Robert Brenner, "La rivista del manifesto", N. 49, aprile 2004
All'inizio del 2002 Alan Greenspan aveva dichiarato che la recessione
iniziata un anno prima era alla fine. In seguito la Fed (Federal Reserve)
fu costretta a fare marcia indietro, ammettendo che l'economia era ancora
in difficoltà e che esisteva il pericolo della deflazione. Nel giugno
2003 Greeenspan doveva riconoscere che: «l'economia deve ancora mostrare
una crescita sostenuta». Da allora, gli economisti di Wall Street
hanno proclamato, con argomenti sempre più deboli, che dopo varie
interruzioni, attribuibili a `shock esterni' - l'11 settembre, gli scandali
societari e l'attacco all'Iraq -, l'economia finalmente stava accelerando.
Citando la maggiore velocità di crescita del Pil nella seconda metà
del 2003 e una significativa crescita dei profitti, ci assicuravano dell'arrivo
di un nuovo boom. A meno di un anno da un'elezione presidenziale, si pone
quindi la questione di quale sia la reale condizione dell'economia americana
1 Che cosa ha dato l'avvio al rallentamento? Che cosa sta trainando l'attuale
accelerazione economica, e questa è duratura? L'economia ha veramente
superato il lungo periodo di ripiegamento che, dal 1973 di decennio in
decennio, ha visto peggiorare i risultati globali? Quali sono le previsioni
per il futuro?
A metà dell'estate 2000, la Borsa statunitense iniziò
una brusca discesa e l'economia sottostante perdette forza cadendo in recessione
dall'inizio del 2001 . Nel dopoguerra, tutte le fasi discendenti del ciclo
precedenti all'ultima avevano avuto come innesco una stretta nel credito
attuata dalla Fed per contenere l'inflazione e il surriscaldamento dell'economia
attraverso la riduzione della domanda di consumo e, di riflesso, della
spesa per investimenti. Nel 2000 la Fed facilitò il credito in modo
spettacolare, ma due circostanze fra loro strettamente correlate trascinarono
l'economia verso il basso. La prima fu l'aggravarsi dell'eccesso di capacità
produttiva, principalmente nell'industria, che ebbe l'effetto di deprimere
i prezzi e il grado di utilizzazione degli impianti, provocando una caduta
della redditività - che, a sua volta, produsse la riduzione dell'occupazione,
degli investimenti e degli incrementi salariali. Il secondo fenomeno fu
il collasso dei prezzi delle azioni, specialmente nel settore dell'alta
tecnologia, che invertì `l'effetto ricchezza' a rendendo, da un
lato, più difficile alle società la raccolta di danaro attraverso
emissioni di azioni o l'indebitamento con le banche, e, dall'altro, ai
privati ottenere prestiti garantiti da azioni.
1. La fine del boom La recessione mise fine all'espansione del decennio
iniziato nel 1991 e, in particolare, all'accelerazione economica del quinquennio
successivo al 1995. Quel boom è stato, e continua a essere, molto
enfatizzato, in particolare come espressione di un preteso miracolo di
crescita della produttività. In realtà, non aveva invertito
la tendenza di lungo periodo che tormentava l'economia mondiale dal 1973.
Soprattutto, negli Stati Uniti, così come in Giappone e Germania,
i tassi di profitto realizzati nell'economia privata durante il ciclo degli
anni novanta non erano riusciti a superare quelli degli anni settanta e
ottanta, i quali, a loro volta, erano ben al di sotto di quelli realizzati
durante il lungo boom del dopoguerra fra la fine degli anni quaranta e
la fine degli anni sessanta. Di conseguenza, i risultati economici nei
paesi a capitalismo avanzato nel loro insieme, (G7) espressi dai normali
indicatori macroeconomici, non furono migliori di quelli degli anni ottanta,
i quali a loro volta erano peggiori di quelli degli anni settanta, che
già non erano comparabili con quelli del ventennio precedente.
Ciò che continuava a deprimere la redditività nel settore
privato e a precludere ogni durevole e rilevante espansione economica era
il perdurare, quale elemento sistemico, di un eccesso di capacità
produttiva nell'industria a livello internazionale. Questo fenomeno ha
trovato espressione nella profonda discesa della redditività - già
molto ridotta - sia in Germania che in Giappone durante gli anni '90, e
nella incapacità dell'industria statunitense di mantenere l'impressionante
ripresa dei saggi di profitto realizzata fra il 1985 e il 1995 (in particolare
nella seconda metà di questo periodo). L'eccesso di capacità
si manifestava anche nella serie crescente di crisi profonde e diffuse
che colpirono l'economia mondiale nell'ultimo decennio del secolo - il
collasso del sistema dei tassi di cambio in Europa nel 1993, la crisi messicana
del '94-95, l'emergenza del '97-98 nei paesi dell'Est Asiatico e il crollo
e la recessione del 2000-2001.
Le radici del rallentamento e, più in generale lo stato attuale
dell'economia statunitense, risalgono alla metà degli anni '90,
quando le forze principali che avevano modellato l'economia sia nella fase
di forte espansione del 1995-2000 che in quella recessiva del 2000-2003
furono lasciate libere di agire. Durante il decennio precedente, aiutata
dalle forti rivalutazioni dello yen e del marco imposte dal governo degli
Stati Uniti ai suoi rivali giapponesi e tedeschi con gli Accordi del Plaza
del 1985 b, la redditività dell'industria statunitense aveva conseguito
una significativa ripresa, dopo un lungo periodo di ristagno, crescendo
del 70% fra il 1985 e il 1995. In una situazione in cui i saggi di profitto
esterni all'industria erano leggermente decrescenti, questa crescita nel
tasso di profitto industriale determinò, da sola, un incremento
della redditività nell'economia complessiva degli Stati Uniti elevando
del 20% nel corso del decennio il saggio di profitto delle società
non finanziarie, e riguadagnando il livello del 1973. Sulla base di questa
nuova vitalità, l'economia statunitense cominciò ad accelerare
attorno al 1993, manifestando - almeno in superficie - maggior dinamismo
di quanto non avesse avuto in molti periodi precedenti.
Tuttavia, le prospettive dell'economia americana erano, in ultima analisi,
limitate dalla situazione dell'economia internazionale nel suo insieme.
La ripresa della redditività negli Stati Uniti non si basava soltanto
sulla svalutazione del dollaro ma su un decennio di quasi crescita zero
dei salari reali, di severi ridimensionamenti industriali, di saggi di
interesse reale decrescenti, e sul ritorno all'equilibrio del bilancio
pubblico. Questo risultato fu raggiunto in gran parte a spese delle maggiori
economie rivali, che furono pesantemente colpite dalla rallentata crescita
del mercato statunitense e dal miglioramento della competitività
di prezzo delle imprese americane nell'economia internazionale. Questo
fattore condusse, durante la prima metà degli anni '90, alla recessione
- radicata nelle crisi industriali verificatesi in entrambi i paesi - più
profonda di tutto il periodo post-bellico sia in Giappone che in Germania.
Nel 1995, l'industria giapponese corse il rischio di bloccarsi allorché
il tasso di cambio si apprezzò fino a 79 yen per un dollaro. Gli
Stati Uniti furono obbligati a ricambiare il favore concesso dal Giappone
e dalla Germania nel precedente decennio, accettando di avviare con manovre
coordinate un nuovo rialzo del dollaro. Si deve mettere in evidenza che,
con la forte ascesa del dollaro fra il 1995 e il 2001, l'economia statunitense
fu privata del principale motore che aveva sospinto la impressionante svolta
del decennio precedente, segnata dal netto miglioramento della redditività
nell'industria, della competitività internazionale e nelle esportazioni.
A sua volta, questa ascesa del dollaro pose le basi per le due tendenze
che avrebbero caratterizzato l'economia americana fino a oggi. La prima
fu la crisi crescente del settore industriale, delle esportazioni e (dopo
il 2000) degli investimenti; la seconda fu la crescita ininterrotta del
debito del settore privato, dei consumi delle famiglie, delle importazioni
e dei valori patrimoniali, fattore che avrebbe contribuito a sostenere
l'espansione di una parte significativa del settore non industriale, soprattutto
la finanza, ma anche di quelle attività connesse ai prestiti a lungo
termine, alle importazioni, al consumo, quali il settore delle costruzioni,
il commercio al dettaglio e i servizi sanitari.
Keynesismo di Borsa Con il dollaro salito alle stelle dopo il 1995,
il peso dell'eccesso di capacità produttiva esistente a livello
internazionale ricadde sugli Stati Uniti. Le cose andarono molto peggio
per l'industria quando, nel 1997-1998, le economie dell'Asia Orientale
entrarono in crisi provocando, di conseguenza, l'inaridimento della loro
domanda, la svalutazione del loro cambio e la forte spinta di quelle economie
a vendere sul mercato internazionale. Dal 1997, nonostante il saggio di
profitto nell'industria statunitense conoscesse un nuovo e maggiore declino,
la Borsa decollò. Inizialmente il rialzo fu guidato da un marcato
declino, nel 1995, dei saggi di interesse di lungo periodo determinato
dal forte afflusso di denaro dai governi dell'Asia Orientale verso i mercati
finanziari statunitensi, che aveva spinto in alto il dollaro. Questa tendenza
al rialzo fu sistematicamente sostenuta alla fine del decennio dal regime
di moneta facile attuato dalla Fed di Alan Greenspan, che, fra l'inizio
del 1995 e la metà del 1999, a ogni segnale di instabilità
finanziaria rifiutò di rialzare i saggi di interesse e intervenne
vigorosamente in aiuto al mercato azionario con iniezioni di credito. Greenspan
era ben consapevole dell'impatto depressivo sull'economia sia delle politiche
di Clinton, tese a portare il bilancio federale in pareggio, che del nuovo
apprezzamento del dollaro. Per compensare quell'impatto egli fece leva
sull'effetto ricchezza della Borsa sostenendo il credito alle società
e ai privati, e quindi l'investimento e i consumi. In effetti, durante
la seconda metà degli anni '90, la Fed sostituì l'incremento
del deficit pubblico, che era stato indispensabile per la crescita dell'economia
statunitense durante gli anni '80, con un incremento del deficit privato
- una specie di «keynesismo di Borsa».
Quando le azioni decollarono, le società - specialmente nel
settore delle tecnologie dell'informazione - si ritrovarono con una facilitazione
senza precedenti dell'accesso alla finanza, sia nella forma di emissione
di azioni che attraverso prestiti ottenuti a fronte di una ricapitalizzazione
delle loro azioni. Come conseguenza, l'indebitamento delle società
non finanziarie salì alle stelle, raggiungendo livelli record dall'inizio
del decennio. Mentre durante il periodo del dopoguerra le società
si erano finanziate quasi interamente con gli utili non distribuiti (ossia
con il profitto al netto degli interessi e dei dividendi), ora le aziende
che non potevano ricorrere al credito a basso costo si rivolsero per finanziarsi
al mercato azionario fino a un livello prima inconcepibile. Su questi fondamenti,
l'investimento esplose, aumentando a un saggio annuale attorno al 10%,
il che spiega il 30% circa della crescita del Pil realizzatasi fra il 1995
e il 2000.
Anche le famiglie ricche beneficiarono dell'`effetto ricchezza' derivante
dalla crescita del valore delle azioni. Appena videro volare i loro titoli,
ritennero conveniente accrescere il loro indebitamento annuo, oltre che
la loro esposizione complessiva, fino a livelli record in rapporto al reddito.
Si sentirono anche libere di aumentare la quota dei propri consumi fino
a quasi il 100%, determinando una riduzione del saggio di risparmio nel
corso del decennio dall'8% fin quasi a zero. Le spese per consumi salirono
bruscamente, aiutando moltissimo ad assorbire l'incremento della produzione
generata dalla crescita dell'investimento e della produttività.
Fra il 1995 e il 2000 prese forma un poderoso boom, segnato da un'accelerazione
della produzione, della produttività, dell'occupazione e, alla fine,
da un aumento del salario reale. Tuttavia questo boom dipendeva quasi interamente
da una rapida ascesa dei corsi di Borsa che, non aveva nessuna base di
sostegno sui profitti delle società.
La crescita degli investimenti della seconda metà del decennio
fu in gran parte e inevitabilmente mal distribuita, dato che avveniva a
fronte di un trend discendente della redditività ed era resa possibile
da un incremento dell'indebitamento delle società e dei consumi
delle famiglie derivante dalla bolla borsistica. L'estensione e la profondità
dell'eccesso di capacità furono assai estese, in particolare nelle
industrie dell'high-tech, e finirono con l'aggravare il declino della redditività.
Nell'economia la ridotta crescita dei costi risultante dall'aumento della
produttività fu più che compensata dalla decelerazione degli
incrementi dei prezzi dovuta a una offerta che correva più veloce
della domanda. I consumatori finirono quindi con l'essere - anche se temporaneamente
- i principali beneficiari di un processo che portò a una inevitabile
e crescente pressione al ribasso dei profitti. Fra il 1997 e il 2000, quando
il boom e la bolla raggiunsero il punto più alto, le società
non finanziarie sostennero una caduta nel saggio di profitto di almeno
un quinto.
2. la crisi del settore industriale e dell'high-tech Né l'ascesa
dell'economia reale, né quella nominale dei valori patrimoniali
poterono a lungo sfidare la forza di gravità dei rendimenti decrescenti.
Dal luglio 2000, una serie di rapporti sul progressivo peggioramento dei
guadagni delle società determinò un'improvvisa e precipitosa
svolta verso il basso del ciclo, che, da un lato, invertì l'`effetto
ricchezza', dall'altro, mise in evidenza l'entità dell'eccesso di
capacità produttiva e l'enorme indebitamento delle società,
fenomeni che costituivano la doppia eredità del boom degli investimenti
guidato dalla bolla. Con la brusca riduzione della propria capitalizzazione,
le aziende non solo ebbero maggiore difficoltà a ricorrere al credito,
ma furono spinte proprio a evitarlo, sia per la riduzione dei profitti,
sia per la crescente paura di fallimento, che le convinse a riassestare
i propri bilanci appesantiti dai debiti. Avendo acquistato molti più
impianti, attrezzature e software di quanto potessero realmente utilizzare,
furono costrette sia a ridurre i prezzi che a lasciare inutilizzata parte
della capacità produttiva, subendo comunque una caduta nei saggi
di profitto. Per far fronte al declino dei profitti, le aziende tagliarono
produzione, investimenti, occupazione e livello dei salari. Questi impulsi
ridussero radicalmente la domanda aggregata spingendo in basso l'economia,
il grado di utilizzazione della capacità e la crescita della produttività.
In tal modo si aggravava anche il declino della redditività. Fra
la metà del 2000 e la metà del 2001 la crescita del Pil cadde
dal 5 al -1% e l'investimento dal 9 al -5% - la caduta fu per entrambi
più veloce che in ogni altro periodo del dopoguerra - gettando l'economia
in uno stato di avvitamento.
Nel 2001, 2002 e prima metà del 2003, l'occupazione nei settori
non agricoli (misurata in ore e includendo i lavoratori indipendenti) cadde
rispettivamente del 2, del 2,5 e dell'1,5%, dopo essere cresciuta, fra
il 1995 e il 2000, a un saggio annuo di più del 2%. Questa flessione
ebbe un effetto grave sulla domanda aggregata, e spinse l'economia verso
il basso. Contemporaneamente, i salari [wages] orari reali, che erano cresciuti
del 3,5% nel 2000, furono seccamente ridotti: -0,1%, -1,2, e -0,3 rispettivamente
nel 2001, nel 2002 e nella prima metà del 2003. Come effetto combinato
della ridotta crescita dei salari reali orari e della diminuita occupazione,
il totale delle retribuzioni reali [total real compensation] nei settori
non agricoli - principale elemento della domanda aggregata - cadde nel
2001, 2002 e nella prima metà del 2003, rispettivamente dell'1,2,
dell'1,4 e dello 0,2%, mentre fra il 1995 e 2000 era cresciuto a una velocità
media annua del 4,3%. Ma, forse, ciò che più colpisce è
la rapida caduta, nel 2001 e 2002, delle spese reali per impianti e attrezzature,
e la loro stagnazione nella prima metà del 2003, dopo che fra il
1995 e il 2000 erano aumentate alla media annua del 10%. Rimanendo invariato
tutto il resto, i contraccolpi sulla domanda di consumo e di investimento
risultanti dalle imponenti riduzioni nell'occupazione, nelle retribuzioni
e nella crescita della spesa in beni capitale, hanno mantenuto fino ad
oggi l'economia in uno stato di semi-recessione. Infatti, nonostante l'enorme
programma di incentivi da parte del governo, la media annua di crescita
del Pil (al netto di quello agricolo) è passata dal 4,6% fra il
1995 e 2000 al -0,1% nel 2001 al +2,7 nel 2002 e al +2,6 nella prima metà
del 2003.
Accentuandosi la svolta verso il basso, precipitarono anche le esportazioni.
Nel corso dei due decenni precedenti la crescita delle esportazioni statunitensi
aveva avuto, paradossalmente, la tendenza a dipendere dalla crescita delle
importazioni. La spiegazione è che le esportazioni statunitensi
dipendevano da un'economia internazionale la cui crescita si basava sempre
più sulle importazioni statunitensi. Il rialzo della Borsa nei due
anni finali del secolo aveva salvato l'economia mondiale, oltre che le
esportazioni statunitensi, dalle crisi dell'Est Asiatico mettendo in moto
un boom di breve durata delle importazioni, specialmente nel settore dei
componenti dell'informatica. Ma con il collasso dei prezzi delle azioni
statunitensi e degli investimenti, in particolare nei settori della, new
economy, il processo si invertì. Il Giappone, l'Europa e l'Est Asiatico
persero di nuovo spinta più rapidamente degli Stati Uniti, mentre
gran parte dei paesi in via di sviluppo, particolarmente l'America Latina,
dopo una breve luna di miele, sprofondarono nuovamente nella crisi. Poiché
le economie dei partner commerciali degli Stati Uniti erano diventate sempre
più dipendenti dalle importazioni americane - e avendo gli Stati
Uniti una propensione a importare maggiore di quella del Giappone e dell'Europa
- la discesa nella recessione ridusse la capacità del resto del
mondo di compensare con le proprie importazioni la diminuzione di quelle
statunitensi. Conseguentemente, nel periodo dal 2000 alla prima metà
del 2003, la crescita delle esportazioni Usa ebbe una flessione, rispetto
alla crescita delle importazioni, maggiore di quanto fosse accaduto in
precedenza. Le importazioni americane in termini reali, dopo essere aumentate
del 13,2% nel 2000 e calate del 2,9 nel 2001, crebbero del 3,7 e 2,25%,
rispettivamente nel 2002 e nella prima metà del 2003. Dall'altro
lato, le esportazioni in termini reali, che erano cresciute del 9,7% nel
2000, caddero del 5,4, 3,6 e 0,1% rispettivamente nel 2001, 2002 e nella
prima metà del 2003. Dopo che l'economia del resto del mondo, privata
del motore americano, rallentò, gli Stati Uniti poterono contare
solo su se stessi per rilanciare una ripresa economica dalla quale dipendeva
l'intera economia mondiale.
Per arginare la caduta, dal gennaio 2001 in avanti, la Fed abbassò
il costo del denaro con una rapidità senza precedenti, riducendo
il tasso di interesse undici volte, dal 6,5 all'1,75%, nel corso dell'anno.
Ma, come la Fed stessa scoprì, le riduzioni dei tassi di interesse
sono molto più efficaci a ravvivare un'economia nella quale i consumi
sono stati ridotti per effetto di una restrizione del credito - come si
era verificato in tutte le precedenti crisi cicliche del dopoguerra - piuttosto
che a far ripartire una economia spinta alla recessione dal declino degli
investimenti e dell'occupazione causato dall'eccesso di capacità
produttiva e dalla caduta dei tassi di profitto.
Anche quando la Fed abbassò i tassi di interesse, le società
non finanziarie ebbero scarsi incentivi ad aumentare l'accumulazione di
capitale, dato l'eccesso di capacità produttiva. Al contrario, poiché
l'ammontare dei loro debiti era passato, fra il 1995 e il 2000, dal 73
al 90% della loro produzione, avevano buoni motivi per risanare i loro
bilanci attraverso il contenimento delle spese. Questo comportamento creava
ulteriori difficoltà a investire. Dopo che la rivalutazione di Borsa
aveva consentito alle società non finanziarie di aumentare il loro
indebitamento in rapporto al reddito, portandolo vicino alla quota record
dell'8% nel periodo 1998-2000, esse furono costrette a ridurlo al 4,6,
al 2,1 e al 2,6%, nel 2001, 2002 e nella prima metà del 2003, dal
momento che il valore del loro capitale azionario si era drammaticamente
contratto. Perciò le spese in termini reali (escluse quelle per
immobili residenziali) per impianti e attrezzature caddero verticalmente,
scendendo da un tasso medio annuo del 10,1% fra il 1995 e il 2000 a una
media annua di meno 4,4% fra il 2000 e metà del 2003. La mancata
ripresa degli investimenti costituì il fattore decisivo dell'arretramento
dell'economia.
Eccesso di capacità produttiva nell'industria Il settore industriale
è stata la principale, quasi esclusiva, area e fonte del rallentamento
economico, dopo che erano giunte a compimento le trasformazioni che si
erano verificate nel decennio precedente. Sebbene dalla metà degli
anni novanta il prodotto di questo settore rappresentasse solo il 29,3%
del prodotto di tutte le società e il 32,7% di quello delle società
non finanziarie, attorno al 1995 i profitti realizzati al lordo degli interessi
rappresentavano ancora il 42,5% di quelli di tutte le società e
il 50% delle società non finanziarie. Di conseguenza, la crisi del
settore industriale determinò la crisi dell'intera economia.
Fra il 1995 ed il 2000 la crescita dei costi nell'economia industriale
degli Stati Uniti non aveva rappresentato una minaccia per la redditività.
Al contrario: la crescita della produttività nell'industria fu così
rapida da superare quella dei salari, con il risultato che il costo del
lavoro per unità di prodotto cadde durante il quinquennio a un impressionante
saggio medio di più dell'1% annuo. Tuttavia, in questo periodo fu
molto più difficile per i produttori statunitensi difendere, e a
maggior ragione espandere, le quote di mercato e i margini di profitto,
dato che dovevano far fronte a un apprezzamento (ponderato sulla base degli
scambi commerciali del dollaro) del 21% e, dal 1997, a una situazione di
crisi sul mercato internazionale. Durante la seconda metà del decennio
i prezzi mondiali all'esportazione, misurati in dollari, caddero a uno
sbalorditivo tasso annuo del 4%, con la conseguenza che mentre le esportazioni
industriali statunitensi crebbero a un tasso annuo del 7%, le importazioni
aumentarono con una velocità maggiore del 40%, ossia a un tasso
del 10% l'anno, accrescendo di un terzo la loro quota sul mercato statunitense.
Nonostante i costi di produzione decrescenti, la perdita di competitività
determinata dalla rivalutazione del dollaro fu così intensa che
il settore industriale mantenne i suoi tassi di profitto solo fra il 1995
e il 1997, e solo grazie al fatto che fu debole in quei due anni la pressione
dal lato dei salari, che diminuirono in termini reali dell'1,5%. Fra il
1997 ed il 2000 i prezzi caddero più del costo del lavoro per unità
di prodotto, con il risultato che, in quel breve periodo, quando la bolla
si sgonfiò, il saggio di profitto nell'industria cadde del 15%.
Nel 2001 la crisi del settore industriale raggiunse il suo culmine,
a causa dell'intensificarsi della pressione della concorrenza sul mercato
mondiale, e fu enormemente complicata dalla flessione del mercato interno.
Nello stesso momento in cui i prezzi internazionali dei prodotti industriali
diminuivano di un ulteriore 2,4% e le esportazioni nominali cadevano del
7%, i produttori americani videro ridursi di una metà la crescita
dei consumi reali interni. A fronte di queste contrazioni, il Pil del settore
industriale calò di un 6% e l'utilizzazione della capacità
del 7,1%. Nel frattempo, gli investimenti reali nel settore caddero del
5,4%. Con una caduta così rapida della produzione e dell'utilizzazione
della capacità produttiva, oltre che delle spese per nuovi impianti,
attrezzature e software, gli imprenditori non furono in grado di ridurre
la forza lavoro così in fretta da prevenire pesanti cadute nella
crescita della produttività. L'occupazione (in ore) fu infatti tagliata
del 4,8%. Ma la crescita della produzione oraria nell'industria cadde dal
6,1% del 2000 al -0,4% del 2001.
Le imprese industriali risposero a queste forti pressioni chiudendo
i rubinetti delle retribuzioni: i salari reali, che erano cresciuti del
3,9% nel 2000, caddero dell'1,2% nel 2001. Ma con il crollo della produttività
e del grado di utilizzazione della capacità produttiva, gli imprenditori
non poterono evitare l'aumento del 2% del costo del lavoro per unità
prodotta. Né poterono fermare la caduta dei prezzi al consumo dello
0,4%, dopo una caduta del 2% nel 2000. Il risultato fu che nel 2001 il
tasso di profitto per il settore industriale cadde di un ulteriore 21,3%,
a un livello di un terzo inferiore a quello del picco raggiunto nel 1997.
Fra il 1997 e il 2001, quando l'indebitamento delle società era
salito alle stelle, la proporzione degli interessi passivi netti sui profitti
era salita dal 19 al 40,5%, valore record dal dopoguerra. A questo, in
parte, si deve nel settore industriale la caduta, avvenuta nel 2001, dei
profitti al netto degli interessi, che diminuirono del 44,4% rispetto al
loro punto più alto del 1997.
La crisi dei profitti colpì l'intero settore industriale, comprese
le industrie tradizionali, dal tessile all'acciaio. Ma l'occhio del ciclone
fu il settore delle tecnologie informatiche, collocato per la maggior parte
nell'industria che produce beni durevoli, ma anche in alcuni comparti non
industriali, come quello delle telecomunicazioni. Furono ugualmente colpiti
i comparti dei servizi alle imprese industriali. Le industrie dell'high-tech
erano state le principali beneficiarie delle disponibilità finanziarie
generate dalla crescita della Borsa, divenendo le principali agenti dell'eccesso
di investimenti - e, a loro volta, le principali vittime dell'eccesso di
capacità produttiva, della caduta dei profitti e del peso dell'indebitamento.
Molte passarono attraverso forti cadute nei saggi di profitto; anche quando
questi ultimi non caddero spettacolarmente, queste industrie andarono incontro
a declini ben più consistenti nei loro profitti netti, ossia dopo
i pagamenti degli interessi sugli alti debiti accumulati durante la bolla.
Infatti fra il 1995 e il 2001, i profitti al netto degli interessi nel
settore delle apparecchiature elettroniche (compresi i computer) caddero
da 59,5 miliardi di dollari del 1997 a 12,2 miliardi di dollari; nel settore
delle apparecchiature industriali (compresi i semiconduttori) da 13.3 a
2,9 miliardi di dollari; nel settore delle telecomunicazioni da 24,2 del
1996 a 6,8; infine nel settore dei servizi alle imprese da 76,2 a 33,5.
La caduta nel 2001 del saggio di profitto dell'insieme delle imprese
manifatturiere fu responsabile interamente del declino della redditività
nel settore non finanziario. Cioè nello stesso anno le società
non finanziarie, escluse quelle industriali, riuscirono a evitare cadute
nel tasso di profitto. Ma la crisi della redditività nell'industria
fu così severa da infliggere una caduta del 10% al tasso di profitto
delle società non finanziarie nel loro insieme. Nel 2001, il tasso
di profitto delle società non finanziarie, che aveva già
subito un declino del 19% fra il 1997 e il 2000, registrò una caduta
del 27% dal suo picco del 1997. E fu ancora dal settore industriale che
arrivarono le più potenti spinte al ribasso per l'economia, dato
che gli imprenditori tagliarono senza pietà per recuperare profitti.
Nel 2002, e nella prima metà del 2003, ridussero la produzione rispettivamente
dello 0,4 e del 2,8%, e gli investimenti anche in modo più sensibile,
a una media annua di più del 5%. Soprattutto, ridussero drasticamente
l'occupazione. Fra il luglio 2000 e l'ottobre 2003, gli imprenditori eliminarono
2,8 milioni di posti di lavoro nell'industria contro i 2,45 milioni di
posti di lavoro persi nell'intero settore privato nello stesso periodo.
Questo significa che i settori non industriali dell'economia riuscivano
in quegli stessi anni a guadagnare posti di lavoro. Dal suo picco più
recente del 1997, il settore industriale perse un quinto della sua forza
lavoro. Come conseguenza diretta, il valore totale delle retribuzioni nel
settore industriale, dopo essere aumentato a un tasso medio annuo del 3,8%
fra il 1995 e il 2000, fra la fine del 2000 e la metà del 2003 cadde
a una media annua del 3,1%. Questa caduta delle retribuzioni industriali
spiega la maggior parte del declino delle retribuzioni reali verificatosi
in quel periodo nei comparti non agricoli dell'economia. A causa del suo
persistente effetto negativo sulla crescita della domanda effettiva, la
crisi degli investimenti e dell'occupazione rappresentò il principale
fattore di depressione da quando, nell'ultima parte del 2000, ebbe inizio
il rallentamento dell'economia - e il collasso degli investimenti e dell'occupazione
nel settore industriale è stata, in misura rilevante, la causa di
questa crisi.
3. Una via distorta dell'espansione Verso la metà del 2003,
le riduzioni - di entità storica - dei tassi di interesse di Greenspan
si sono scontrate contro il muro dell'eccesso di capacità produttiva
e dell'indebitamento societario, e sono state incapaci di fronteggiare
la discesa degli investimenti, di stimolare la propensione a contrarre
prestiti da parte delle società o di sollecitare nuovo dinamismo
nell'industria, in particolare sotto forma di crescita dell'occupazione.
La Fed pertanto non ha avuto altra scelta se non quella di tornare a stimolare
la crescita dei consumi per sostenere la ripresa dell'economia. In ciò
ha avuto un certo grado di successo, e l'economia si è mossa paradossalmente
lungo due binari. L'industria ha proseguito una profonda contrazione, le
cui origini risalgono al 1995, e risiedono nell'eccesso di capacità
produttiva ancora esistente, nella crescente concorrenza internazionale
e in un dollaro per lungo tempo sopravvalutato. Al contrario, la maggior
parte del settore non industriale è riuscito a mantenere un'espansione
- ugualmente iniziata a metà degli anni '90, proseguita durante
tutto il boom e il successivo rallentamento - principalmente grazie alla
sempre maggiore disponibilità di credito a basso costo, alla prolungata
ascesa della bolla dei valori patrimoniali, all'impetuosa e illimitata
crescita del debito, all'aumento dei consumi trainato dal facile accesso
al credito, e alla vertiginosa crescita delle importazioni, rese convenienti
dall'alto valore del dollaro.
In qualche misura, le riduzioni dei tassi di interesse attuati da Greenspan
avevano potuto direttamente incoraggiare l'indebitamento e quindi i consumi.
Durante le fasi discendenti dell'economia, è tipico che le famiglie
abbiano più necessità di ricorrere al prestito per coprire
la perdita dei redditi risultante dalla rallentata crescita dei salari
e dalla crescente disoccupazione. Ma proprio perché devono far fronte
alla pressione verso il basso delle loro entrate, le famiglie incontrano
maggiori difficoltà ad aumentare il carico dei debiti che possono
sostenere. Nel 2001, a causa dei licenziamenti e del contenimento dei salari,
il volume delle retribuzioni reali di tutti gli occupati, incluso il pubblico
impiego, cadde dell'1,7% rispetto a quello dell'ultimo trimestre del 2000;
calò di un altro 0,1% nel 2002; ed è cresciuto solo dello
0,4% nella prima metà del 2003. L'intento della Fed è stato
quello di superare i limiti di queste entrate stagnanti resuscitando -
o forse più precisamente, continuando - la strategia degli anni
'90, cioè facendo affidamento sull'`effetto ricchezza' per stimolare
l'economia.
Ancora una volta Greespan ha così cercato di spingere in alto
i prezzi dei titoli, inflazionando la ricchezza cartacea per accrescere
la capacità di contrarre prestiti, e quindi di spendere. Tuttavia,
in conseguenza della profonda caduta della redditività dal 1997
e dei prezzi delle azioni dalla metà del 2000, nonché della
preoccupazione delle società di ridurre l'indebitamento, anche lui
ha dovuto ridurre la forza dell'impulso. La Fed sta ancora cercando di
spingere in alto il mercato azionario per migliorare la condizione finanziaria
delle imprese e più in generale le loro prospettive di mercato.
Ma ha dovuto affidare le sue speranze di stimolare l'economia soprattutto
guidando verso il basso i tassi dei mutui ipotecari e spingendo in alto
i prezzi degli alloggi, così da aprire la via all'indebitamento
e alle spese delle famiglie (compresi gli investimenti in alloggi). Se
ci si ferma a queste condizioni, queste speranze sono state realizzate
in modo spettacolare.
In buona misura grazie alle iniziative della Fed, i tassi di interesse
a lungo termine sono caduti in modo significativo mentre i prezzi delle
case sono saliti precipitosamente. Fra il giugno 2000 e il giugno 2003,
il tasso a 30 anni per mutui a tasso fisso è caduto dall'8,29 al
5,23%, cioè in totale del 37%. Nello stesso intervallo di tempo,
i prezzi delle case sono cresciuti del 7% l'anno, estendendo e accentuando
una tendenza che aveva avuto inizio fra il 1995 e il 2000, quando erano
aumentati a una media annua del 5,1%. Con il valore delle abitazioni in
rapida crescita e con il costo dei mutui radicalmente ridotto, le famiglie
hanno potuto aumentare rapidamente il loro indebitamento, anche se l'economia
stava rallentando, la crescita di salari orari reali declinava e la disoccupazione
cresceva. Già fra il 1998 e il 2000, l'indebitamento delle famiglie
in rapporto alle loro entrate annue, pesava in media il 7,5%, avvicinandosi
ai record storici raggiunti negli anni '80. A iniziare dal 2001, il peso
dell'indebitamento è cresciuto in modo consistente, e durante la
prima metà del 2003, ha superato tutti i record raggiungendo il
12%. La crescita dell'indebitamento delle famiglie ha rappresentato il
70% della crescita totale del debito del settore privato esistente fra
il 2000 e il 2003. Quasi tutto l'ammontare dei prestiti ottenuti in questi
anni dalle famiglie - cioè l'85% - proveniva da mutui ipotecari
resi possibili dall'inflazione dei prezzi delle case e dai ridotti tassi
di interesse; meno del 15% dei prestiti era stato ottenuto attraverso altre
forme di credito al consumo, evidentemente tenute basse dalla stagnazione
dei redditi familiari.
Traendo vantaggio dall'apprezzamento delle loro case e dalla caduta
dei costi del debito, le famiglie sono state capaci di `tirar fuori' enormi
somme dal loro capitale immobiliare - per mezzo di vendite di case, rifinanziamenti
e secondi mutui - svolgendo così fino in fondo il ruolo loro assegnato
di guidare l'economia sostenendo la crescita dei consumi. Fra il 2000 e
la metà del 2003, l'aumento della spesa reale per consumi raggiunse
il 2,8% annuo, nonostante che, come si è rilevato, il totale delle
retribuzioni reali in quello stesso periodo fosse diminuito. La sostenuta
crescita dei consumi, che poggiava sulla crescita dell'indebitamento da
parte delle famiglie, è stato il fattore determinante della crescita
del Pil dal 2000 in poi - ponendo un limite alla precipitosa discesa dell'economia
nel 2001, stabilizzandola nell'inverno fra il 2001 e il 2002, e stimolando
la crescita che si è verificata successivamente. Secondo la contabilità
nazionale, l'incremento dei consumi privati è stata la causa di
quasi tutto l'aumento del Pil verificatosi fra il 2000 e la prima metà
del 2003. La sola variazione di quei consumi ha determinato una crescita
del Pil maggiore del 16% di quella che effettivamente si è realizzata
(5,84 invece di 5,05). Detto in altro modo, quell'incremento di consumi
privati non solo ha compensato l'impatto negativo sulla crescita del Pil
della caduta degli investimenti e del crescente deficit di bilancio commerciale,
ma in aggiunta è stata responsabile del 50% circa della crescita
positiva che si è registrata. Infatti, dopo che la crescita era
caduta allo 0,3% nel 2001, la crescita del Pil ha raggiunto il 2,4% nel
2002 e il 2,35% nella prima metà del 2003 (su base annua).
La Fed sta `scommettendo il banco' sulla previsione che la crescita
dei consumi terrà così a lungo da consentire alle imprese
di liberarsi della loro capacità in eccesso, di ricominciare a investire
e ad assumere, permettendo così all'onnipotente consumatore di prendersi
un riposo. Questo è quel che serve per riportare l'economia a un'apparenza
di prosperità.
Incentivi fiscali Mentre la Fed attuava la sua politica di incentivi
monetari, l'Amministrazione Bush programmava il più grande stimolo
fiscale dopo quello di Ronald Reagan, premendo sul Congresso per ottenere
tagli delle imposte e consistenti incrementi nella spesa militare. Tuttavia
queste misure sono meno efficaci di quanto possa sembrare. La maggioranza
della popolazione ha ricevuto soltanto briciole - sussidi agli stati per
coprire i costi dell'assistenza medica agli anziani, una riduzione delle
tasse per le coppie sposate, un incremento dei crediti d'imposta per la
cura dei figli, e il prolungamento della riduzione delle aliquote prevista
nel Tax Act del 2001. Ma tutte queste misure hanno raggiunto nel 2003 un
valore di soli 35 miliardi di dollari circa e possono garantire al massimo
un'apprezzabile spinta temporanea. Ma il loro impatto su un'economia del
valore di 11.000 miliardi di dollari è destinato ad avere vita breve.
Le restanti riduzioni di tasse riguardano principalmente la diminuzione
della pressione fiscale sui dividendi e perciò favoriscono quasi
esclusivamente i ricchi. L'effetto di questi provvedimenti sarà
quello di incrementare i risparmi e l'acquisto di attività finanziarie
piuttosto che quello di sostenere i consumi, quindi avranno scarse conseguenze
sulla crescita della domanda aggregata. I tagli fiscali a livello federale
avranno l'effetto di ridurre le entrate dei governi degli stati, obbligandoli
a tagliare la spesa e in alcuni casi ad aumentare la tassazione, contrastando,
quasi del tutto, con ogni probabilità, l'incentivo che quei tagli
dovevano fornire.
Sulla scia dell'11 settembre la spesa militare è cresciuta del
6% nel 2001 e del 10% nel 2002, consentendo alle azioni dei nove più
grossi fornitori nazionali della difesa di avere, nell'anno seguente agli
attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono, un risultato migliore del 30%
della media delle società quotate nell'indice di S&P 500 c.
Le spese per la Difesa hanno indubbiamente contribuito alla crescita dell'economia
rappresentando rispettivamente circa il 65 e l'80% dell'aumento totale
della spesa Federale nei due anni. Ciononostante, la crescita della spese
militare ha determinato un incremento del Pil di non più dello 0,75%
nel periodo 2001 e 2002.
Naturalmente, in un momento in cui l'economia decelerava, la combinazione
di consistenti tagli fiscali in favore dei ricchi e di giganteschi incrementi
nella spesa militare ha determinato un disavanzo sempre più profondo
del bilancio federale. Nel 2000, grazie al boom speculativo e alle consistenti
plusvalenze derivanti dall'apprezzamento delle azioni, il bilancio federale
registrava un avanzo di 236 miliardi di dollari. In soli due anni e mezzo,
tuttavia, era caduto nell'enorme disavanzo di 450 miliardi di dollari.
Dato che l'economia era in affanno, i deficit keynesiani erano molto appropriati.
Tuttavia non è sorprendente che il modo in cui l'Amministrazione
ha affondato le finanze pubbliche passate dal surplus al disavanzo sia
stato di scarsa efficacia nello stimolare la crescita economica; infatti
le motivazioni che erano alla base del programma dell'Amministrazione erano
politiche e militari, piuttosto che strettamente economiche.
A causa della sostenuta crescita dei consumi guidata dall'indebitamento
rapidamente crescente delle famiglie e, in qualche misura, del governo,
una buona parte dei settori non industriali dell'economia ha superato la
fase di rallentamento senza danni. Anche nella recessione del 2001, il
saggio di profitto del complesso delle società non finanziarie al
di fuori del settore industriale riuscì a crescere leggermente,
ed è cresciuto ben di più nel 2002 e nella prima metà
del 2003. Se si tiene conto che in questo periodo la produzione industriale
è rimasta pesantemente piatta, il Pil dei settori non industriali
è cresciuto a un saggio medio annuo di più del 3%. Il quadro
dell'occupazione è assai più fosco. Sebbene fra il luglio
del 2000 e l'ottobre del 2003 l'occupazione fuori del settore industriale
sia cresciuta in termini netti di 230.000 unità, la crescita si
è concentrata nelle attività finanziarie (306.000), nel settore
immobiliare (51.000) e nei servizi alla salute e all'educazione (1.515.000).
Se si escludono questi tre comparti, gli altri hanno perso 1.642.000 posti
di lavoro. Rimane il fatto che i settori meglio posizionati per trarre
vantaggio dai decrescenti saggi di interesse, dall'indebitamento accelerato,
dalle crescenti spese di consumo, dalla crescita incontrollata delle importazioni
e dai prezzi crescenti dei beni patrimoniali - principalmente l'edilizia,
il commercio al dettaglio e, soprattutto, la finanza - hanno conseguito
buoni risultati dando una forma ben definita alla traiettoria dell'economia
statunitense nel nuovo secolo.
Edilizia e commercio al dettaglio L'industria delle costruzioni ebbe
il suo più grande boom nel periodo del dopoguerra. L'economia crebbe
ininterrottamente per una dozzina di anni, sollecitando come mai prima
l'offerta di abitazioni. Dalla metà degli anni '90, inoltre, i consumi,
sostenuti da un accesso al credito sempre più facile, sono cresciuti
ancor più rapidamente, amplificando l'impatto della sostenuta espansione
economica sulla domanda di abitazioni. L'inevitabile conseguenza è
stata una spettacolare crescita delle vendite di case e dei prezzi degli
alloggi. Nello stesso tempo, negli ultimi dieci anni, la crescita dei salari
reali nell'edilizia - un settore che ha subito una forte desindacalizzazione
- è stata compressa sotto l'1% annuo. Nei precedenti 15 anni, fra
il 1978 e il 1993, i salari reali nell'edilizia erano diminuiti a una media
annua del 1,1% - che equivale per l'intero periodo al 14%. Il saggio di
profitto nell'industria delle costruzioni è balzato in alto come
mai prima, crescendo di sei volte nel decennio 1991-2001, e raggiungendo
in quell'anno un livello del 50% più alto rispetto a qualsiasi periodo
precedente dal 1945 in poi, compreso il lungo boom del dopoguerra.
La prosperità del commercio al dettaglio, come quella dell'industria
delle costruzioni, è stata costruita su più di un decennio
di tagli salariali. Fra il 1978 e il 1991, le retribuzioni reali in questo
settore erano cadute a un tasso medio annuo dell'1,6%, ossia del 19% in
totale. Nel decennio successivo, i commercianti hanno beneficiato non tanto
dell'espansione generale dell'economia, ma del rapido incremento nei consumi
- un'euforia di spesa alimentata dall'`effetto ricchezza', e sono stati
ulteriormente favoriti dall'inarrestabile crescita del dollaro, che ha
reso meno care le importazioni, creando le condizioni per un afflusso crescente
dalla Cina di prodotti di ogni tipo a prezzi irrisori. Fra il 1995 e il
2002, la Repubblica Popolare Cinese è divenuta il maggior esportatore
verso gli Stati Uniti, tanto che le importazioni di prodotti cinesi sono
cresciute da 44 a 122,5 miliardi di dollari, aumentando a una media annua
del 16%. In questo processo, la Wal-Mart - attualmente la società
più grande del mondo - ha giocato un ruolo notevole: le sue importazioni
rappresentano oggi non meno del 10% di tutte le importazioni dalla Cina,
e il suo import si avvantaggia dell'eccesso di capacità produttiva
presente in molte industrie cinesi per spuntare prezzi sempre più
bassi. Anche molti altri commercianti americani si sono ugualmente gettati
su questo commercio. Fra il 1992 e il 2001, l'occupazione nel commercio
al dettaglio è cresciuta di 2,4 milioni, pari al 19%. Nello stesso
periodo, il tasso di profitto nel commercio al dettaglio è aumentato
ogni anno, per un totale del 57%, compreso un 8% di incremento nel 2001,
anno della recessione.
La finanza L'espansione del settore finanziario si è mossa parallelamente
a quella del settore delle costruzioni e del commercio, ma è stata
di un ordine molto diverso. Nel corso degli anni '90 aveva assunto proporzioni
rivoluzionarie, trasformando la geografia dell'economia americana e estendendosi
ininterrottamente nei primi anni del nuovo secolo. La svolta - che aveva
preso le mosse all'inizio degli anni '80 col passaggio al monetarismo,
gli alti tassi di interesse, il dollaro forte e la deregulation finanziaria
- rappresentò, in particolare, il risultato del fallimento di un
decennio di tentativi di arrestare il declino della redditività
del settore non finanziario - specialmente dell'industria - mediante i
deficit keynesiani e il dollaro basso. Tuttavia, malgrado i passi fatti
nella liberalizzazione del settore finanziario e nonostante i rialzi avvenuti
nel mercato obbligazionario e delle azioni nel corso degli anni '80, il
combinato disposto fra la mania delle acquisizioni e delle fusioni sostenute
dall'indebitamento, la bolla degli immobili commerciali e la crescita dei
prezzi delle azioni aveva prodotto, alla fine del decennio, non solo una
grave crisi delle banche commerciali e di investimento, ma anche delle
altre società non finanziarie.
Tutto ciò cambiò negli anni '90 con il salvataggio del
settore finanziario da parte di Greenspan. Con l'inizio della recessione,
negli anni '90-'91, Greenspan abbassò in modo consistente i tassi
di interesse a breve termine, consentendo alle banche di svolgere la propria
normale politica di finanziarsi a breve a basso costo e di dare in prestito
a lungo termine a un prezzo più alto. Inoltre consentì alle
banche, in violazione dei regolamenti governativi, di conservare enormi
quantità di obbligazioni a lungo termine - che si apprezzarono particolarmente
quando il tasso d'interesse a lungo termine declinò - senza costituire
le riserve destinate a coprire i rischi ad esse associati. I profitti del
settore finanziario si ricostituirono quasi subito, e iniziarono una vertiginosa
ascesa che dura tuttora.
Tutte le più importanti tendenze degli anni '90, sia economiche
che politiche, si mossero in favore della finanza. L'economia reale poté
godere di una crescita continua. La politica di Clinton tesa a perseguire
il pareggio di bilancio, più l'impetuoso rialzo del dollaro sulla
scia del ribaltamento degli Accordi del Plaza - politiche entrambe elaborate
dal suo consigliere economico Robert Rubin, precedentemente direttore generale
alla Goldman Sachs d - ridussero al minimo l'inflazione, difendendo il
rendimento effettivo dei prestiti (e nella stessa misura danneggiando i
rendimenti nell'industria). Clinton e Rubin spinsero la deregulation delle
banche alla sua logica conclusione, aprendo la strada alla crescita delle
banche universali [one-stop financial supermarkets] che potevano svolgere
le funzioni, prima separate, delle banche commerciali, delle banche di
investimento e delle assicurazioni. Soprattutto, la bolla della Borsa offrì
l'opportunità, mai prima verificatasi, di spuntare commissioni e
profitti a palate sia sovrintendendo alle emissioni delle azioni, alle
fusioni e acquisizioni di imprese, sia gestendo la finanza delle società
e i prestiti ai privati. Infine, quando il decennio, e la bolla della Borsa
si avvicinarono al culmine, l'inizio della crescita di acquisti di abitazioni
offrì al settore finanziario l'opportunità di mettere a segno
altri colpi. Fra il 1994 e il 2000, i profitti del settore finanziario
raddoppiarono. Poiché nello stesso periodo, i profitti delle società
non finanziarie aumentarono solo del 30%, i profitti del settore finanziario
in rapporto al totale dei profitti balzò dal 23 al 39%. Così
facendo essi rappresentarono il 75% dell'incremento dei profitti realizzati
da tutte le società in quegli anni.
Né l'esplosione della bolla azionaria, né il rallentamento
dell'economia dal 2000 in avanti, riuscirono a invertire l'ascesa del settore
finanziario. La bolla immobiliare rimpiazzò quella della Borsa,
e i costi decrescenti dei prestiti fecero il resto. I profitti derivanti
dagli affari connessi con i prestiti ipotecari oltre che dal commercio
e dalla sottoscrizione di obbligazioni - il tutto legato ai saggi di interesse
declinanti - permisero alle banche e alle società finanziarie di
continuare a rastrellare sensazionali guadagni, malgrado la forte caduta
dei prezzi delle azioni e la grande riduzione nella crescita dei prestiti
alle società. Fra il 2000 e la prima metà del 2003, il periodo
del rallentamento, i profitti del settore finanziario continuarono ad espandersi
in modo sensazionale sia in termini assoluti che relativi. In questo modo,
secondo Morgan Stanley e, arrivarono a rappresentare quasi il 50% di tutti
i profitti delle società realizzati fra il 2000 e il 2003.
4. Contraddizioni di un'economia guidata dalla bolla La svolta della
Fed, tesa a rendere sempre più facile il credito, portò una
parvenza di ordine nel settore non manifatturiero dell'economia, conseguendo
ulteriori crescite della redditività nell'industria delle costruzioni
e nel commercio al dettaglio e il proseguimento di un espansione epocale
del settore finanziario. Ma questa circostanza si verificò in larga
parte per mezzo, e al costo, del gonfiamento del valore delle attività
finanziarie ben oltre il valore delle attività reali che rappresentavano.
Le conseguenti bolle hanno fornito l'elemento richiesto per mantenere un
indebitamento sempre più grande, in modo da sostenere consumi crescenti
e la ripresa dell'economia. Il risultato è stato che negli ultimi
tre anni la crescita economica degli Usa è stata guidata da incrementi
nella domanda generati molto più da prestiti ottenuti a fronte di
un apprezzamento speculativo dei titoli che da crescenti investimenti e
occupazione, trainati da crescenti profitti.
Dalla metà del 2000 i prezzi delle azioni, naturalmente, caddero
decisamente. Tuttavia, paradossalmente, la loro caduta non li portò
neppure ad avvicinarsi ai valori che sarebbero stati compatibili con il
livello dei profitti sottostanti, poiché questi ultimi erano già
abbondantemente calati. Nell'ottobre 2002, quando i prezzi delle azioni
toccarono il fondo, l'indice composto S&P 500 era del 42% al di sotto
del suo picco del luglio 2000, ma il rapporto fra guadagni e prezzi (cioè
il saggio di rendimento dell'investimento in azioni), che era già
caduto del 48% fra l'inizio del 1995 e il luglio 2000, non crebbe per niente,
rimanendo fermo a circa 3,7 a 1- rendendo evidente che il rendimento annuale
medio delle azioni era meno del 4%. Se la Fed non fosse intervenuta con
una politica di basso costo del credito, i prezzi delle azioni sarebbero
ovviamente caduti molto di più, allineandosi al livello dei guadagni.
Ma il progetto implicito fu di non permettere mai alla bolla del prezzo
delle azioni di esplodere.
Pochi mesi più tardi, quella bolla iniziò una nuova espansione.
Dal marzo 2003, i prezzi delle obbligazioni crebbero e i saggi di interesse
caddero, fenomeno in apparenza connesso alla debolezza dell'economia sottostante.
I prezzi delle azioni decollarono in una nuova ininterrotta ascesa, e negli
otto mesi seguenti l'indice del listino S&P 500 si apprezzò
quasi del 30%: Senza dubbio questo era quanto la Fed aveva sperato. Tuttavia,
nell'estate 2003, secondo il «Financial Times», il rapporto
guadagni-prezzo di S&P 500 era caduto di un altro 10% ossia a 3 a 1,
contro una media storica di circa 7 a 1. La Fed ha avuto successo nell'evitare
un ulteriore peggioramento della situazione economica, ma in questa iniziativa
la sua prima preoccupazione è stata quella di sostenere la bolla
della Borsa per evitare il collasso dei prezzi delle azioni e il conseguente
rallentamento dell'economia. Una correzione significativa avrebbe potuto
condurre l'economia direttamente nel cuore di una recessione.
La bolla immobiliare Così come i prezzi delle azioni dalla seconda
metà degli anni novanta avevano iniziato a correre più velocemente
dei profitti sottostanti e del Pil, anche i prezzi delle case cominciarono
a gonfiarsi. Dal 1975, quando per la prima volta i dati divengono disponibili,
alla fine del 1995, i prezzi delle case erano cresciuti a un saggio approssimativamente
uguale a quello dei prezzi al consumo, rimanendo quindi stabili in termini
reali. Durante la prima metà degli anni ottanta, l'indice dei prezzi
delle case rimase indietro di circa il 5-10% rispetto all'indice dei prezzi
al consumo; lo raggiunse nel 1985, superandolo poi del 13% fra il 1985
e il 1990, e scendendo al suo livello nel 1995. I prezzi reali delle case
nel 1995 erano gli stessi del 1985 e del 1979. Ma fra il 1995 e la prima
metà del 2003, la crescita dell'indice dei prezzi delle case ha
superato l'incremento di quello dei prezzi al consumo di più di
35 punti - un record storico.
La spiegazione di questa bolla sembra del tutto chiara, dato il tempo
in cui si colloca. Man mano che i proprietari delle azioni accumulavano
ricchezza a causa del boom di Borsa, potevano esprimere una domanda di
case più costose più velocemente di quanto potesse crescere
la corrispondente offerta. Quindi, dato che i prezzi delle case crescevano,
gli acquirenti accettavano di pagare somme sempre crescenti per gli immobili,
nel presupposto che il loro valore avrebbe continuato a salire - così
come accadeva nella Borsa. Quando la Borsa crollò e il boom giunse
a fine nel 2000, la bolla immobiliare venne sostenuta in parte dalle riduzioni
del saggio di interesse attuata dalla Fed e anche dal trasferimento di
fondi dalla Borsa al mercato immobiliare, specialmente in presenza di una
netta riduzione dei rendimenti del denaro. Il rialzo dei prezzi delle case
si auto-sostenne, dato che permetteva ai proprietari, nella misura in cui
i saggi di interesse cadevano, di comprare case sempre più costose,
rendendo la corsa della domanda sempre veloce di quella della offerta.
Così, in appena quattro anni, fra il 1995 ed il 1999, la ricchezza
delle famiglie detenuta nella forma immobiliare aumentò del 25%.
Ma nel periodo compreso fra il picco della Borsa del 1999 e il punto di
svolta inferiore del primo trimestre del 2003, i valori immobiliari registrarono
una crescita anche maggiore - la crescita media annua dei prezzi fu più
alta di circa il 5% di quella dei beni di consumo. Infatti, i prezzi delle
case in termini reali aumentarono durante questi tre anni più che
in ogni altro periodo corrispondente. Di conseguenza, mentre il valore
delle azioni (inclusi i fondi comuni) possedute dalle famiglie in questo
breve intervallo affondavano da un valore di 12.200 miliardi di dollari
a 7.150 miliardi - con una caduta di 5.050 miliardi di dollari, pari al
44% - il valore degli immobili residenziali posseduti dalle famiglie crescevano
da 10.400 miliardi di dollari a 13.900 miliardi - con un incremento di
3.600 miliardi, pari al 35%. In tal modo le abitazioni hanno riguadagnarono
il loro precedente posto di principale fonte di ricchezza delle famiglie.
Da questo forte apprezzamento del valore delle loro case, le famiglie
poterono ricavare in vario modo fondi eccezionalmente accresciuti, sia
vendendole a prezzi maggiori rispetto al debito ipotecario, sia rifinanziando
le loro ipoteche, sia ottenendo prestiti garantiti dal valore della propria
abitazione con rilevanti effetti sulla crescita dei consumi e, a sua volta,
del Pil. Fra il 1990 e il 1997, i prestiti ottenuti dalle famiglie a fronte
del proprio capitale ammontarono mediamente a circa 150 miliardi di dollari
all'anno; ma quando negli ultimi tre anni del decennio la bolla degli immobili
residenziali cominciò a gonfiarsi, questa cifra raddoppiò
a circa 300 miliardi di dollari ogni anno dal 1998 al 2000. Nel 2001, 2002
e nella prima metà del 2003 le vendite di case raggiunsero record
senza precedenti arrivando a 6.200 a 6.600 e a 7.000 miliardi di dollari
su base annua. Altrettanto avvenne per il rifinanziamento dei debiti ipotecari,
che raggiunse 1.200 miliardi di dollari nel 2001, 1.600 nel 2002 e 3.000
nel 2003. In questo quadro, negli stessi tre anni, la liquidità
[cash], cresciuta a seguito dei prestiti ipotecari, raggiunse livelli mai
visti: da 420, a 600, a 716 miliardi di dollari rispettivamente nei tre
anni.
Nel 2001, 2002 e nella prima metà del 2003, i prelievi sul capitale
ipotecato ammontarono, rispettivamente, a uno sbalorditivo 5, 7.7, e 9%
del reddito personale disponibile degli Usa - giocando un enorme ruolo
nel sostenere i consumi, in un momento di radicale declino della loro crescita.
Secondo la Fed, le famiglie hanno usato approssimativamente il 50% delle
disponibilità monetarie acquisite [cash-outs] per finanziare le
accresciute spese di consumo: dalle spese per migliorare la casa a quelle
per l'acquisto dei veicoli, a quelle per le vacanze, l'educazione, la sanità
- e, nel caso di famiglie in difficoltà, perfino a quelle di sussistenza.
Quasi un terzo del denaro è stato invece usato per ripagare i debiti
rateali e quelli contratti con le carte di credito, liberando reddito per
ulteriori consumi. Il rimanente denaro è servito a finanziare altri
investimenti, prevalentemente il patrimonio immobiliare, destinati a sostenere
la domanda e i prezzi delle abitazioni, e conseguentemente, il valore del
patrimonio delle famiglie.
Dalla fine del 2000, la crescita della liquidità dovuta al solo
rifinanziamento ipotecario, è stata responsabile almeno del 20%
della crescita totale del Pil. La quota, nel periodo compreso fra il 2000
e la prima metà del 2003, sale ai 2/3 della crescita totale se si
prendono in considerazione anche i finanziamenti derivanti dalle ipoteche
di secondo grado e dalla vendita di case. L'insieme di questi finanziamenti
ha sostenuto la spesa per investimenti residenziali e per il loro arredamento.
Questo significa che, se non ci fossero stati i contributi provenienti
dal settore delle abitazioni, la media annua della crescita in questo periodo
sarebbe stata dello 0,6%, invece che dell'1,7%, il valore effettivamente
realizzato.
Tuttavia è difficile immaginare che si possa contare ancora
per molto su questa quantità di moneta disponibile. Sembra più
probabile una sua contrazione. Infatti, la crescita dei prezzi degli immobili
sembra destinata a perdere di velocità, considerato che i saggi
di interesse sono adesso vicini al punto più basso del dopoguerra
- ed è quindi più probabile che risalgano - il che rende
meno conveniente la liquidazione dei propri risparmi. Esiste inoltre un
altro motivo per attendersi un declino della propensione dei proprietari
di case a prendere a prestito. Infatti, attorno alla metà del 2003,
la quota di proprietà detenuta dalle famiglie sul valore delle loro
case era pari al 54%, contro il 60 del decennio precedente, e il loro grado
di indebitamento in rapporto al loro reddito è salito alla quota
record del 110%, contro il 90 del 1995. Ma se la domanda di prestiti da
parte delle famiglie diminuisce, la crescita delle spese di consumo, finora
chiave dello stato di salute dell'economia, è destinata a ricevere
un duro colpo. Per dirla con la moderazione di Greespan: «Il ritmo
frenetico con il quale le famiglie hanno potuto ricavare finanziamenti
dal valore del patrimonio edilizio nell'ultimo anno (2002) è probabilmente
destinato a calmarsi in modo apprezzabile, con il possibile effetto di
diminuire il sostegno agli acquisti di beni e sevizi».
Sopravalutazione del dollaro e disavanzo della bilancia delle partite
correnti con l'estero Gonfiando la spesa di consumo, in particolare attraverso
la bolla immobiliare sostenuta dall'indebitamento, la politica di credito
facile praticata dalla Fed consentì che durante il periodo compreso
fra il 2000 e la metà del 2003 le importazioni degli americani crescessero
proprio mentre le esportazioni Usa declinavano in seguito all'indebolirsi
del potere di acquisto nella maggior parte del resto del mondo. La conseguenza
fu di prolungare e approfondire un modello di sviluppo economico internazionale
che risale alla prima metà degli anni '80, in cui una rapida crescita
delle importazioni manifatturiere degli Stati Uniti e il disavanzo della
loro bilancia commerciale ampliavano il deficit della bilancia corrente
dei pagamenti e accrescevano le passività verso l'estero, alimentando
nella maggior parte del mondo, e soprattutto nell'Asia Orientale, un sistema
di crescita basato sulle esportazioni.
Questo modello fu inaugurato nel 1979-1980 quando a livello internazionale
si passò dall'espansione keynesiana alla contrazione monetarista
come strumento per opporsi alla ridotta redditività che continuava
ad attanagliare le economie capitalistiche avanzate, in particolare nel
settore industriale. Il salto nei tassi di interesse che ne seguì,
la riduzione nella crescita delle spese sociali e la repressione della
crescita del salario incoraggiavano il ridimensionamento della capacità
produttiva in eccesso, costosa e poco redditizia e, in tal modo, si proponevano
di contribuire alla ripresa della redditività nell'intero sistema.
Ma queste stesse forze provocarono una marcata diminuzione nella crescita
della spesa pubblica e della spesa in consumi, che, in combinazione con
la ridotta crescita dell'investimento, tagliò la domanda aggregata
inibendo ogni risalita della redditività e approfondendo il rallentamento
dell'economia. Di fronte alla stagnante domanda interna e agli ulteriori
freni posti alla spesa in disavanzo derivanti dalla deregolamentazione
finanziaria, nella maggior parte dei paesi capitalistici avanzati la crescita
venne a essere sempre più dipendente dall'accrescersi delle esportazioni.
Ma la generalizzazione, sempre più estesa nel mondo, a far dipendere
la crescita dalle esportazioni, ebbe soltanto l'effetto di esasperare la
sottostante tendenza verso un eccesso di capacità produttiva nell'industria
internazionale, che, se lasciata a se stessa, avrebbe, prima o poi, portato
all'arresto dell'economia mondiale:
Sullo sfondo di questa generale stagnazione, la crescita impetuosa
del debito statunitense, combinata con un dollaro vertiginosamente apprezzato,
divenne il motore centrale dell'economia mondiale. Per esemplificare, dall'inizio
degli anni '80 il sistema avanzò in ragione dell'espansione del
disavanzo delle partite correnti statunitensi, che da un lato portò
gli Stati Uniti ad accumulare sempre maggiori passività verso il
resto del mondo, e dall'altro a incrementare l'eccesso di capacità
nell'industria internazionale. Fino al 1979-1980, gli Stati Uniti realizzarono
surplus nel commercio dei manufatti e negli scambi commerciali in genere,
se si escludono le importazioni di combustibile. Ma dal 1981 in avanti,
i saggi di interesse statunitensi salirono al cielo, il dollaro decollò
e il deficit, sia quello del bilancio Federale che quello privato, registrò
ogni anno nuovi record. Con il risultato che il settore industriale degli
Stati Uniti subì la più grave crisi dal dopoguerra. Dal 1987,
con le esportazioni stagnanti e le importazioni che crescevano vertiginosamente,
la bilancia commerciale del settore manifatturiero andò in rosso
per un importo record di 120 miliardi di dollari e il disavanzo della bilancia
delle partite correnti raggiunse un inaudito 3,4% del Pil. Il rovescio
della medaglia fu che le crescenti importazioni manifatturiere degli Stati
Uniti ebbero un ruolo centrale nel tirar fuori dalla profonda recessione
dell'inizio degli anni '80 l'economia mondiale, e nel consolidare una nuova
ripresa ciclica.
Quanto fossero indispensabili l'indebitamento Usa e la rivalutazione
della sua moneta per il dinamismo dell'economia internazionale fu dimostrato
fino in fondo da quanto accadde a partire dalla seconda metà degli
anni '80. Quando, a partire dal 1985, il dollaro iniziò a cadere
precipitosamente; quando, con la recessione del 1990-91, l'indebitamento
privato temporaneamente collassò, e quando, dal 1993, il disavanzo
pubblico cominciò a contrarsi, il disavanzo commerciale del settore
manifatturiero cadde ad appena 57 miliardi di dollari come media degli
anni 1992 e 1993 e il disavanzo nelle partite correnti fu temporaneamente
annullato. La conseguenza fu che, durante la prima metà degli anni
novanta, le economie capitalistiche avanzate sperimentarono il loro peggior
risultato dell'intero periodo del dopoguerra (ad esclusione degli Stati
Uniti e dei paesi di nuova industrializzazione dell'Est asiatico le cui
valute erano legate al dollaro).
Fra la metà degli anni '90 e la fine del secolo si verificò
anche un altro capovolgimento. Lo sbalorditivo rialzo dei prestiti - basato
sulla bolla della Borsa - alle società e alle famiglie, combinato
a un nuovo decollo del dollaro, si sostituì nel ruolo che aveva
avuto il disavanzo pubblico nell'alimentare la domanda necessaria per guidare
non solo l'economia statunitense, ma anche quella internazionale, suscitando
una vera ondata di importazioni manifatturiere da parte degli Stati Uniti.
Queste importazioni crebbero in sette anni di oltre due volte passando
da 480 miliardi di dollari nel 1993 a 1000 miliardi di dollari nel 2000,
incrementando del 50% la loro quota della produzione manifatturiera. Già
dal 1995, il deficit commerciale del settore manifatturiero era balzato
a 145 miliardi di dollari. Raggiunse 271 miliardi nel 1999, crescendo fino
ai 369 miliardi del 2002, contribuendo così, da solo, al 60% del
titanico incremento del disavanzo delle partite correnti fra il 1995 e
il 2002, e arrivando a rappresentare nel 2002 i tre quarti della sua cifra
assoluta.
Nella seconda metà degli anni novanta il disavanzo delle partite
correnti quadruplicò in valore assoluto e triplicò come quota
del Pil, stabilendo quasi ogni anno nuovi record. Fra il 2000 e la metà
del 2003 crebbe di un altro 20% arrivando a 544 miliardi, cinque volte
il livello del 1995. Con questo andamento, il disavanzo da un lato aggravò
le difficoltà del settore industriale americano e dall'altro fornì
un indispensabile stimolo al resto dell'economia mondiale: tirando fuori
dopo il 1995 il Giappone e l'Europa dalla stagnazione, salvando gran parte
dell'Asia Orientale (e il resto del mondo) dal quasi collasso del 1997-1998;
salvando l'America Latina dalle profonde crisi del 1994-95 e del 1998-99;
tenendo, infine, a bada la depressione mondiale dal 2001 a oggi.
Naturalmente, la crescita del disavanzo delle partite correnti è
stata a sua volta resa possibile dalla decisione del resto del mondo di
detenere una quantità sempre crescente di passività finanziarie
e di valori patrimoniali degli Stati Uniti, in realtà finanziando
la crescita dei consumi degli americani che permetteva alle loro esportazioni
e alla loro produzione di continuare a crescere. Durante il boom e la bolla
della seconda metà degli anni '90 gli investitori esteri erano più
che contenti di finanziare il disavanzo delle partite correnti degli Stati
Uniti. Nell'aspettativa di alti profitti delle società e di un apprezzamento
illimitato dei valori patrimoniali, essi fecero massicci investimenti diretti
e comprarono enormi quantità di azioni e obbligazioni, contribuendo
a spingere la valuta sempre più in alto - una sopravvalutazione
del dollaro che accompagnò, e in gran parte causò, la bolla
dei prezzi delle azioni. Fra il 1995 e il 2000, quando il disavanzo delle
partite correnti esplose, il totale delle attività patrimoniali
lorde detenute dal resto del mondo aumentò da 3.400 a 6.400 miliardi
di dollari pari al 75% del Pil degli Stati Uniti. Ma quando, dalla metà
del 2000, l'economia statunitense iniziò a rallentare e la Borsa
statunitense a declinare, gli investitori privati del resto del mondo trovarono
le attività americane meno attraenti. Gli acquisti di obbligazioni
del Tesoro e delle società, oltre che le obbligazioni vendute da
agenzie quali Fannie Mae e Freddy Mac, continuarono a crescere vivacemente.
Ma sia gli acquisti di azioni che gli investimenti diretti da parte degli
investitori esteri caddero bruscamente - i primi da una media di 153 miliardi
di dollari, nel 1999 e 2000, a una media di 65 miliardi fra il 2001 e la
prima metà del 2003; i secondi, declinando da 306 a 86 miliardi
di dollari nello stesso periodo. In particolare furono gli europei a fuggire
dalle attività statunitensi. Dopo aver raggiunto, nell'ottobre del
2000, il picco di 115,6 miliardi di dollari, gli acquisti da parte dei
paesi dell'eurozona di azioni americane collassarono a 4,9 miliardi nei
primi quattro mesi del 2003. Il risultato fu inevitabilmente quello di
una pressione sul dollaro verso il basso, pressione accresciuta dai più
alti saggi di interesse in Europa. Fra l'inizio del 2001 e la metà
del 2003 il dollaro cadde rispetto all'euro del 37% e del 27 nel solo periodo
compreso nei primi sei mesi del 2003.
Il declino del dollaro rispetto all'euro tenderà, rimanendo
invariata ogni altra circostanza, a rendere agli Stati Uniti più
facile esportare e più difficile importare. Tuttavia, nella situazione
attuale questa svalutazione può non essere in grado di realizzare
importanti miglioramenti nel disavanzo commerciale e in quello delle partite
correnti, e rischia di indebolire le economie europee. Un peggioramento
della recessione nell'Unione Europea ridurrebbe la domanda di merci statunitensi,
controbilanciando di molto i benefici che gli esportatori americani si
attendono dalla svalutazione del dollaro. Fra il 2001 e la prima metà
del 2003, il disavanzo commerciale degli Stati Uniti con l'Europa è
aumentato di oltre un quarto, da 34,3 a 43,4 miliardi di dollari. Nell'ipotesi
che il dollaro continui a cadere per rispondere a questo crescente gap,
la Fed si potrebbe trovare di fronte a una scelta angosciosa: lasciar cadere
il cambio e rischiare una massiccia liquidazione di attività statunitensi
da parte degli investitori stranieri - che potrebbe provocare una rovina
nel mercato azionario e mettere in moto una fuga dal dollaro - oppure rialzare
i saggi di interesse e rischiare di sospingere l'economia Usa nella recessione.
Le politiche dei paesi dell'Asia Orientale Di fatto, finora, il declino
del tasso di cambio del dollaro, ponderato sulla base del commercio estero
complessivo, è stato limitato a circa l'11%, dato che la sua svalutazione
è avvenuta quasi interamente nei confronti dell'euro e solo in piccola
parte nei confronti delle valute dell'Asia Orientale. E ciò nonostante
che l'Asia Orientale abbia pesato sul disavanzo commerciale e delle partite
correnti statunitensi per una quota sproporzionata, che è cresciuta
sopra i 100 miliardi di dollari l'anno con Cina e Giappone. La ragione
per cui il dollaro ha tenuto nei confronti delle valute dell'Asia Orientale
va ricercata nel fatto che, guidati da Cina e Giappone (e includendo Corea
del Sud e Hong Kong), i governi dell'Asia Orientale hanno praticato da
lunga data una politica tesa a riciclare i loro surplus in attività
denominate in dollari in modo da mantenere basse le loro valute. Oggi,
l'Asia Orientale detiene riserve in dollari per un ammontare di 1.600 miliardi
di dollari, pari al 70% delle riserve mondiali di dollari, contro il 30%
nel 1990. Quando gli Stati Uniti entrarono nella fase di rallentamento,
e il disavanzo delle partite correnti crebbe ancora, Cina, Giappone, Corea
del Sud e Hong Kong intervennero sul mercato valutario come mai prima,
accrescendo, nel breve periodo compreso fra dicembre 2001 e giugno 2003,
la loro proprietà di titoli di Stato statunitensi da 512 a 696 miliardi
di dollari. In verità, nei primi dieci mesi del 2003, si stima che
il Giappone e la Cina, da soli, abbiano coperto il 55% del disavanzo delle
partite correnti, comprando rispettivamente un valore di 150 e 100 miliardi
di dollari.
Naturalmente, i governi dell'Asia Orientale non hanno seguito questa
condotta per ragioni altruistiche, ma per sostenere la rapida crescita
delle loro esportazioni manifatturiere verso gli Stati Uniti. Tuttavia,
colmando il crescente gap finanziario che sarebbe derivato dalla crescente
disparità fra le esportazioni e importazioni Usa, i governi di questi
paesi hanno realizzato praticamente la stabilizzazione dell'economia statunitense.
Senza i loro acquisti, le politiche iperespansive perseguite dalla Fed
e dall'Amministrazione Bush, si sarebbero tradotte quasi certamente in
una maggiore caduta del dollaro, portando a un declino dei prezzi delle
attività patrimoniali, al rialzo del costo dei prestiti, e precipitando
nella recessione le economie degli Stati Uniti, dell'Asia e del resto del
mondo. Tuttavia è improbabile che questa complementarietà
possa essere sostenuta a lungo.
Anche se i governi dell'Asia Orientale potessero e volessero continuare
a comprare attività patrimoniali denominate in dollari per mantenere
basso il cambio - e così sostenere le loro esportazioni - questo
processo non potrebbe durare a lungo. Infatti, il risultato sarebbe quello
di comprimere le esportazioni statunitensi e aumentarne le importazioni.
Il disavanzo sarebbe quindi spinto ancora più in alto, comportando
sempre maggiori investimenti in attività finanziarie Usa. Circostanza
che avrebbe minacciose implicazioni per l'economia Usa e degli altri paesi.
Da un lato, l'influsso dei finanziamenti dell'Asia Orientale sui mercati
finanziari degli Stati Uniti, spingendo in basso il costo dei prestiti,
tenderebbe, direttamente o indirettamente, ad alimentare la preesistente
bolla dei prezzi delle azioni e del patrimonio immobiliare. Dall'altro
lato, la crescita delle esportazioni asiatiche - gonfiata sia dal dollaro
alto che dalla domanda statunitense sovvenzionata dal governo - indebolirebbe
ulteriormente l'industria statunitense, e nello stesso tempo aggraverebbe
l'eccesso di capacità produttiva su scala internazionale. Si tratta
degli stessi sintomi - prezzi delle attività patrimoniali crescenti
ed eccesso di capacità produttiva nel settore manifatturiero - che
hanno assillato l'economia mondiale, e la sua componente Usa, durante il
boom sostenuto dalla bolla e il successivo rallentamento. Si tratta di
un sentiero minato, in cui la inesorabile crescita degli obblighi degli
Stati Uniti verso il resto del mondo permette alle altre economie di crescere
attraverso le esportazioni, che si realizzano a spese del potere produttivo
degli Stati Uniti e quindi della loro capacità di onorare quegli
obblighi; un processo che ha già portato a un crash della Borsa
e a una recessione.
5. Una base per un nuovo boom?
Fra la metà del 2000 e la metà del 2003, al fine di sostenere
l'economia, mentre essa stava liberandosi dell'eccesso di capacità
produttiva e cominciava di nuovo a investire e creare occupazione, le autorità
economiche hanno dato vita al più grande impulso macroeconomico
nella storia degli Stati Uniti. La Fed, comprese le riduzioni del novembre
2002 e del giugno 2003, è arrivata ad abbassare il suo saggio a
breve termine dal 6,5 all'1%, che rappresenta il livello più basso
dal 1958. Nello stesso periodo, il bilancio federale è passato da
un surplus dell'1,4% del Pil a un deficit programmato del 4,5%, pari a
450 miliardi di dollari. Sempre durante lo stesso periodo, il valore del
dollaro, ponderato sulla base degli scambi commerciali, è caduto
più del 10%. Ma l'economia, malgrado questa spinta gigantesca, a
malapena si è mossa. Nella prima metà del 2003 le spese reali
su base annua in impianti, attrezzature e software, non sono cresciute
e l'incremento su base annua del Pil, pari al 2,35%, è stato leggermente
più basso che nel 2002. In verità avrebbe potuto essere più
basso di un terzo, ossia dell'1,5%, se non fosse stato per il forte e insostenibile
balzo nella spesa militare per l'Iraq, che ha giustificato più della
metà della crescita del 3,3% dell'economia nel secondo trimestre
dell'anno. Nel frattempo, la disoccupazione è cresciuta al 6,2%
- sopra l'8% se si considerano anche le persone scoraggiate dal cercare
lavoro - e i posti di lavoro hanno continuato a sparire a un saggio allarmante.
Nel luglio 2003, l'economia nei settori non agricoli ha perso 57.000 posti
di lavoro - dopo che ne aveva persi 83.000 e 76.000 rispettivamente in
giugno e maggio - e l'occupazione non agricola è caduta di 358.000
unità sotto il livello che aveva nel luglio 2002. La disparità
fra l'impulso e il risultato sembra essere una diretta espressione di debolezza
dell'economia reale - ossia del persistere di problemi di eccesso di capacità
e di fragilità finanziaria delle società.
Nell'autunno del 2003, tuttavia, l'economia stava accelerando. Il Pil
ha avuto un balzo in avanti a un tasso dell'8,2% su base annua, la più
forte crescita trimestrale dal 1984. Ugualmente significativa è
stata la crescita dei posti di lavoro a un ritmo di più di 100.000
unità in settembre e in ottobre. Per completare il quadro, gli investimenti
non residenziali sono cresciuti a un tasso del 14%, il maggiore dall'inizio
del 2000. È sembrato che l'economia improvvisamente decollasse.
L'accelerazione attuale Il terzo trimestre del 2003 ha segnato l'inizio
di una svolta ciclica sostenuta. Tuttavia, malgrado le cifre spettacolari,
non è chiaro se la crescita dell'economia statunitense nel terzo
trimestre abbia spezzato in modo definitivo la sua dipendenza da bolle,
indebitamenti e consumi. Ancora una volta, la spettacolare crescita dei
consumi del 6,4% - compreso un enorme aumento del 26,9% in consumi di beni
durevoli - ha rappresentato il cuore dell'espansione e, insieme alla crescita
degli investimenti residenziali, ha determinato il 75% dell'incremento
totale del Pil. Che cosa ha guidato il consumo privato? Certamente non
le retribuzioni reali orarie (escluse quelle da lavoro autonomo), che sono
cadute nel trimestre di uno 0,2%, con il risultato che il totale delle
retribuzioni reali nel primo trimestre del 2003 sono, su base annua, in
leggera flessione rispetto al 2002. A portare denaro nelle tasche dei consumatori
sono state soprattutto le enormi entrate dai finanziamenti ipotecari. Durante
la prima metà del 2003, queste sono cresciute a circa il 7% del
Pil, e devono aver giocato un ruolo centrale nell'euforia di spesa del
terzo trimestre. Gli sconti fiscali decisi dall'Amministrazione Bush per
il 2003 sono stati ugualmente decisivi, facendo arrivare nelle tasche dei
consumatori circa 25 miliardi di dollari nel terzo trimestre - pari a un
imponente ammontare di 100 miliardi di dollari su base annua. Mentre il
reddito personale prima delle tasse è cresciuto durante questo trimestre
dell'1%, quello al netto delle tasse è cresciuto di uno sbalorditivo
7,2%.
Cosa è accaduto agli investimenti, che sono in ultima analisi
la variabile decisiva? Un aumento del 14% è di per sé notevole
e, preso in relazione all'aumento del 7% del precedente trimestre, potrebbe
essere di buon auspicio per il futuro. Tuttavia, buona parte di questo
aumento era certamente guidato dalle leggi fiscali del 2003, che consentono
alle imprese di aumentare la quota annuale di ammortamento sugli investimenti
effettuati entro la fine del 2004. In ogni caso, gli investimenti fissi
non residenziali sono stati, nel terzo trimestre, soltanto del 4,1% (su
base annua) più alti che nel 2002, ma sono più bassi dell'1,8
e del 6,9% rispetto a quelli del 2001 e 2000. Non è ancora sicuro
che ci si trovi di fronte a un boom degli investimenti. L'apprezzabile
incremento dell'occupazione nel terzo trimestre, che arriva dopo tre anni
di declino costante, è stato indubbiamente il segno più promettente
per l'economia, e forse rappresenta un segnale di svolta. Tuttavia quegli
investimenti non sono ancora sufficienti per incidere sulla creazione di
nuovi posti di lavoro, quindi per ridurre la disoccupazione; e comunque
per determinare un significativo incremento delle retribuzioni reali totali,
tale da far crescere la domanda. Chiaramente c'è ancora molta strada
da fare per recuperare la maggiore perdita di occupazione del periodo del
dopoguerra. Nei 23 mesi successivi alla fine ufficiale della recessione
nel novembre 2001, l'occupazione nel settore privato è caduta di
ulteriori 919.000 unità, e quasi tutti i settori sono stati interessati
da pesanti perdite. Se non fosse stato per un recupero di 753.000 posti
nei servizi dell'istruzione e della salute, le perdite di posti di lavoro
in questo periodo di apparente ripresa sarebbero state ben superiori a
1,5 milioni. Nell'analoga situazione del gennaio-febbraio del 1993, la
ripresa dalla caduta dell'occupazione, dopo la crisi del 1990-1991 fu più
accentuata, l'economia creò 277.000 posti di lavoro al mese, più
del doppio dei 125.000 dei mesi di settembre e ottobre 2003.
Un aumento durevole della redditività?
Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una ripresa sostenuta
nelle spese per impianti e attrezzature e negli impieghi è, naturalmente,
un consistente e duraturo aumento della redditività - il fattore
critico mancante nel boom degli anni '90. In effetti, finora, la redditività
è aumentata consistentemente rispetto al suo punto più basso
- molto più rapidamente che non nel periodo immediatamente successivo
alla recessione del 1990-91. Il tasso di profitto per le imprese non finanziarie
per i primi tre trimestri del 2003 ha raggiunto un livello superiore del
21% rispetto a quello del 2001, e inferiore solo del 10% rispetto al picco
del 1997, portandosi vicino al livello medio di redditività dell'intero
ciclo di attività economica degli anni '90. Questo elemento rappresenta
uno sviluppo significativo. È necessario ricordare, tuttavia, che
il tasso medio di profitto degli anni '90 non era in misura apprezzabile
superiore al livello degli anni '70 e '80, rimanendo di circa il 20% sotto
i livelli del boom del dopoguerra, e si dimostrò insufficiente a
tirarsi fuori definitivamente dalla lunga discesa. Per sostenere un nuovo
boom mediante duraturi incrementi degli investimenti e dell'occupazione,
è necessario che l'impressionante ascesa della redditività
che iniziò nella metà degli anni ottanta, per poi naufragare
nella metà degli anni novanta, riprenda a crescere dal punto al
quale si era arrestata. La domanda che si impone è se l'attuale,
per ora dinamica, ripresa dei tassi di profitto può continuare e
rappresentare la base per incrementi sostenuti negli investimenti e nell'occupazione
- dato che, fino a questo punto, ha poggiato principalmente sull'incremento
dello sfruttamento della forza lavoro statunitense, la più vulnerabile
del mondo capitalistico avanzato.
Con una crescita della produzione fin qui inesistente, l'aumento della
redditività è stato principalmente dovuto al crescere della
differenza fra il prodotto e il salario orario dei lavoratori. La crescita
della produzione oraria è stata veramente impressionante - il 5,4%
nel 2002, il 4,35% per la prima metà del 2003 e il 5% per i primi
tre trimestri del 2003 nelle società non finanziarie, contro il
2% nel 2001. Mentre negli stessi periodi i salari reali orari sono cresciuti
rispettivamente soltanto dell'1,9 e dello 0,9%, dopo essere cresciuti dello
0,3% nel 2001. Alcuni dei più ascoltati analisti stanno perciò
già affermando che il miracolo della crescita della produttività,
che non si era del tutto manifestato negli anni '90 - malgrado la sensibile
accelerazione della produzione oraria - è già in atto. Con
ciò sottintendendo che, se tutto il resto permane invariato, è
stata aperta una via verso una lunga ripresa della redditività.
Ma una tale deduzione ci appare quanto meno prematura. Il suo tallone
di Achille è evidente: finora, gli incrementi di produzione oraria
si sono verificati a fronte di un apprezzabile declino nella crescita degli
investimenti, cioè a fronte di una più lenta introduzione
di maggiori e migliori impianti, attrezzature e software. Fra il 1995 e
il 2000, lo stock di capitale nel settore delle società non finanziarie
è cresciuto a una percentuale del 3,9% annuo, ma era in grado di
apportare avanzamenti tecnologici sufficienti a ottenere incrementi nella
produzione oraria annua di un 2,6%. Ma è veramente credibile che,
a fronte di una riduzione di più del 50% del saggio di crescita
dello stock di capitale nel 2001, 2002 e nella prima metà del 2003
(passato all'1,8%) improvvisamente l'avanzamento tecnologico abbia determinato
incrementi di produttività di almeno il doppio? L'ovvia e più
plausibile spiegazione alternativa è che gli incrementi di produttività
registrati non siano tanto il risultato dell'innovazione tecnologica quanto
piuttosto il risultato dell'intensificazione del lavoro. Una simile intensificazione
del lavoro si è tradotta non solo in più alti profitti ma
- e in modo veramente significativo - in più alti saggi di profitto,
dato che i profitti addizionali sono ottenuti senza la necessità
di una quantità addizionale di capitale. In effetti, nel 2002 e
nella prima metà del 2003, lo stock di capitale delle società
non finanziarie (in termini nominali) era cresciuto in modo insignificante,
il che sta a significare che, di fatto, l'intera crescita di redditività
di questo periodo è stata ottenuta senza costi in termini di attrezzature
e impianti.
Occupazione e investimenti Quel che sembra sia successo è che,
al fine di tagliare i costi, le imprese abbiano decisamente ridotto l'occupazione
- del 2,1% all'anno fra il 2000 e la prima metà del 2003 nel settore
non finanziario dell'economia - disfacendosi dei lavoratori meno produttivi
e conseguentemente alzando la produttività media di quelli rimasti.
Sulla scia di questi tagli, gli imprenditori hanno ottenuto l'ulteriore
incremento nella produzione oraria costringendo i lavoratori rimasti a
intensificare il loro lavoro. Appare sintomatico che i più alti
incrementi settoriali della produttività nel 2002 - pari al 6,4%
- si sono registrati nel settore industriale, dove la produzione è
scesa dell' 1,1% contro una riduzione della forza lavoro molto più
accentuata: l'occupazione misurata in ore lavoro ha avuto un declino del
7%. Come, senza molti giri di parole, sostiene «Business Week»,
«dopo diverse false partenze, molti capitani di industria si mantengono
cauti, specialmente quando si tratta di assumere. Finora le imprese sono
state in grado di far fronte agli ordinativi dei loro prodotti facendo
lavorare più duramente i loro dipendenti».
Cionondimeno, è problematico che le imprese possano aumentare
i loro profitti attraverso una ulteriore intensificazione del lavoro. E
quando le imprese dovranno iniziare a ottenere incrementi di produttività,
e quindi dei loro profitti, attraverso nuovo capitale sarà più
difficile conseguire miglioramenti del saggio di profitto. Al tempo stesso,
più licenziamenti, maggiore intensificazione dei ritmi e minori
incrementi di salari possono solo aggravare l'indebolimento della domanda
aggregata che aveva sospinto l'economia americana verso il basso, scoraggiando
gli investimenti. Nei 22 mesi successivi alle sei recessioni precedenti,
l'occupazione è cresciuta a una media del 5% e le retribuzioni totali
del 9%. Adesso, dopo l'ultima recessione, dal novembre 2001 a oggi, ossia
nello stesso spazio di tempo, l'ammontare delle paghe [payrolls] dei settori
non agricoli si è ridotto di circa l'1%, lasciando invariate le
retribuzioni [compensation] reali dei settori non agricoli.
La stagnazione della domanda è da ricercarsi non solo nell'eliminazione
di posti di lavoro e nella riluttanza a investire, ma anche nel debole
andamento della creazione di nuova occupazione. Nel corso del 2002, le
perdite di posti di lavoro rallentarono sensibilmente. Ma altrettanto fece
la tendenza a creare nuova occupazione. In effetti il numero di posti creati
nel 2002 è stato inferiore a quello verificatosi nel 2001, anno
della recessione, calando al suo livello più basso dal 1995. Nelle
precedenti fasi di recessione del dopoguerra, che sono sempre state guidate
dalla contrazione della domanda determinata dalle strette monetarie della
Fed, le imprese tendevano a mantenere legami stretti con i precedenti occupati,
in attesa che la domanda riprendesse. I licenziamenti così tendevano
a essere `ciclici' con una rapida creazione di posti lavoro appena era
passata la recessione, creando così domanda per un'ulteriore crescita
dell'occupazione. Negli ultimi sei cicli economici, nella ripresa che seguiva
la fase recessiva, una media del 50% della crescita dell'occupazione avveniva
nelle stesse industrie che prima avevano licenziato. Questo modello non
si è ripetuto nell'attuale congiuntura. Le industrie che avevano
perso posti di lavoro durante la recessione hanno continuato a perderli
nella fase di ripresa, mentre ben il 70% delle nuove assunzioni si sono
verificate in imprese diverse da quelle che avevano licenziato. Chiaramente
è molto più rischioso creare posti di lavoro completamente
nuovi che ripristinare quelli precedenti.
Un modello come questo è quel che ci si può aspettare
dopo un rallentamento come quello attuale, che deriva da un più
lungo periodo di eccesso di capacità nella produzione industriale,
ed è aggravato dall'`effetto ricchezza' generato dalla bolla delle
attività patrimoniali cresciuta nel periodo che va dal 1995 al 2000.
Nel corso degli anni '90, i posti di lavoro erano stati creati in misura
così elevata che, se si eccettua un breve periodo, non era pensabile
che potessero essere sostenuti dalla crescita della domanda. Le industrie
dell'alta tecnologia, che, da sole, rappresentavano l'8% del Pil, durante
la seconda metà degli anni '90 avevano determinato un terzo del
suo incremento totale. Una parte consistente di questa produzione divenne
superflua - invendibile con profitto -, con la conseguenza che nel 2002
e 2003 sono stati persi 750.000 posti di lavoro, equivalente al 12% dell'occupazione
totale esistente in quelle industrie alla fine del 2001. Molti di questi
posti non verranno successivamente ricreati e, fra quelli che vengono ricreati,
un numero significativo riappare all'estero come conseguenza dell'outsourcing.
Non si trasferiscono all'estero soltanto linee di produzione che richiedono
lavoro a basso costo, come in Cina; ma, grazie all'informatizzazione e
allo sviluppo delle comunicazioni, si delocalizzano anche attività
svolte dai colletti bianchi e nei settori dei servizi, soprattutto verso
l'India. Conseguentemente, negli Stati Uniti si dovrebbe creare una serie
di lavori completamente nuovi. Ma da dove nascerà la domanda corrispondente,
visto che a sua volta la domanda dipende dal livello di occupazione? Apparentemente
l'economia si trova davanti al problema di un maggior coordinamento, dato
che le industrie della new economy, che avrebbero dovuto fare l'andatura,
si dimostrano del tutto incapaci di svolgere questo ruolo.
I forti incentivi della Fed possono aver aggravato il problema, frenando
il ridimensionamento, attraverso fallimenti e fusioni, delle imprese che
avevano alti costi e bassi profitti. Nel terzo trimestre del 2003, dopo
quasi tre anni di rallentamento, l'utilizzazione della capacità
produttiva nell'industria stazionava al 72,9% (con l'high-tech ben al di
sotto). Un livello più basso rispetto agli altri trimestri del 2001
e 2002 - e anche più basso di ogni altro trimestre del dopoguerra,
eccetto il periodo 1982-1983 e l'anno 1975. Questo elemento, ovviamente,
frena le motivazioni a investire in nuovi impianti, apparecchiature e software
- e senza dubbio a fare altre assunzioni.
6. Conclusioni Durante i primi sei mesi del 2003, l'economia annaspava.
Quando sembrò che la Fed si orientasse a tenere basso il costo dei
prestiti, i saggi di interesse a lungo termine caddero avvicinandosi ai
bassi livelli del dopoguerra, e gli investitori si rivolsero al mercato
delle obbligazioni alla ricerca di più alti rendimenti. Ma quando,
tirato il fiato dopo una campagna tesa a fronteggiare la diminuzione dei
prezzi, la Fed improvvisamente espresse il parere che le prospettive economiche
stavano migliorando, il mercato delle obbligazioni, fino ad allora investito
da un'eccedenza di acquisti, ebbe una violenta inversione ad u e i saggi
a lungo termine schizzarono in alto con una rapidità che non si
vedeva da molti anni. Passata l'estate, i prezzi delle obbligazioni si
stabilizzarono. Rimaneva tuttavia la preoccupazione che questo potesse
essere soltanto l'inizio - ossia che i saggi di interesse si sarebbero
non solo assestati, ma avrebbero continuato a salire nella misura in cui
una crescita più rapida avesse provocato inflazione e maggiore necessità
di credito. Se così fosse stato, la crescita dei saggi di interesse
avrebbe causato una situazione di grave rischio relativamente ai valori
di Borsa e ai prestiti ipotecari, minacciando di complicare la ripresa.
Sfidando le pessimistiche previsioni del mercato delle obbligazioni,
la Borsa è cresciuta senza sosta durante la maggior parte del 2003.
L'indice S&P 500 ha registrato, fra il basso livello del febbraio-marzo
e quello dell'ottobre 2003 un considerevole incremento del 33%, contribuendo
in modo significativo a spingere in alto la fiducia. In tal modo il rapporto
fra il prezzo e il rendimento è volato sopra un rapporto di 35 a
1, ossia un rapporto molto prossimo a quello più alto raggiunto
durante la `bolla' della fine degli anni '90. Può il mercato arrivare
molto più in alto? I più importanti dirigenti d'azienda hanno
manifestato i loro dubbi. Nell'autunno del 2003 il rapporto fra vendite
e acquisti di azioni da parte dei corporate insiders ha raggiunto il valore
di 6 ad 1, un record assoluto. Sebbene la Borsa sembri essersi apprezzata
per la recente crescita dei profitti delle società, e benché
ulteriori incrementi nei profitti potrebbero spingere più in alto
i prezzi delle azioni, tuttavia questi valori appaiono sempre più
vulnerabili rispetto a contraccolpi, quali in particolare quelli determinabili
da una crescita del saggio di interesse o da una caduta del dollaro.
Il boom del rifinanziamento dei prestiti ipotecari è stato ovviamente
guidato da una smisurata caduta dei saggi di interesse e da una crescita
senza precedenti dei prezzi delle case. Tuttavia entrambi i processi sembrano
al momento essersi invertiti. Come gli altri saggi a lungo termine, anche
quelli sui prestiti ipotecari hanno avuto un balzo in seguito alla gaffe
della Fed del giugno 2003, e da allora stanno crescendo in modo strisciante.
Nel secondo trimestre del 2003 (l'ultimo di cui si hanno i dati), i prezzi
delle case sono cresciuti appena dello 0,78%, il più basso tasso
di crescita trimestrale dal 1996. In settembre e ottobre l'attività
di rifinanziamento è caduta in modo apprezzabile. Secondo la Mortgage
Bankers Association ci si deve attendere una caduta dei prestiti ipotecari
da 3.300 miliardi di dollari nel 2003, a 1.400 miliardi nel 2004, nell'ipotesi
che il saggio di interesse cresca dal 5,8 al 6,2% (con un interesse al
7%, si prevede una crescita dei prestiti pari a zero). Se questo accadesse,
le entrate di denaro proveniente dai prestiti ipotecari ovviamente precipiterebbero,
indebolendo quella che finora probabilmente è stata la principale
base per la crescita del consumo e del Pil. L'impatto sarebbe severo anche
sul settore finanziario, che negli ultimi tre anni è stato fortemente
dipendente dai profitti che ha realizzato sul settore immobiliare.
Nei primi tre trimestri del 2003, il deficit della bilancia delle partite
correnti degli Stati Uniti con l'estero ha raggiunto nuovi record, e ci
si attende che raggiunga i 550 miliardi di dollari alla fine dell'anno.
Si tratta di un importo che è superiore del 13% rispetto all'alto
disavanzo realizzato nel 2002, che già aveva battuto il vecchio
record registrato nel 2000. Il disavanzo continuerà a crescere senza
freno finché il dollaro sarà sopravvalutato e l'economia
mondiale continuerà a dipendere dagli stimoli macroeconomici provenienti
dagli Stati Uniti. In settembre, la bilancia commerciale americana ha raggiunto
un disavanzo record di 3,9 miliardi di dollari perfino nei beni tecnologicamente
avanzati, dove si suppone che gli Stati Uniti siano leader. Naturalmente,
la conseguenza è stata che l'ammontare dei finanziamenti esteri
necessari a coprire questo disavanzo ha raggiunto livelli più alti
di sempre. In questo momento, per coprire il disavanzo gli Stati Uniti
devono vendere al resto del mondo attività per un valore di 1,5
miliardi di dollari al giorno. Si tratta di un ammontare pari a due volte
quello che era necessario nel 1999, malgrado che, nel frattempo, a causa
del rallentamento economico e del crash della Borsa, le attività
patrimoniali degli Stati Uniti siano divenute molto meno desiderabili.
Infatti, dalla tarda primavera del 2003 il flusso netto mensile di capitali
verso gli Stati Uniti è caduto precipitosamente da 110,4 miliardi
di dollari in maggio, a 90,6 in giugno, a 73,4 in luglio, a 49,9 in agosto,
fino a un esiguo afflusso netto di 4,2 miliardi in settembre - determinando
una pressione crescente sul cambio. Dall'autunno, dopo una breve ripresa
guidata da un rialzo dei prezzi delle azioni e da una accelerazione dell'economia,
il dollaro ha cominciato a cadere prima nei confronti dello yen, poi dell'euro.
Il destino del dollaro Nel frattempo, l'Amministrazione Bush, allo
scopo di rispondere alle vibranti proteste provenienti dalle aree industriali
del paese per la perdita di posti di lavoro a tassi devastanti, e in preparazione
delle prossime elezioni del 2004, ha cominciato a fare pressioni sulla
Cina - facile obiettivo dato l'enorme surplus commerciale con gli Stati
Uniti - perché rivaluti lo yuan sul dollaro. Nell'incontro di settembre
dei paesi del G7 in Dubai, Washington allargò la sua campagna cercando
di forzare i paesi partecipanti a rivalutare le proprie monete rispetto
al dollaro. In novembre, dopo aver rialzato le tariffe sulle importazioni
di acciaio - sfidando le regole del Wto - ha applicato senza tanti riguardi
il sistema delle quote alle importazioni dalla Cina per alcuni articoli
di abbigliamento. Lo scopo, naturalmente, è quello di trasferire
in qualche misura il peso dell'eccesso di capacità produttiva sui
partner e sui rivali principali, nell'intento di rendere rapida la ripresa
dell'occupazione e degli investimenti statunitensi.
Tuttavia appare difficile valutare quali risultati possono concretamente
realizzare queste misure. Né la rivalutazione dello yuan, né
l'aumento delle tariffe doganali possono fare molto per il disavanzo commerciale
e per l'occupazione. L'incremento delle importazioni dalla Cina riflette
un corrispondente decremento delle importazioni delle stesse merci da altri
paesi del Sudest asiatico che producono a bassi costi - in realtà
la quota del mercato americano detenuta dall'insieme dei paesi asiatici
sta un po' flettendo. Ugualmente, le importazioni a basso costo di lavoro
dalla Repubblica Popolare Cinese rappresentano soltanto una piccola porzione
dei beni prodotti da quelle industrie Usa che hanno subito le più
gravi perdite di posti lavoro - computer e apparecchiature elettroniche,
macchinari, prodotti in metallo e abbigliamento. Inoltre la disparità
salariale fra la Cina e gli Stati Uniti è così grande che
è improbabile che anche una rivalutazione dello yuan del 30% sia
di molto aiuto ai produttori americani. Allo stesso tempo, i rivenditori
americani realizzano sulle importazioni dalla Cina margini così
alti che rinunciarvi metterebbe a rischio la capitalizzazione della Borsa
per un valore calcolato in 1000 miliardi di dollari. I livelli salariali
sono molto più vicini in Giappone, e una rivalutazione dello yen
aiuterebbe inizialmente le esportazioni degli Stati Uniti. Ma dal momento
che la rivalutazione potrebbe frenare un'incipiente rianimazione dell'economia
giapponese - che dipende in modo rilevante dalle esportazioni - probabilmente
la misura non risulterebbe efficace.
La campagna dell'Amministrazione Bush ha accelerato un processo di
declino del dollaro già in atto. Sebbene il mercato azionario degli
Stati Uniti abbia goduto di un salutare e rapido rialzo se valutato in
dollari, il suo risultato in euro è stato molto più debole,
e ancor più in yen. L'indebolimento della domanda estera di titoli
ha perciò comportato una crescente pressione al ribasso del dollaro.
Il costante, anche se lento, declino dei prezzi delle obbligazioni statunitensi
ha agito nella stessa direzione. Su questo sfondo, la spinta protezionista
dell'Amministrazione è stata presa come un segno della sua determinazione
a svalutare il dollaro, il cui tasso di cambio adesso è caduto bruscamente.
Dal novembre, l'euro si è apprezzato sul dollaro quanto mai prima,
e lo yen ha raggiunto il più alto livello degli ultimi tre anni.
Ma, ciò che è più destabilizzante, sia il Giappone
che la Cina sembra abbiano iniziato a ridurre i consueti acquisti di titoli
del Tesoro americano, lasciando potenzialmente scoperta una parte crescente
del disavanzo delle partite correnti degli Stati Uniti. Apparentemente
il Giappone ha esaudito i desideri degli Stati Uniti. Infatti, sebbene
abbia operato in qualche misura sul mercato valutario, non ha fatto abbastanza
per contrastare una rivalutazione dello yen del 9% fra agosto e novembre.
Nel caso della Cina, le pressioni statunitensi perché rivalutasse
hanno coinciso con la crescente preoccupazione del governo cinese di un
surriscaldamento dell'economia e con le prime misure per frenarlo. Nel
2003, la crescita del Pil cinese appariva proiettata ben oltre l'atteso
9%, la produzione industriale sopra il 16%, gli investimenti fissi oltre
il 30%. Per reazione, il governo cinese ha chiesto una riduzione negli
acquisti di nuovi impianti e attrezzature in tutti i settori industriali,
e ha imposto alle banche di aumentare le loro riserve in modo da rendere
più difficile i prestiti. Dato che i suoi acquisti di dollari avevano
avuto un grande ruolo nello spingere in alto l'offerta interna di moneta,
con una crescita annua sopra il 20%, Pechino dovrà probabilmente
ridurre gli acquisti di dollari se intende seriamente controllare la bolla
immobiliare nelle maggiori città del paese e la crescente situazione
di sovracapacità che attanaglia tante industrie cinesi. Come altri
investitori, Pechino può anche essere preoccupato (e dissuaso dall'acquisto)
per le perdite che sopporterà sulle obbligazioni del Tesoro americano,
se i saggi di interesse statunitensi continuano a salire e il prezzo delle
obbligazioni continua a cadere: per i potenziali guadagni a cui si rinuncia
non investendo in attività a più alto rendimento; per le
perdite valutarie che sosterrà, più alte quanto più
a lungo differirà la rivalutazione. È quindi probabile che
le pressioni politiche degli Stati Uniti finiscano per spingere la Cina
sul cammino che già ha deciso di intraprendere.
Saggi di interesse La svalutazione della moneta comporta grandi rischi
per Washington. Un valore alto del dollaro in generale, e in particolare
l'acquisto da parte dei paesi dell'Est asiatico di attività denominate
in dollari, sono stati indispensabili per la ripresa americana, permettendo
una politica monetaria molto espansiva senza una pressione verso l'alto
dei prezzi e dei saggi di interesse. Se il dollaro dovesse continuare a
cadere, i valori delle azioni e delle obbligazioni sarebbero messi direttamente
sotto pressione e l'inflazione crescerebbe. Salendo il livello dei prezzi,
salirebbe anche il costo dei finanziamenti minacciando i bassi saggi di
interesse che sono stati alla base della ripresa ciclica. Ogni crescita
significativa nei saggi di interesse porrebbe fine alla enorme ondata dei
prestiti ipotecari, che ha guidato i consumi. Senza il rialzo dei saggi
di interesse anche il finanziamento dell'enorme e crescente deficit di
bilancio diventerebbe più difficile; eventualità che, peraltro,
mette a rischio la ripresa e contemporaneamente aggiunge un ulteriore elemento
di pressione al ribasso dei valori delle attività patrimoniali.
In verità, dato che il resto del mondo possiede attività
patrimoniali degli Stati Uniti per un valore di 7.610 miliardi di dollari
(il 40% del debito degli Stati Uniti; il 26% delle obbligazioni e il 13%
delle azioni emesse dalle società statunitensi), un declino significativo
del dollaro ha la potenzialità di mettere in moto una fuga precipitosa
da queste attività, dando via libera a una violenta spirale al ribasso
del cambio e dei prezzi dei titoli. In altre parole, se l'Amministrazione
Bush realizzasse i propri desideri, potrebbe pentirsi di averli concepiti.
La domanda di prestiti e le `bolle' che hanno puntellato la ripresa
ciclica statunitense appaiono adesso in diminuzione, con la conseguenza
di deprimere la spesa per consumi e accrescere la vulnerabilità
dei prezzi delle attività patrimoniali. Ma se i prezzi delle azioni
frenano, se le entrate monetarie derivanti dai prestiti ipotecari diminuiscono
e se il dollaro scivola ulteriormente, allora occorre che ci sia una rapida
crescita degli investimenti e dell'occupazione che prevenga un altro rallentamento,
o peggio. In teoria, una crescita accentuata della redditività negli
Stati Uniti dovrebbe offrire una solida base per una forte ripresa delle
spese delle società, e la recente, più rapida, crescita del
Pil dovrebbe spingere ancora più in alto i guadagni. In realtà
finora non si rileva una significativa espansione delle spese da parte
delle imprese. Nel breve periodo, ci si può attendere una crescita
più rapida degli investimenti e dell'occupazione - con gli usuali
effetti moltiplicatori - particolarmente in previsione di ulteriori forti
impulsi, previsti per questo anno. Tuttavia, la persistenza di questo dinamismo
è tutta da dimostrare, in particolare considerato ciò che
ci ha lasciato la svolta del dopo 2001. Non è forse possibile che
una più rapida espansione si scontri con un aumento del costo dei
prestiti in un momento in cui le famiglie, il governo, le società
e il settore finanziario stesso sono tutti ampiamente sovraesposti? Ed
essa non potrebbe indurre anche una spinta al rialzo del disavanzo delle
partite correnti in un momento in cui il dollaro sta già cadendo?
Può un'economia svilupparsi per un'espansione dei settori finanziari
e dei servizi al consumo quando i settori chiave della produzione di merci
restano schiacciati dalla sovracapacità e dalla ridotta redditività;
quando i produttori esteri stanno conquistando quote crescenti del mercato
statunitense, quando le esportazioni stanno cadendo più delle importazioni
senza speranza di raggiungere il pareggio agli attuali tassi di cambio,
e quando gli Stati Uniti dipendono dalla disponibilità dei governi
dell'Asia Orientale a finanziare le obbligazioni Usa? L'economia degli
Stati Uniti è in un territorio inesplorato. La sua capacità
di trovare la sua strada rimane in dubbio.
note: © «New Left Review» 2004. Con il titolo New
Boom or new Bubble? The Trajectory of the US Economy il saggio di Robert
Brenner è stato pubblicato sul n. 25 di «New Left Review»,
che ringraziamo, insieme con l'autore, per il permesso di tradurre. Tranne
le note, le tabelle i grafici, e l'elenco delle fonti - che saranno pubblicati
nell'edizione web della «rivista» - la traduzione che segue
riproduce il testo integrale. Con lettere corsive in esponente sono indicate
le note della redazione della «rivista del manifesto».
1 Desidero ringraziare Aaron Brenner e Tom Mertes per l'aiuto
che mi hanno prestato nella definizione sia del contenuto che della forma.
Sono anche grato a Andrew Glyn per i dati su Germania e Giappone, e a Dean
Baker per gli utili consigli sulle fonti dei dati (NdA). a `Wealth effect'
si potrebbe tradurre anche con `effetto arricchimento, abbondanza, prosperità';
abbiamo conservato sempre `effetto richezza' che è più proprio
del lessico economico (NdRM). b Il 22 settembre 1985, al Plaza Hotel di
NewYork, le potenze dell'allora G5 si accordarono per ridurre il tasso
di cambio del dollaro, e salvare il settore industriale americano, che
rischiava una crisi drammatica (NdRM). c S&P 500 è l'indice
azionario internazionale delle 500 più grandi società del
mondo (NdRM). d Goldman Sachs è una delle banche d'investimento
più prestigiose nel mondo. Oggi Goldman Sachs Group, con sede centrale
a New York, ha uffici regionali a Londra, Francoforte, Hong Kong e Tokio,
e più di 20.000 dipendenti in 58 sedi sparse per il mondo (NdRM).
e Morgan Stanley è l'altra grande banca d'investimenti degli Usa
(NdRM). Robert Brenner è professore di storia e direttore del Center
for Social Theory and Comparative History dell'Università di Los
Angeles, California. (Traduzione di Tiziano Cavalieri)