Sergio Bruno, www.sbilanciamoci.info, 14 ottobre 2012
L’incultura dominante insiste sul fatto che dalla crisi si esce lavorando di più. Ma in questo modo si ignora che cosa sia la produttività, che cosa la possa migliorare, gli orizzonti temporali degli investimenti. e il ruolo delle politiche
La produttività
Il presidente di Confindustria Squinzi chiede: “bisogna lavorare di
più, più ore, diminuendo festività e ferie”. Qualunque
tipo di provvedimento sulla competitività passa per il fatto che
bisogna lavorare di più, più ore”
Vediamo gli aspetti economici: la produttività viene misurata
come valore di un prodotto rapportato a un fattore della produzione. Questo
in principio. In pratica il prodotto viene rapportato al solo lavoro, perché
... è facile contare gli occupati e/o le ore lavorate. Di produttività
totale dei fattori si parla solo in pubblicazioni specializzate e di produttività
del capitale quasi mai, perché le relative stime sono dubbie e dipendono
da ipotesi eroiche. Macchinari e impianti sono così diversi tra
loro (eterogenei) che come si fa ad aggregarli? I lavoratori invece ....
si può fingere che siano omogenei perché i differenziali
di remunerazione sarebbero proporzionali ai loro differenziali di produttività.
“Sarebbero”, perché la fiducia in un mercato capace di operare un
tale miracolo è tanto cieca da ignorare miriadi di evidenze di segno
contrario (si pensi solo a quanto è cresciuto negli ultimi trent’anni
lo stipendio relativo dei manager rispetto a quello degli operai).
Squinzi pensa che bisogna lavorare più ore. Il prodotto fisico
potrebbe crescere in proporzione esatta, ovvero più o meno proporzionalmente.
Nel primo caso la produttività oraria resterebbe eguale, nel secondo
aumenterebbe, nel terzo diminuirebbe. Ma in valore? Le si pagano o no le
ore lavorate in più (è quel che chiede Angeletti)? E che
succederebbe a fronte di una maggiore produzione se non si riesce a vendere
(sembra chiedere, tra le altre considerazioni, Camusso)?
Aspetti tecnici: qualcuno ritiene che gli operai delle fabbriche (ad
esempio automobilistiche) tedesche o francesi, che appaiono avere una produttività
maggiore di quella italiana, muovano le mani più velocemente di
quelli delle fabbriche italiane? E’ evidente che la differenza di produttività
non può che dipendere, indipendentemente o congiuntamente, dal fatto
che il lay down del processo produttivo delle fabbriche estere è
concepito meglio di quello delle fabbriche italiane o dal fatto che il
lavoro è applicato a prodotti che si vendono a valori molto diversi
tra loro: una cosa è vendere il risultato della stessa quantità
di lavoro al prezzo di una utilitaria o a quello di un’auto sfiziosa venduta
ad un prezzo superiore.
... il tempo
Una dimensione ormai ignorata da tutti, tecnocrati, governi, imprese.
Tempo è quel che chiede la Grecia e che farebbero bene a chiedere
anche altri paesi, non solo Spagna, Portogallo e Italia, ma anche la Francia
(solo per fare un esempio). L’agire prende tempo, il realizzarsi di effetti
prende tempo. La Grecia dice “siamo d’accordo nel fare quel che chiedete
ma lasciatecelo fare nel doppio del tempo”. Hanno ragione, perché
diluendo nel tempo l’austerità i suoi effetti depressivi sul PIL
sarebbero inferiori.
Il tempo e il suo fluire sono, concettualmente, gli elementi logici
che consentono di separare i flussi (il PIL, i redditi, la quantità
di lavoro impiegato in ciascun periodo, i flussi di risparmio che si formano
in ciascun periodo, il deficit pubblico annuo, gli investimenti di ciascun
periodo, ...) dagli stock (la capacità produttiva totale esistente
in un periodo, la ricchezza, i risparmi accumulati, il debito pubblico
accumulato, ...) e dalle variazioni degli stock (il crescere della capacità
produttiva, le variazioni del debito pubblico accumulato, ...) e/o dei
loro valori (le variazioni dei valori di borsa, quelle dei valori immobiliari,
...). Tutte queste grandezze vengono ormai trattate confusamente da tutti
(esempio, la sciatta e diseducativa frase “il PIL, cioè la ricchezza
nazionale, sarà il prossimo anno del meno 2%”, al posto dell’espressione
corretta “la variazione annua del PIL, cioè il flusso di produzione,
del prossimo anno, sarà ...).
È importante distinguere flussi e stocks: il debito pubblico
(uno stock) è il risultato di flussi di deficit annui accumulati
nel corso di parecchio tempo. I governi non possono che agire sui flussi,
usando l’austerità fiscale sui flussi per ridurre il debito e, per
questa via, il rapporto debito/PIL. È per questo che ci vuole tempo,
i flussi sono una frazione piccola degli stock. Tra i fenomeni che hanno
luogo nel tempo esistono interrelazioni non banali, che dipendono da quanto
si fa per unità di tempo. Anche il PIL è sensibile alle azioni
restrittive sui flussi, anche se non necessariamente in proporzione alla
diminuzione annua del deficit, sicché il PIL cresce meno o si riduce
con il ridursi della spesa pubblica e il crescere delle imposte, tanto
più intensamente quanto più drastica, e cioè concentrata
nel tempo, è l’azione sui flussi. Risultato: se decrescono sia il
debito che il PIL può accadere che il rapporto debito/PIL aumenti;
ed è proprio quel che è accaduto. Il bello è che tutti
ne sono consapevoli, perfino la Troika, perfino i tedeschi, ma l’intransigenza
non cambia. Forse che l’obiettivo non è la riduzione del rapporto
debito/PIL greco?
... la lungimiranza
Dice Marchionne: faremo gli investimenti quando vi sarà la ripresa.
Creare nuovi modelli, predisporre gli impianti e organizzare nuove produzioni
prende tempo, anni. Se la Fiat parte nella creazione di modelli solo dopo
i primi segni di ripresa non può che perdere nella concorrenza di
chi, investendo in ricerca e sviluppo in via permanente e rischiando di
anticipare gli investimenti in capacità produttiva, si prepara in
tempo.
C’è di più. Se tutti facessero come Marchionne, la ripresa
non potrebbe emergere. Uno dei compiti dei governi, meglio ancora “il”
compito di un ipotetico ministro europeo dell’economia, sarebbe quello
di indurre sforzi di investimento proiettando scenari di crescita e coordinando
ed incentivando gli attori di maggiori dimensioni ad uniformarsi a tale
scenario.
Dicono Squinzi e tanti altri che bisogna essere più innovativi.
Ma non dicono come. Le innovazioni sono come i risultati della ricerca.
Si può essere ragionevolmente certi che quando partono cento progetti
di ricerca un certo numero di essi darà risultati importanti, ma
non si può scommettere sul successo di un singolo progetto, il cui
fallimento non è di per sé uno spreco. È quindi il
“sistema ricerca”, la sua qualità ma anche e forse soprattutto la
suo estensione dimensionale, che garantiscono il successo (sempre con un
ritardo temporale significativo). Ed in questo sta la lungimiranza. Se
il sistema industriale italiano non è competitivo è facile
prendersela con il lavoro e chiedere di lavorare di più per minori
compensi. Si tratta di una competitività, di basso profilo e di
effimera durata, che è possibile ottenere subito, se i lavoratori
e le loro organizzazioni vengono messe in un angolo.
... competitività e innovazioni
Il punto è che la competitività dei nostri concorrenti
internazionali dipende dal capitale umano, da come lo si organizza e utilizza.
I nostri concorrenti internazionali hanno un sistema della ricerca che
differisce dal nostro soprattutto perché, accanto alle università
e ai centri di ricerca pubblici, esistono laboratori di ricerca, strutturati
e formalizzati, presso l’industria. Questi laboratori hanno una loro relativa
autonomia, contabilità separate e i ricercatori che in essi lavorano
hanno uno status sociale ed esplicite prospettive di carriera. È
possibile emulare tali modelli?
La risposta è “forse”, ma una tale trasformazione richiede tempo
e non basta certo una singola legge ad hoc. In questo senso i crediti di
imposta che sono già previsti per l’assunzione di dottori di ricerca
nel 2012 saranno quasi sicuramente oggetto di uso opportunistico (è
arduo capire se l’assunzione è “aggiuntiva”, anche se l’assunzione
di personale qualificato è comunque cosa buona e giusta). Il problema
è infatti, in Italia, rendere conveniente l’emergere nell’industria
dei laboratori di ricerca quali istituzioni stabili, quali realtà
organizzative permanenti, dotate di apparecchiature ed impianti, capaci
di riprodurre team ben strutturati per competenze, età e prestigio.
Questo e non altro sono i veri laboratori di ricerca.
Si crei dunque una normativa di favore per la ricerca privata, via
crediti di imposta, anche generosissima ma vincolata al fatto di includere
la presenza di laboratori negli statuti di impresa, con contabilità
separate, ovvero per consorzi di imprese, e si condizionino imprese e consorzi
ad inquadrare i ricercatori privati (per i quali non sono previsti oggi
contratti che tengano conto delle peculiarità del lavoro di ricerca)
nel quadro di contratti di lavoro specifici. La generosità estrema,
che potrebbe essere modulata nel tempo, non costerebbe niente in caso di
insuccesso, mentre genererebbe benefici compensativi in caso di successo.