Albert Camus, “Volontà” n. 7, 1° aprile 1957, ripubblicato da "A rivista anarchica", n. 320, ottobre 2006
Discorso pronunciato in un meeting a Parigi il 15 marzo 1957,
organizzato dalla Solidarietà Internazionale Antifascista (S.I.A.)
in occasione dell’anniversario della rivoluzione ungherese.
Il ministro di Stato ungherese Marosan, il cui nome suona come un programma,
qualche giorno fa ha dichiarato che non ci sarebbe più controrivoluzione
in Ungheria. Per una volta tanto, un ministro di Kádár ha
detto la verità. Come potrebbe esserci una controrivoluzione poiché
questa è già al potere? Non ci può essere in Ungheria
che una rivoluzione.
Non sono di coloro che augurano che il popolo ungherese prenda nuovamente
le armi per un’insurrezione destinata ad essere schiacciata sotto gli occhi
di una società internazionale che le prodigherà applausi,
lagrime virtuose, ma che dopo ciò ritornerà alle sue pantofole,
come fanno gli sportivi delle gradinate, la domenica sera, dopo una partita
di boxe. Ci sono già troppi morti nello stadio e noi non possiamo
essere generosi che del nostro proprio sangue. Il sangue ungherese si è
rivelato troppo prezioso all’Europa ed alla libertà perchè
noi non ne siamo avari fino alla più piccola goccia. Ma non sono
di coloro che pensano che possa esservi un arrangiamento sia pur provvisorio,
con un regime di terrore che ha il diritto di chiamarsi socialista come
il boia dell’Inquisizione aveva il diritto di chiamarsi cristiano. E, in
questo giorno anniversario della libertà io auguro con tutte le
mie forze che la resistenza muta del popolo ungherese si conservi, si rinforzi,
e ripetuta da tutte le voci che noi possiamo darle, ottenga dall’opinione
internazionale unanime il boicottaggio dei suoi oppressori. E se quest’opinione
è troppo debole o troppo egoista per rendere giustizia ad un popolo
martire, se anche le nostre voci sono troppo deboli, io auguro che la resistenza
ungherese si mantenga ancora finché lo Stato controrivoluzionario
crolli ovunque all’Est sotto il peso delle sue menzogne e delle sue contraddizioni.
Lo stato controrivoluzionario
Perché si tratta ben di uno Stato controrivoluzionario. Come
si può definire in un altro modo un regime che obbliga il padre
a denunciare il figlio, il figlio a chiedere il supremo castigo per il
padre; la moglie a testimoniare contro il marito, e che ha posto la delazione
all’altezza della virtù? I tank stranieri, la polizia, le giovani
di venti anni impiccate, i consigli di operai assassinati ed imprigionati,
la campagna di menzogne, i campi, la censura, i giudici arrestati, i criminali
che legiferano e la forca ancora e sempre, è questo il socialismo,
la grande festa della libertà e della giustizia?
No, noi abbiamo conosciuto, conosciamo questo: sono i riti sanguinosi
e monotoni della religione totalitaria! Il socialismo ungherese è,
oggi, in prigione o in esilio. Nei palazzi dello Stato, armati fino ai
denti, errano i tiranni mediocri dell’assolutismo, impauriti dalla parola
stessa di libertà, inferociti da quella di libertà.
Ne è la prova che oggi, 15 marzo, giorno di verità e
di libertà invincibile per tutti gli Ungheresi, per Kádár
è stato un lungo giorno di paura.
Per dei lunghi anni, tuttavia, questi tiranni, aiutati in Occidente
da complici che niente e nessuno obbligava a tanto zelo, hanno diffuso
dei torrenti di fumo sulla loro vera azione. Quando qualche cosa ne traspariva,
essi o i loro interpreti occidentali ci spiegavano che tutto s’arrangerebbe
in una decina di generazioni, che nell’attesa tutti camminavano allegramente
verso l’avvenire, che i popoli deportati avevano avuto il torto d’ingombrare
un po’ la circolazione sulla strada superba del progresso, che gli uccisi
erano completamente d’accordo sulla loro eliminazione, che gli intellettuali
si dichiaravano felici del loro grazioso bavaglio perché era dialettico
e che, infine, il popolo era contento del suo proprio lavoro, perché
se esso faceva, per dei miserabili salari delle ore supplementari, lo faceva
nel senso buono della storia.
Ahimè! Lo stesso popolo ha preso la parola ed ha parlato a Berlino,
in Cecoslovacchia, a Poznan e in ultimo a Budapest. Ed in questa città,
contemporaneamente al popolo, gli intellettuali si sono strappati il bavaglio.
Ed entrambi, ad una sola voce, hanno detto che non si camminava in avanti
ma che si indietreggiava, che si era ucciso per niente, deportato per niente,
asservito per niente e che oramai per essere sicuri di avanzare sulla buona
strada era necessario dare a tutti la verità e la libertà.
Così, al primo grido dell’insurrezione in Budapest libera, chilometri
di falsi ragionamenti e di belle dottrine ingannatrici di scienziati e
di povere filosofie, sono stati ridotti in polvere. E la verità
nuda, così troppo tempo oltraggiata, è apparsa agli occhi
di tutti.
Dei padroni sprezzanti, che ignoravano persino di insultare la classe
operaia, ci avevano assicurato che il popolo facilmente faceva a meno della
libertà se soltanto gli si dava del pane. E lo stesso popolo rispondeva
loro improvvisamente che non aveva neppure il pane, ma anche supponendo
che ne avesse avuto, esso vorrebbe ancora qualchecosa di altro.
Perché non è un professore sapiente ma un fabbro di Budapest
che scriveva: “Io voglio che mi si consideri come un adulto che vuole e
sa pensare. Io voglio poter dire il mio pensiero senza aver niente da temere
e voglio che mi si ascolti anche”.
Quanto agli intellettuali, ai quali era stato predicato ed urlato che
non vi era altra verità che quella che serviva gli obiettivi della
causa, ecco il giuramento che essi prestavano sulla tomba dei loro compagni
assassinati per la suddetta causa: “Mai più, neppure sotto la minaccia
e la tortura, né per un amore mal compreso della causa, dalle nostre
bocche non uscirà altro che la verità”. (Tibor Meray sulla
tomba di Rajik).
L’Ungheria come la Spagna
Dopo questo la causa è chiara: Questo popolo massacrato è
nostro.
L’Ungheria sarà, oggi, per noi ciò che fu la Spagna venti
anni fa. Le sottili sfumature, gli artifici di parole, e le considerazioni
sapienti con le quali si cerca ancora di mascherare la verità, non
ci interessano. La concorrenza tra Rákosi e Kádár
con la quale vogliono intrattenerci, non ha importanza. Sono tutti e due
della stessa razza. Differiscono soltanto per i loro titoli di gloria di
caccia e se quelli di Rákosi sono più sanguinanti non lo
saranno per molto tempo.
In ogni caso, o che sia l’uccisore o il perseguitato persecutore, non
cambia niente alla libertà dell’Ungheria. Mi dispiace a questo proposito
di dover ancora fare da Cassandra e di deludere le nuove speranze di certi
colleghi infaticabili, ma non c’è evoluzione possibile in una società
totalitaria. Il terrore non evolve, se non verso il peggio, la forca non
si liberalizza, la ghigliottina non è tollerante. In nessuna parte
del mondo si è visto un partito o un uomo che, disponendo del potere
assoluto, non ne abbia fatto un uso assoluto. Ciò che definisce
la società totalitaria di destra o di sinistra è innanzitutto
il partito unico ed il partito unico non ha nessuna ragione di auto-distruggersi.
È per questo che la sola società che deve conservare la nostra
simpatia sia critica che operante, è quella in cui vige la pluralità
dei partiti. Essa sola permette di denunciare l’ingiustizia ed il delitto,
quindi di correggerli. Essa sola, oggi, permette di denunciare la tortura,
l’ignobile tortura, abominevole tanto in Algeria quanto a Budapest.
Le tare dell’Occidente sono innumerevoli, i suoi delitti ed i suoi
errori sono reali. Ma, infine, non dimentichiamo che noi siamo i soli detentori
di quel potere di perfezionamento e d’emancipazione che risiede nel libero
pensiero. Non dimentichiamo che mentre la società totalitaria, coi
suoi stessi principi, obbliga l’amico a denunciare l’amico, la società
dell’Occidente, nonostante i suoi errori, produce sempre quella razza d’uomini
che conservano l’onore di vivere, voglio dire la razza di coloro che tendono
la mano allo stesso nemico per salvarlo dal dolore o dalla morte.
Quando il ministro Chépilov, proveniente da Parigi osa scrivere
che “l’arte occidentale è destinata a squartare l’anima umana ed
a formare dei massacratori di ogni specie” è tempo di rispondergli
che i nostri artisti ed i nostri scrittori, almeno essi, non hanno mai
massacrato nessuno e che hanno abbastanza generosità per non accusare
la teoria del realismo socialista dei massacri coperti o ordinati da Chépilov
e da coloro che gli assomigliano.
La verità è che c’è posto per tutti, tra di noi,
anche per il male, ed anche per gli scrittori di Chépilov, ma anche
per l’onore, per la via libera del desiderio, per l’avventura dell’intelligenza.
Mentre non c’è posto per niente nella cultura staliniana, se non
per i sermoni di patronato, la vita grigia e il catechismo della propaganda.
A coloro che potevano ancora dubitarne, gli scrittori ungheresi gliel’hanno
gridato recentemente, prima di manifestare la loro scelta definitiva perché
preferiscono tacere, oggi, piuttosto che mentire per ordine.
La storia non può giustificare il terrore
Non ci sarà facile essere degni di tanto sacrificio. Ma dobbiamo
cercare di esserlo, in un’Europa infine unita, dimenticando le nostre querele,
facendo giustizia dei nostri stessi errori, moltiplicando le nostre creazioni
e la nostra solidarietà.
A coloro, infine, che hanno voluto umiliarci e farci credere che la
storia poteva giustificare il terrore, rispondiamo con la nostra vera fede,
quella che noi condividiamo, ora noi lo sappiamo, con gli scrittori ungheresi,
polacchi ed anche, sì, con gli scrittori russi, imbavagliati essi
pure.
La nostra fede è che c’è, in cammino nel mondo, parallelamente
alla forza della costrizione e della morte che oscura la storia, una forza
di persuasione e di vita che si chiama cultura e che si fa nello stesso
tempo con la creazione libera ed il lavoro libero. Il nostro compito quotidiano,
la nostra lunga vocazione è di accrescere con il nostro lavoro questa
cultura e non di toglierle qualchecosa, sia pure provvisoriamente. Ma il
nostro dovere più fiero è di difendere personalmente, e fino
in fondo, contro la forza della costrizione e della morte, da qualunque
parte venga, la libertà di questa cultura, cioè la libertà
del lavoro e della creazione.
Gli operai e gli intellettuali ungheresi ai quali, oggi, siamo vicini
con tanto impotente dolore, hanno compreso questo e ce l’hanno fatto capire
meglio. Ecco perché se il loro dolore è il nostro, anche
la loro speranza ci appartiene. Nonostante la loro miseria, il loro esilio,
le loro catene, ci hanno lasciata un’eredità regale che noi dobbiamo
meritare: la libertà, che non hanno scelta, ma che in un sol giorno
ci hanno resa!