negli Usa, si parla apertamente di una perdita dell'80% della propria ricchezza
(sic!) da parte del 40% più povero delle famiglie, il cui reddito
medio si è ridotto da 4.400 dollari a poco più di 900. Senza
occuparci qui dei 40 milioni di poveri ufficiali che (anche e nonostante
alcuni di loro "lavorino", e questo è l'aspetto ancor più
drammatico) si aggirano nel "paese più libero e democratico, più
ricco e potente" del mondo capitalistico. Quanto al famoso ceto medio,
dal 1983 ad oggi ha perso ufficialmente l'11% del proprio reddito. (vedi
L'economia dei sempre più ricchi, di Chuck Collins)
Le prospettive per i proletari, e qui ritorniamo in casa nostra, non
sono certamente rosee in fatto di sfruttamento e peggiori condizioni di
vita, se lo stesso S. L. sulle colonne dell'Unità ha recentemente
trovato spazio per esaltare la diffusione dei "contratti atipici", per
condannare l'eccesso di rigidità presente in un controllo dei licenziamenti
che proteggerebbe i "pelandroni" e scoraggerebbe "le assunzioni e l'introduzione
di innovazioni che fanno crescere la produttività e la competitività".
Per l'interesse del libero mercato, che diamine, e della "partecipazione
dei lavoratori agli utili", uno dei "grandi temi" del riformismo...
Anche nel '94, S. L. elogiava la riforma delle pensioni del ministro
per il Tesoro, Dini, allora nel governo Berlusconi, perché "corrispondente
all'interesse pubblico"; così come dava, e dà, consigli alla
"sinistra" affinché quando ritornerà nel Palazzo introduca
finalmente nel mercato del lavoro quell'"optimum di flessibilità"
a cui già si sarebbero avvicinati i contratti atipici. Si oppone
quindi alla "facoltà di licenziare solo se incondizionata", perché
in tal caso "scoraggia le innovazioni volte a risparmiare lavoro, ossia
far crescere la produttività, e quindi nel lungo periodo danneggia
la competitività internazionale". Mentre, con un po' di moderazione,
anche la Confindustria potrebbe trarre maggior profitto...
Che i ricchi siano sempre più ricchi e -- proporzionalmente
-- che i poveri siano sempre più poveri; che la massa della miseria
sia in crescendo a scala mondiale, lo comprovano i dati che la stessa borghesia
fa circolare. S. L. sembra ignorare -- beato lui -- che in un mondo che
sta precipitando nella barbarie più selvaggia, i tre quarti dell'umanità
versano in condizioni di indigenza. Condizioni che, se rapportate alle
immense possibilità di soddisfazione dei bisogni di tutta la popolazione
della Terra che il gigantesco sviluppo produttivo, tecnologico e scientifico
degli ultimi decenni sarebbe in grado di assicurare, gridano certamente
vendetta. Miliardi di uomini, donne e bambini sono praticamente ridotti
alla fame, mentre pochi milioni di privilegiati individui accumulano e
dissipano ricchezze favolose, muovendo enormi quantità di capitali
speculativi da un mercato finanziario all'altro. Questo mentre impera l'ordine
capitalistico e borghese da due secoli, e non certo il socialismo che ancora
deve nascere. Se questa non è una crescita spaventosa della miseria
generalizzata, fate voi.
Per una riduzione degli impulsi procreativi
Nonostante S.L. neghi la realtà, ovvero il dilagare di un pauperismo
universale, tanto relativo quanto assoluto, se la prende con un altro "grave
errore" di Marx, cioè la sua "stroncatura della teoria della popolazione
di Malthus". Il quale, anche se fu un reazionario -- dice S. L. -- proponeva
però una tesi che oggi si dovrebbe applicare quanto meno ai paesi
arretrati dove "il progresso tecnico in agricoltura è assente" e
la crescita demografica supererebbe quella della produzione dei mezzi di
sussistenza, generando -- per l'appunto -- fame e miseria. Meglio sarebbe
stato applicare ieri, ed a maggior ragione oggi, la maltusiana ricetta
della "razionalizzazione degli impulsi procreativi", così definita
dallo stesso economista e sociologo.
La santificazione del capitalismo, con l'opportuna aureola del liberal-riformismo,
si scontra fin troppo evidentemente, e tragicamente, con le contraddizioni
insanabili di un modo di produzione e distribuzione che vede "la popolazione
operaia crescere sempre più rapidamente del bisogno di valorizzazione
del capitale" (Marx). Il proletariato fa troppi figli, troppa forza-lavoro
per poter essere tutta impiegata/sfruttata dal capitale, e che quindi finisce
con l'insidiare la stessa distribuzione della ricchezza. Malthus non criticava
certamente i consumi superflui della borghesia, ai quali lui pure partecipava,
ma pretendeva di ridurre i consumi, addirittura alimentari, di una massa
di uomini, donne e relativa prole, ritenuta nel complesso superflua e pericolosa.
Una massa di indigenti, che avrebbe potuto intaccare la distribuzione del
plusvalore tanto nella classe borghese quanto fra la sua corte di "dissipatori,
parassiti, fannulloni e gaudenti", come ben li definiva Marx..
Questo era ed è il capitalismo: da un lato sovrapproduzione,
dall'altro sovrappopolazione in rapporto alla produzione. In mezzo il "sovraconsumo
delle classi che stanno al di fuori della produzione", vivendo sulle spalle
della classe operaia. I proletari, poveri, aumentano con un ritmo che gli
attuali rapporti di produzione e le esigenze dell'accumulazione capitalistica
(per altro in crisi sempre più profonda) non sono in grado di sopportare.
Salvo procedere -- come in parte sta accadendo -- ad un salutare, per la
sopravvivenza del capitale, genocidio di centinaia di milioni di esseri
umani diventati inservibili per la produzione del plusvalore ed inutili
per la sua realizzazione.
Marx e la Russia dell'Ottocento
Veniamo al terzo punto, nel quale si vuole accusare Marx di aver "pensato"
-- pur di estendere in un sol colpo la sua rovinosa dottrina all'intera
Russia -- alla possibilità di anticipare il passaggio al comunismo
della Russia "civilmente arretrata".
Accendiamo le luci nel buio pesto in cui procedono le "opinioni" di
S. L.
La possibilità di un salto oltre il capitalismo nella società
russa, tale da consentire un passaggio dal comunismo primitivo del mir
(la comunità rurale autonoma, definitivamente abolita nel 1911)
alla successiva fase del comunismo, nello sviluppo dell'area slava, poteva
essere un'occasione storica. La Russia era il solo paese europeo che ancora
nella seconda metà dell'Ottocento aveva conservato la "comune agricola"
su scala nazionale. Ma le "nuove colonne sociali" del sistema capitalistico
stavano ormai avanzando anche in Russia.
Come si può leggere in alcuni appunti per Vera Zassulic, scritti
nel marzo 1881, Marx sapeva benissimo che la "comune rurale" era ridotta
agli estremi. E scriveva:
A questo punto, non si tratta più di risolvere un problema;
si tratta più semplicemente di un nemico da abbattere. Non è
dunque più un problema teorico. Per salvare la comune russa è
necessaria una rivoluzione russa. Del resto, il governo russo e le nuove
colonne della società fanno del loro meglio per preparare le masse
ad una tale catastrofe. Se la rivoluzione si fa al momento opportuno, se
essa concentra tutte le sue forze per assicurare il libero corso della
comune rurale, quest'ultima si svilupperà senz'altro come elemento
rigeneratore della società russa, e come elemento di superiorità
sui paesi asserviti dal regime capitalistico.
(Per inciso, questo non escludere -- da parte di Marx -- la possibilità
che la comune russa potesse svilupparsi verso forme di comunismo moderno
attraverso una rottura rivoluzionaria, dimostra ampiamente quanto egli
non fosse storicista né tanto meno meccanicista).
Nel novembre 1877 Marx già notava in una sua lettera a Mikhailovski:
"Se la Russia continua a camminare sul sentiero seguito dopo il 1861, essa
perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto
a un popolo, per subire tutte le peripezie fatali del regime capitalistico".
Infine, nella prefazione all'edizione russa del Capitale, Marx ed Engels
in data 22 gennaio 1882 scrivevano: " Si affaccia ora il problema: la comunità
rurale russa, questa forma in gran parte già disciolta, è
vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà
essa passare direttamente ad una più alta forma comunistica di proprietà
terriera, o dovrà essa attraversare prima lo stesso processo di
dissoluzione che trova la sua espressione nella evoluzione storica dell'occidente"?
La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione
russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in occidente,
in modo che entrambe si completino, allora l'odierna proprietà comune
russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista.
Rivoluzione e controrivoluzione in Russia
Il capitalismo cominciava a svilupparsi anche in Russia verso la fine
dell'Ottocento; e quando il proletariato portò a compimento la rivoluzione
borghese e conquistò il potere politico in nome della rivoluzione
comunista, Lenin e i suoi compagni non si rifacevano certo a quella lontana
possibilità vagliata da Marx. La Russia del 1917 rappresentava,
sì, un avamposto della rivoluzione comunista, ma solo nella prospettiva
di una rivoluzione europea, a partire dalla Germania. Altrimenti la rivoluzione
rischiava di accartocciarsi su se stessa, come accadde. Per I bolscevichi
questo era ben chiaro. E si dovette eliminarli tutti, fisicamente, per
spacciare come costruzione del comunismo -- impossibile in un solo paese,
secondo l'abc del marxismo -- il capitalismo di Stato, risultato della
controrivoluzione vittoriosa che si scatenò in Russia a metà
degli anni Venti. Stalin non solo massacrò la guardia bolscevica
e milioni di veri comunisti, ma fece scempio della stessa teoria marxista,
della tattica e strategia del comunismo rivoluzionario.
In Russia, dopo la sconfitta del proletariato nei maggiori paesi europei,
la controrivoluzione si appropriò della denominazione "socialista"
facendo del socialismo stesso una categoria astratta; un socialismo instaurato
dall'alto, dal Partito-Stato, attraverso il rafforzamento di tutti i rapporti
di produzione capitalistici. Andava in scena la tragica farsa, applaudita
da amici e presunti nemici, del profitto socialista, del salario socialista,
del mercato socialista, della moneta socialista, eccetera. Una farsa sostenuta
da una feroce dittatura borghese, dopo lo svuotamento dei Soviet degli
operai e contadini, i veri organismi di un potere proletario. Quindi, sfruttamento
del proletariato e repressione violenta contro di esso da parte di un capitalismo
di Stato nella fase del suo più aberrante dominio.
Quello che dalla metà degli anni Venti in poi fu presentato
al mondo intero come il marxismo-leninismo (nelle sue componenti "filosofiche",
economiche, politiche e organizzative) e di cui lo stalinismo e i suoi
lustrascarpe disseminati in Europa si ersero a depositari, non era altro
che la più tragica delle deformazioni del marxismo rivoluzionario.
Un marxismo stravolto e ridotto ad una paccottiglia di schemi idealistici
da recitare a memoria, attorno alla conservazione del modo di produzione
e distribuzione capitalistico
La società russa si presentava nella realtà come una
negazione totale di quello che teoricamente e praticamente era il vero
programma del comunismo; un ribaltamento che avrebbe fatto comodo ai borghesi
di ogni sfumatura spacciare per "applicazione del marxismo" e "conseguenza
inevitabile di una assurda utopia". Poi, dopo la crisi esplosa in Russia
negli anni novanta, l'annuncio finale del crollo di un comunismo che non
era mai nato né avrebbe potuto nascere. Alla propagandistica mistificazione
si prestano oggi più di ieri (per opportunismo o per incapacità
personale ad analizzare criticamente e comprendere ciò che viene
ulteriormente manipolato e falsificato) tutte le anime belle della cosiddetta
sinistra democratica, liberal-socialista, eccetera, accodandosi alle altre
anime belle di una destra anch'essa proclamatasi democratica e liberale.
Ed assieme alla destra reazionaria e Berlusconiana (che però figurerebbe
esclusa dallo spettacolo perché "non è la vera destra"!)
tutti addossano i crimini commessi dallo stalinismo -- e quindi dalla borghesia
internazionale che abbracciava Stalin alleato delle democrazie occidentali
e con le mani grondanti sangue proletario -- al marxismo, al comunismo,
nel tentativo di confondere sempre più le coscienze del proletariato
e svilire il suo potenziale rivoluzionario.
Si cerca con ogni mezzo, e con qualunque tipo di funerale, di seppellire
quotidianamente quella terribile Utopia del comunismo, che nonostante tutto
continua ad aggirarsi come uno spettro per il mondo intero, togliendo il
sonno alla classe borghese e ai tanti corifei del capitalismo, privato
o statale. Gli stessi antistalinisti dell'ultima ora, riciclatisi in rifondazionismi
e sinistrismi di varia natura, altro non sono in realtà che degli
stalinisti camuffati, le cui basi "teoriche" (ma quando mai?) sono sempre
quelle più o meno imbellettate di una ideologia che si contrappone
innanzitutto al marxismo rivoluzionario. Una ideologia che nelle sue sfaccettature
ha un comune denominatore: la negazione del materialismo storico e della
critica scientifica della economia capitalistica: E ha una funzione ben
precisa, non solo ideologica ma anche "pratica": impedire che il proletariato
si riavvicini e si riappropri sia della critica marxista sia del programma
per il comunismo.
I buoni e i cattivi
Quanto alla denuncia delle "raccomandazioni di Marx affinché
ogni sorta di nefandezze (menzogne, inganno e perfino violenza terroristica)
servisse per abbattere il capitalismo", il nostro S. L. lancia fulmini
d'indignazione per il fatto che quelle minacce sarebbero rivolte a degli
innocui borghesi (armati fino ai denti) che -- sentendosi un domani tremare
il terreno sotto i piedi e dopo aver in oltre due secoli di dominio fatto
scorrere fiumi di sangue -- lancerebbero mazzi di fiori e offerte di pace
sociale! Tentando di convincere i violenti proletari e i sanguinari comunisti,
con l'aiuto di S. L., che "non è giusto predicare la violenza (e
noi chiariamo: di classe, mai di un terrorismo individuale inutile e stupido)
per il riscatto del proletariato". Tanto più che il proletariato
ormai non esisterebbe che a ranghi ridotti, e quel che resta non avrebbe
bisogno di riscatto alcuno. Questo grazie ai "risultati sicuri di una strategia
riformista"...
Peccato, cari signori, che una rivoluzione sociale, politica ed economica,
non sia come una passeggiata ai giardini pubblici (oggi anche questa diventata
pericolosa...), non fosse altro per il fatto che l'attuale classe dominante
non rinuncerebbe di certo pacificamente ai poteri e ai privilegi di cui
gode. La stessa borghesia ne ha combinate di belle per realizzare il proprio
ordine contro quello feudale, dal quale nobiltà e clero ricavavano
ricchezze e abbondanti prelazioni. E non esiste un solo episodio storico,
in qualunque stato o staterello del mondo, in cui la classe borghese (dividendosi
di volta in volta i compiti, tra fazioni politiche "democratiche" e fazioni
politiche "autoritarie", per l'uso del bastone o della carota) abbia esitato,
di fronte a una minaccia contro il suo potere da parte della classe operaia,
a mettere in atto le più drastiche, dittatoriali misure contro il
proletariato. Tanto in particolari e limitati episodi, quanto in più
generali situazioni. Con i riformisti di ieri e di oggi a far da spettatori.
In qualche occasione persino nelle prime fila per un ristabilimento dell'ordine
borghese, più o meno ricco di quei valori "democratico-liberali"
di cui Sylos Labini si fa propagandista.
Senza per nulla aver fatto i conti con Marx.