Carlo: una ferita aperta
Piazza Alimonda: la Beretta dell'assassino

da "Umanità Nova", n. 25 del 18 luglio 2004


Si rompe il tempo e l'attimo, per un istante, resta
sospeso,
appeso al buio e al niente, poi l'assurdo video ritorna
acceso.
(F. Guccini, "Piazza Alimonda")

A tre anni di distanza da quel pomeriggio di guerra del 20 luglio 2001, l'uccisione di Carlo Giuliani resta sepolta dalle versioni ufficiali e dalle sentenze giudiziarie, eppure in questi anni le ricerche e le indagini compiute da tante persone che non volevano accettare le verità del potere hanno messo a nudo le tante contraddizioni emergenti dalle ricostruzioni attraverso le quali si è giunti all'assoluzione di chi aveva sparato.
E attraverso tale lavoro di controinchiesta si è andato via via delineando un quadro assai diverso da quello accreditato dalle indagini dei cosiddetti organi competenti che hanno portato alla scontata archiviazione del caso da parte della magistratura.
Una ricerca della verità che ha potuto contare su diverse immagini, filmate e fotografate da giornalisti e compagni, sopravvissute a distruzioni e sequestri sul campo, mentre invece non sono "stranamente" disponibili registrazioni effettuate dagli operatori delle forze dell'ordine e dai sistemi di videovigilanza (persino le telecamere della polizia municipale per il controllo del traffico, in quei giorni erano controllate dai carabinieri), a conferma del fatto che quanto accaduto rientra a pieno titolo nell'album dei segreti di Stato.
Nell'anniversario di quella morte e di quei giorni di dolore e rabbia, ricordare significa anche tornare a smascherare l'operato, le responsabilità e le menzogne dell'apparato repressivo su quanto avvenne in quella piazza di Genova già intitolata alla memoria di un partigiano.

Nera o blu l'uniforme, precisi gli ordini, sudore e rabbia;
facce e scudi da Opliti…

In piazza Alimonda, dopo una carica respinta da manifestanti di varia tendenza, sta ritirandosi un plotone di carabinieri, appoggiato da due Defender. Il reparto è comandato dal tenente colonnello Giovanni Truglio e da un capitano, entrambi a bordo delle due camionette; il fatto della loro presenza sarà a lungo elusa. Sia tra i militari semplici che tra gli ufficiali risultano esserci anche veterani del btg. Tuscania - come lo stesso Truglio - che nel '93 hanno conosciuto il carnaio della Somalia.
A poca distanza, in via Caffa, stazionavano ingenti quantità di mezzi e uomini della Polizia.
Nella fase del ripiegamento, come è noto, si verifica l'episodio dell'attacco da parte di alcuni manifestanti - al massimo una ventina - contro uno dei Defender rimasto momentaneamente bloccato, da bordo del quale sarebbero stati sparati due colpi in funzione difensiva.
Altri colpi, in quella giornata, furono esplosi dalle forze dell'ordine; per loro stessa ammissione furono sparati almeno 13 colpi, anche se è stato accertato che sarebbero state una ventina le situazioni in cui gli agenti avrebbero fatto uso delle armi da fuoco, senza contare i circa 6.300 candelotti lacrimogeni lanciati tra il 20 e il 21 luglio.
La situazione dei carabinieri dentro il loro mezzo, seppur critica, non risultava comunque tale da legittimare una simile reazione e soprattutto non si può parlare di isolamento, data la vicinanza a neanche una decina di metri dei commilitoni a piedi. La stessa "arma" di Giuliani era solo un piccolo estintore, vuoto, che era già rimbalzato una volta contro il Defender.
A fare fuoco sarebbe stato il giovane carabiniere di leva Placanica, in piena confusione mentale e sofferente per i gas e per una contusione; nel corso dell'inchiesta cambierà più volte la sua versione dell'accaduto, tanto da meritarsi un'azione disciplinare da parte della stessa Arma. Dei due colpi di cui vengono trovati fuori e dentro il Defender i bossoli, peraltro di dubbia compatibilità tra loro, quello che avrebbe colpito Carlo non viene mai rinvenuto, mentre tracce dell'altro sono state scoperte nel muro della chiesa, a circa 20 metri di distanza, ad un un'altezza di 6-7 metri.
È il primo e più consistente mistero; peraltro nei filmati risulta visibile solo una fiammata, mentre dall'audio si distinguono due colpi, in rapida successione.
La pistola d'ordinanza dei carabinieri, una Beretta automatica, spara proiettili calibro 9: si tratta di munizioni da guerra, con impatto devastante, eppure le foto dell'autopsia sul corpo di Carlo mostrano un minuscolo foro d'entrata sul suo viso, sotto l'occhio, ed uno d'uscita ancora meno percettibile dietro la testa. Circostanza quest'ultima ancora più "strana" dato che, in questi casi, il foro d'uscita dovrebbe risultare più largo di quello d'entrata, a meno che non vi sia ritenzione del proiettile nel cranio; ma quest'ultima eventualità è stata esclusa dalle perizie medico legali, anche se inizialmente la Tac encefalica aveva individuato qualcosa di metallico.
Anche nel caso di deviazione (contro un calcinaccio volante o l'estintore impugnato da Carlo, come ipotizzato da alcune fantasiose perizie, poi accantonate dagli stessi giudici) simili pallottole, deformate dall'impatto con un corpo estraneo, sarebbero rimbalzate penetrando con ancora più gravi conseguenze.
Carlo quindi è stato ucciso da un altro tipo di proiettile; o di un calibro più piccolo, come potrebbe essere il cal. 22 lungo, usato dalle pistole per il tiro di precisione, oppure da un proiettile di plastica (non di gomma, sia chiaro). Questo tipo di munizionamento è stato adottato in forma sperimentale dai Carabinieri, ma le informazioni ovviamente scarseggiano, anche perché si tratta di proiettili da tempo banditi dalle varie convenzioni internazionali in quanto sono difficilmente "visibili" attraverso le normali radiografie.
Per renderli "legali" i produttori vi aggiungono infatti tracce di metalli rilevabili, in grado di lasciare delle scie.

Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia
e uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia.

Che lo sprovveduto Placanica abbia sparato almeno un colpo è stato lui stesso ad ammetterlo, ma appare sempre meno probabile che Carlo sia stato colpito dal giovane carabiniere di leva. Centrare ad oltre tre metri di distanza un obiettivo in movimento e di dimensioni ridotte come una testa umana, non è propriamente uno scherzo, come si sarebbe invece portati a credere dopo aver visto tanti film western.
Tra l'altro non solo il bersaglio era in movimento, ma lo era anche la camionetta su cui si trovava lo sparatore.
Inoltre un eventuale munizionamento sperimentale non sarebbe mai stato in dotazione ad un militare di leva.
Ma gli indizi che portano a ritenere fondatamente che a bordo del Defender non c'erano soltanto tre spauriti giovani carabinieri sono anche altri. In alcune foto e persino in alcune testimonianze si intravede l'ombra di un quarto uomo, ma a tali conclusioni si è indotti anche da altri particolari: il lunotto posteriore del Defender viene infranto con determinazione a pedate dall'interno e non dai dimostranti; la pistola viene brandita e puntata ben prima che Carlo raccolga l'estintore e si avvicini al Defender; il modo d'impugnare la Beretta, obliquamente, così come si vede nelle foto, è tipico di un tiratore esperto e non certo di una recluta.
Secondo le dichiarazioni ufficiali, il tenente colonnello Truglio si trovava a bordo proprio di quel Defender sino a pochi momenti prima, ma ne era appena disceso: davvero un perfetto tempismo! D'altra parte, essendo anche il comandante delle forze d'intervento inviate a Genova dal comando generale dell'Arma, da lui non ci si poteva spettare di meno.

Resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.