di Loris Campetti, "il manifesto", 5 marzo 2009
Nell'arco di soli 30 giorni le previsioni di Bankitalia sull'andamento
del Pil nel 2009 sono passate da un meno 2% a un meno 2,6%. Tradotto in
cifre, un buco da 41 miliardi di euro. C'è di che preoccuparsi ma
non da stupirsi, è sufficiente guardare l'esplosione delle ore di
cassa integrazione, cresciuta del 556% nel solo mese di febbraio, per rendersi
conto della gravità della crisi. Dei precari rimandati a casa, degli
ex dipendenti di aziende prive di ammortizzatori sociali che sono la maggioranza,
neppure si parla. E se il tasso di disoccupazione italiano non ha toccato
ancora gli spaventosi livelli spagnoli, è solo perché le
forze del lavoro su cui da noi esso viene calcolato sono decisamente minori.
In questo tzunami dell'economia reale, cosa fa il governo italiano?
Tassa i ricchi per dare ai poveri? Estende a tutti gli ammortizzatori sociali?
Aumenta l'imposizione sulle rendite finanziarie, portandole ai livelli
europei del 20%? Macché. Berlusconi impone accordi separati per
cancellare il contratto nazionale e possibilmente anche la Cgil; martella
il pubblico impiego e lo spolpa, mettendo alla porta centinaia di migliaia
di precari; investe il danaro pubblico non per difendere il lavoro e il
reddito delle persone, bensì per sostenere il mercato. Soldi alla
clientela, e ai lavoratori e ai disoccupati provveda dio, o la Caritas.
Non contenti, Berlusconi e i suoi prodi (con la minuscola) lanciano la
guerra santa contro il diritto di sciopero. In parole semplici, ridisegnano
i rapporti di forza nel paese. Ma siccome qualche intervento a sostegno
dei salari (e dei mancati salari) deve pur farlo, il governo riparte da
dove era rimasto prima del biennio Prodi (con la maiuscola): fuoco ad alzo
zero sui pensionati, quegli ingordi che si mangiano il futuro dei figli.
Se per cancellare il diritto di sciopero il governo è partito dai
trasporti, il punto più sensibile dove è facile raccogliere
consensi populisti, per colpire le pensioni il governo comincia bastonando
le donne, con l'alibi della sentenza europea che chiede all'Italia di adeguarsi
al criterio della parità uomo-donna. Parità? Parità
di diversi, con diversi diritti, salari, opportunità, carriera?
Parità tra portatori e portatrici di culture e bisogni diversi?
Se in questa crisi e con queste risposte politiche il neo segretario
dei democratici Dario Franceschini propone un assegno ai disoccupati, viene
da commentare: bentornato Pd. Non è una scelta rivoluzionaria, neppure
da governo di sinistra, come dimostra il resto d'Europa. E' soltanto una
proposta ragionevole. Eppure, c'è qualcosa che non convince del
tutto. Limitarsi a chiedere un sostegno per chi perde il lavoro, senza
chiedere come fanno la Fiom e la Cgil l'estensione degli ammortizzatori
a tutti i lavoratori dipendenti, precari inclusi, è come prendere
atto che dentro la crisi ai licenziamenti bisogna rassegnarsi, non c'è
alternativa. Non è vero, un'alternativa esiste, e per trovarla basterebbe
rimettere al centro il lavoro. La seconda preoccupazione non riguarda la
proposta in sé ma il reperimento delle risorse necessarie a renderla
praticabile: già i soliti noti nel Partito democratico hanno ipotizzato,
unendosi al coro della destra e dei principali media, non una patrimoniale,
o la tassazione dei redditi più alti come quella annunciata dal
nuovo presidente americano, ma l'ennesima sforbiciata alle pensioni. Partendo
con quelle delle donne, che intendono usare come apripista per colpire
le pensioni di tutti.
Che ne direbbe Obama?