La bolla e il boom

Robert Brenner, "Rivista del manifesto", febbraio 2001


Il lettore può essere sconcertato dal fatto che questo numero della rivista – anziché aprirsi con editoriali attinenti all'attualità politica e firmati da noi stessi – si apra con un saggio di Robert Brenner *. Un saggio lungo, complesso, denso di dati, forse difficile alla lettura per i non specialisti.
Vorrei spiegare in due parole le ragioni di questa scelta, e soprattutto l'intenzione politica che sottende.
Brenner, anziché ripetere, per approfondirli, discorsi molto generali, e ormai spesso un po' ripetitivi – sulla globalizzazione, sul postfordismo, sulla new economy – ci offre un'analisi e una documentazione molto ricca su di una fase circoscritta, e su un luogo solo, ma cruciale, di tali processi: il `miracolo americano' dell'ultimo quinquennio. Quello al quale si deve un'inattesa `seconda ondata' dell'offensiva neoliberista e neoimperiale che, dall'area anglosassone, si è estesa fino a coinvolgere pienamente – sul piano delle idee e su quello dei fatti – anche l'Europa continentale e la sinistra che la governa.
Brenner offre una convincente serie di dati e una concatenazione degli avvenimenti, per chiarire il `segreto' di questo specifico miracolo: l'enorme indebitamento, sia delle imprese sia dei consumatori privati americani, che ha funzionato come una droga volutamente iniettata nel sistema per arginare una crisi latente, per sostenere una ristrutturazione che da sola non procedeva, e assorbire dal resto del mondo i capitali enormi necessari per finanziarla. Un meccanismo che non può durare oltre e infatti si sta inceppando: si annuncia un rallentamento più o meno grave, ma non puramente congiunturale.
A differenza dei molti, che hanno finora parlato della `bolla speculativa' in modo sommario, isolandola dal contesto, Brenner propone un'analisi più articolata che introduce a un interrogativo complesso.
Quanto all'analisi, egli non riduce tutto il recente ciclo espansivo a una pura illusione speculativo-finanziaria, e non nega che nell'ultimo quinquennio, al contrario degli anni precedenti, esso ha stimolato potentemente processi innovativi nell'economia reale, rilevanti incrementi e più estesa diffusione della produttività, un inizio di ripresa del salario reale, nuova occupazione non solo precaria e miserabile. Ed è anche servito a tamponare efficacemente le prime serie crisi finanziarie ed economiche in altri settori del mondo (Est asiatico, America Latina, Russia).
L'interrogativo che ne deriva è dunque il seguente. Nel momento in cui la bolla si sgonfia e può anche scoppiare, in cui, di conseguenza, l'economia americana probabilmente rallenterà il suo ritmo di espansione fondato sui debiti e non potrà più trascinare l'economia mondiale, sono state ormai acquisite capacità e risorse per il decollo di una nuova fase di sviluppo meno spettacolare, ma più sano, continuativo, equilibrato, collaborativo? O, al contrario, venendo meno `la droga', dobbiamo attenderci una stagnazione prolungata in America, crisi finanziarie ripetute e meno governate altrove, nuove difficoltà e maggiori conflitti fra le varie aree capitalistiche?
Brenner propende per questa seconda e preoccupante ipotesi, usando soprattutto l'argomento di una crisi per eccesso di produzione, rispetto alle occasioni effettive di consumo e di investimenti che il sistema sa creare, e rinunciando con l'eccessiva (a nostro avviso) prudenza dello specialista, a considerare l'importanza che potranno avere – nel bene e nel male – altri fattori d'ordine sociale, politico, istituzionale.
È comunque evidente che da questo tipo di interrogativi, dalla capacità di formulare una previsione, e di definire in relazione ad essa le alternative programmatiche, i conflitti reali, le forze in campo, dipende un vero confronto politico e intellettuale. La scelta di una strategia non per il secolo a venire né per i prossimi mesi, ma per una precisa fase storicamente determinata. Cioè l'anello decisivo per non avvilire i discorsi sul futuro in velleitarie testimonianze, e per sottrarre le battaglie politiche al pantano della cronaca quotidiana e delle manovre elettoralistiche. Proprio quello che oggi manca clamorosamente nella politica italiana e non solo italiana.
Ecco il perché del rilievo che, provocatoriamente, abbiamo voluto dare a questo scritto: per ciò di cui parla, e di cui si dovrebbe parlare, ancor prima che per l'interesse indubbio di ciò che dice.
(l.m.)

Due anni fa, nell'autunno 1998, l'economia internazionale sembrava in grande difficoltà. La crisi scoppiata nell'Asia orientale nell'estate del 1997 stava per travolgere il resto del mondo. Ovunque, eccetto che al centro dell'economia-mondo capitalistica, i valori azionari e monetari stavano crollando. La Russia aveva dichiarato bancarotta, il Brasile stava piombando nella depressione. La stessa economia giapponese stava nuovamente scivolando verso la recessione. L'economia americana non poteva rimanere immune da questo trend. Come risposta al crollo dei profitti nella prima metà del 1998, soprattutto nel settore industriale, che ancora aveva un ruolo centrale nell'economia, tra luglio e settembre i valori delle azioni crollarono drammaticamente. A ottobre, una pesante carenza di liquidità minacciava di trascinare l'economia statunitense — e quindi quella mondiale — in una zona a rischio. È a quel punto che è intervenuta la Federal Reserve. Ha organizzato il salvataggio del gigantesco Long Term Capital Management hedge fund (Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine), asserendo che se lo avesse lasciato crollare l'intera economia internazionale avrebbe rischiato il collasso finanziario; e ha poi tagliato a tre riprese i tassi di interesse, non solo per neutralizzare la stretta creditizia, ma anche per far capire chiaro e tondo che voleva che i valori delle azioni salissero, in modo da sovvenzionare i consumi necessari a sostenere il riassestamento dell'economia internazionale.
L'esito di questa mossa è stato piuttosto contradditorio. La ciclica espansione americana che, fino al 1995, era stata assai meno marcata di quelle degli anni `70 e `80, ha improvvisamente acquisito forza. Da allora, e per i successivi cinque anni, si è registrata una rapida crescita del Pil, della produttività e anche dei salari reali, mentre la disoccupazione e l'inflazione diminuivano raggiungendo livelli appena inferiori a quelli della lunga espansione del dopoguerra. Gli investimenti sono aumentati in modo impressionante. I risultati dell'economia americana, sebbene pesantemente sovrastimati dalla stampa finanziaria, sono stati superiori nel decennio scorso a quelli raggiunti in qualsiasi periodo dei trenta anni precedenti. Ma, dall'altra parte, si è assistito alla formazione della più grande bolla finanziaria della storia americana. I valori delle azioni sono cresciuti a dismisura, senza alcun rapporto reale con i relativi trend industriali. Il debito pubblico, aziendale e finanziario, ha raggiunto, in riferimento al Pil, un livello record, rendendo possibile un'inedita esplosione dei consumi. La conseguente accelerazione delle importazioni ha portato il disavanzo della bilancia commericiale a livelli mai raggiunti prima. Il risultato è stata un'acquisizione massiccia e senza precedenti di beni americani da parte del resto del mondo, soprattutto di pacchetti azionari a breve termine; il che rendeva teoricamente l'economia americana vulnerabile a quelle stesse fughe di capitali, svalutazioni di beni e pressione verso il basso della valuta, che avevano travolto l'Asia orientale.
Se il boom ha spianato la strada alla bolla, la bolla ha accresciuto ulteriormente il boom. Il problema è quindi considerarli in maniera distinta l'una dall'altro. Solo determinando le forze che sovrintendono ai due fenomeni si può definire la traiettoria generale dell'economia americana, e farsi un'idea dei suoi sviluppi futuri. Le tensioni che hanno quasi provocato, appena due anni fa, il crollo dell'economia mondiale, sono forse state superate? L'attuale ciclo di crescita proseguirà e si rafforzerà? Dietro queste domande se ne nasconde un'altra più rilevante. L'economia americana sta forse uscendo finalmente dalla lunga congiuntura negativa cominciata intorno al 1973, ed è forse sulla soglia di un nuovo lungo ciclo di crescita, come negli anni `50 e `60? O, invece, dovrà affrontare quell'ampio movimento di correzione e reazione che ha già colpito la bolla giapponese degli anni '80, che, con il calo dei valori azionari gonfiati e della situazione contabile, si è trovata di fronte ad una profonda e vasta recessione?

I. L'aumento della redditività: 1985-1995

Le cause dell'aumento di produttività del settore industriale statunitense sono da ricercare nella recessione degli anni 1979-82, quando gli elevati tassi di interesse reali che hanno accompagnato la svolta monetaristica di Volcker hanno provocato un ampio processo di razionalizzazione industriale. In seguito a una serie di fallimenti come non si vedevano dalla `Grande depressione' degli anni `30, diversi mezzi di produzione e settori di manodopera vennero allora eliminati. La crisi del settore industriale venne inasprita dall'enorme aumento del valore del dollaro, seguito al notevole aumento dei tassi di interesse di quegli anni. Il primo risultato di questa politica fu un aumento della crescita produttiva dell'industria. Un altro, tuttavia, fu il livello record raggiunto dal disavanzo della bilancia commerciale: il dollaro galoppante riduceva sensibilmente la competitività statunitense. Tra il 1980 e il 1985, le importazioni industriali aumentarono di un terzo. Questa tendenza non poteva essere sostenuta e portò rapidamente a uno storico mutamento di politica.

L'accordo di Plaza

Il punto di svolta — un vero e proprio spartiacque per l'intera economia mondiale — fu l' `Accordo di Plaza' del settembre 1985, quando le potenze del G5 si accordarono per ridurre il tasso di cambio del dollaro, e salvare il settore industriale americano, che rischiava la decimazione. L' `Accordo di Plaza' ha portato a dieci anni di continue svalutazioni del dollaro rispetto allo yen e al marco tedesco, e a un decennale congelamento dei salari reali. Ha fatto quindi riacquisire competitività alle industrie statunitensi, provocando la crisi di quelle tedesche e giapponesi, e una esplosione senza precedenti di uno sviluppo industriale basato sulle esportazioni in tutta l'Asia orientale, le cui valute erano quasi tutte legate al dollaro declinante. Tra il 1985 e il 1995, il dollaro ha perso circa il 40% del suo valore rispetto al marco, e il 60% rispetto allo yen. Nello stesso periodo, i salari reali nel settore industriale statunitense sono aumentati a un tasso annuale medio dello 0,5%, a fronte del 3% della Germania e del 2,9% del Giappone. Nel frattempo, la recessione del 1990-91 aveva dato un'altra spinta all'eliminazione dal mercato dei mezzi di produzione ad alto costo e basso profitto nell'economia, provocando un ulteriore `aumento della disoccupazione'.
La combinazione di questi fattori — svalutazione del dollaro, blocco dei salari e razionalizzazione industriale, nonché, dopo il 1993, il conseguente aumento degli investimenti — innescò un cambiamento fondamentale nel modus operandi del settore industriale statunitense nei confronti dei mercati esteri. Dal 1985 al 1997 le esportazioni aumentarono a un tasso annuo del 9,3%, superiore del 40% rispetto a quello degli anni tra il 1950 e il 1970. A poco a poco, le esportazioni hanno spinto in avanti il settore industriale, e quindi l'intera economia. Questa rinnovata competitività internazionale ha reso possibile un notevole aumento lordo della redditività industriale. Nel 1986, nonostante il vigoroso aumento della produttività e la stagnazione dei salari reali, il tasso di profitto del settore industriale rimaneva ancora del 20% inferiore al suo livello del 1978, e del 50% a quello del 1965. Ma, a partire dal 1986, la redditività industriale aumentò rapidamente. La sua crescita venne interrotta dalla recessione del 1990-91 e dai suoi strascichi ma, dal 1995, la redditività lorda del settore industriale statunitense è aumentata del 65% rispetto al 1986, superando, per la prima volta nell'ultimo quarto di secolo, il livello del 1973 (ma rimanendo però per un buon terzo al di sotto del picco raggiunto nel 1965).
È ormai diventato consueto sottostimare l'importanza del settore industriale, mettendo in evidenza il suo ruolo sempre più limitato nella percentuale di occupazione e di Pil. Ma, negli anni `90, il 46% dei profitti derivanti dalle aziende non finanziarie proveniva dal settore industriale; nel 1998 (ultimo anno per cui disponiamo di dati statistici), tale cifra si assestava sul 42,5% del totale. Era stata proprio la caduta della redditività nel settore industriale internazionale, cominciata tra il 1965 e il 1973, non solo negli Stati Uniti ma in tutta l'economia-mondo, che aveva provocato il lungo ciclo di recessione — l'esteso periodo dall'inizio degli anni `70 fino all'inizio degli anni `90 contrassegnato da una lenta crescita della produzione, degli investimenti e della produttività, da un alto tasso di disoccupazione e da profondi e lunghi cicli di recessione 1. Segno dello stesso trend, la ripresa della redditività lorda del settore industriale statunitense ha prodotto la crescita della redditività lorda dell'economia privata non finanziaria, che è salita del 15,6% tra il 1986 e il 1995, avvicinandosi ai livelli della fine degli anni `60. Questo è ulteriormente confermato dal fatto che il tasso di profitto lordo dell'economia non finanziaria al di fuori del settore industriale è rimasto stabile per tutto il decennio - ed è anzi leggermente diminuito.
La ripresa della redditività veniva ulteriormente amplificata dai tagli alle imposte dell'inizio degli anni `80, quando Repubblicani e Democratici facevano a gara per offrire sovvenzioni alle imprese. Dal 1995, i tassi di profitto netti dell'economia aziendale non finanziaria e del settore industriale sono cresciuti, rispettivamente, del 23% e del 24%, sebbene i tassi lordi rimanevano del 34% e del 35% al di sotto dei livelli massimi raggiunti nel 1965. Le aziende si sono ulteriormente rafforzate, nella prima metà degli anni `90, riducendo in maniera significativa la loro dipendenza dal debito — e quindi la percentuale dei loro profitti in mano ai creditori. Tra il 1979 e il 1991 i pagamenti degli interessi netti in proporzione al surplus totale (profitti più interessi netti) delle aziende non finanziarie si sono assestati su una media del 31,8%, raggiungendo quota 37% nel 1991. A partire dal 1995, questa cifra è scesa al 20%, raggiungendo poi una media del 18% negli ultimi cinque anni del secolo.
Mentre l'economia statunitense stava lentamente uscendo dalla recessione del 1990-91, la ripresa della redditività cominciò infine a scuotere l'economia reale. Per diverso tempo, gli investimenti nel settore industriale erano rimasti stagnanti. Ma, tra il 1993 e il 1998 hanno fatto un balzo in avanti ad un tasso annuo medio del 9,4%, a fronte del 2,6% degli anni compresi tra il 1982 e il 1990. In questo stesso periodo i valori di capitali netti nel settore industriale sono aumentati ad un tasso annuo del 2,7%, a fronte dell'appena 1,3% registrato tra il 1982 e il 1990. La ripresa degli investimenti nell'economia privata nel settore non industriale cominciò più o meno nello stesso periodo, e si rivelò alla fine più consistente di quella del settore industriale. A sua volta, l'accelerazione degli investimenti fece quasi certamente aumentare la velocità della crescita produttiva, già largamente facilitata dalla definitiva eliminazione dal mercato di mezzi di produzione obsoleti. L'introduzione della `produzione a basso costo' di stampo giapponese ha fatto aumentare i posti di lavoro non qualificati, mentre diversi processi sono stati delocalizzati verso settori non sindacalizzati, in cui i lavoratori non disponevano della minima protezione sociale. In questi anni le aziende stavano anche cominciando ad applicare le tecnologie informatiche alla produzione industriale in modo consistente (anche se il loro impatto rimaneva limitato dal basso livello degli investimenti). Tra il 1982 e il 1990, nonostante il rallentamento della crescita degli investimenti, la produttività della manodopera industriale aumentò quindi ad un tasso annuo di circa il 3,3%, più o meno allo stesso ritmo del lungo boom del dopoguerra. Ma sulla spinta dell'aumento delle infrastrutture promosso dall'inizio degli anni `90, tale produttività è poi cresciuta a un tasso annuo medio del 4,74% dal 1993 al 1999. Questo ritmo accelerato non era la semplice espressione del più elevato rapporto capitale/manodopera. In effetti, tra il 1993 e il 1998, la stessa produttività del capitale ha continuato ad aumentare a quel ritmo del 2,6% che già aveva durante l'espansione degli anni `80, rendendo evidente che la produttività complessiva, considerata come capitale e forza lavoro, stava crescendo in maniera significativa.

Servizi e finanza

Il quadro era piuttosto diverso nel settore non industriale — servizi, edilizia, trasporti, servizi pubblici e miniere. La crescita in questo settore fu infatti discontinua e non esplose fino al 1996. A differenza di quanto era avvenuto nel settore industriale, in cui si era registrato un solido aumento della produttività molto prima del balzo in avanti degli anni `90, la produttività del settore non industriale aveva avuto risultati piuttosto miseri per circa vent'anni, con una crescita media annua dello 0,6% tra il 1977 e il 1995. Ma dal 1995 al 1999 è invece cresciuta, sulla scia dell'aumento degli investimenti non industriali, e in concomitanza con il balzo in avanti della redditività non industriale, a un ritmo annuo medio di circa il 2,4%, a fronte del circa 2,7% registrato tra il 1950 e il 1973 durante il boom del dopoguerra.
In che situazione versavano intanto le istituzioni finanziarie? Il problema di cercare di trarre profitto dal credito in un'epoca di sovra-produzione industriale a livello internazionale si è mostrato in tutta la sua gravità con l'esplosione del debito dei paesi produttori del Terzo mondo negli anni `70, e con le conseguenti crisi del debito dei paesi in via di sviluppo dei primi anni `80, che hanno minato il sistema alle fondamenta. I principali Stati capitalistici sono naturalmente intervenuti per salvare le grandi banche internazionali, usando il Fmi per mettere al sicuro i propri fondi (nei limiti del possibile) e imponendo ai paesi in via di sviluppo che volevano ottenere prestiti misure di ristrutturazione draconiane. Negli anni `80, il tentativo delle istituzioni di credito e delle banche commerciali di investire in beni immobili ha seguìto uno sviluppo simile, e ha portato al crollo della bolla immobiliare e al collasso di diverse banche verso la fine del decennio. La conseguente operazione di salvataggio degli istituti di credito è costata ai contribuenti americani l'equivalente di tre anni di investimenti privati. La moltiplicazione di fusioni e acquisizioni si è spinta tanto in avanti che quello che veniva considerato l'elemento caratterizzante della congiuntura finanziaria dell'epoca ha avuto la stessa misera fine. Se nella prima metà degli anni `80 — nel momento in cui la redditività del settore industriale ha raggiunto il suo livello minimo — queste fusioni hanno effettivamente portato a un aumento dei profitti, il potenziale di introiti del settore si è trovato rapidamente ristretto dalle entrate in eccesso, provocando, col passare degli anni, una sensibile diminuzione dei profitti, perché gli investitori si trovarono costretti a pagare prezzi sempre più alti per le loro fusioni. Il naufragio del movimento di fusione e acquisizione ha ampiamente contribuito al declino delle banche commerciali, che già avevano subìto una riduzione di introiti in seguito all'antagonismo crescente di varie istituzioni di credito non bancarie, come compagnie assicuratrici e finanziarie, oltre che per la diffusione dei titoli di Stato.
La situazione del settore finanziario venne ulteriormente peggiorata dall'inizio della recessione del 1990-91. Solo un'ulteriore operazione di salvataggio da parte del governo ha evitato una crisi di grande portata. Questa volta, la Federal Reserve ha portato i tassi di interesse reali a breve termine a quota zero, per permettere alle banche di rimettere in pari i propri bilanci e riprendere in modo redditizio la loro attività creditizia. Come si è visto in seguito, i problemi finanziari si sarebbero dissolti con sorprendente rapidità all'inizio degli anni `90. È stato durante l'epoca di Clinton, Ruban e Greenspan, più che durante quella di Reagan e Volcker, che si è assistito alla vera ascesa della finanza nell'economia americana. Nel momento in cui, all'inizio del decennio, la Fed ha ridotto in maniera così consistente i tassi di interesse a breve termine, alle banche è stato permesso sia di avere profitti insperati sulle obbligazioni in loro possesso sia di portare avanti i loro affari correnti — contrarre prestiti a breve termine a basso costo e prestare a costi elevati a lungo termine — con un successo ineguagliabile. Quando Clinton ha giurato che non avrebbe fatto tagli alle spese per far quadrare il bilancio, ha dato le necessarie garanzie ai creditori che i loro profitti non sarebbero stati divorati dall'inflazione. Per fugare ogni dubbio, nel 1994 Greenspan ha aumentato sensibilmente i tassi di interesse, di due punti percentuali e mezzo, in modo da frenare l'espansione.

Decollo finanziario

La prova definitiva della ripresa economia dei creditori e degli speculatori è stato il risanamento dell'economia non finanziaria avvenuto durante l'espansione degli anni `90. Le banche in particolare registrarono un'incredibile congiuntura positiva. La domanda di prestiti crebbe rapidamente, e le perdite legate al credito diminuirono sensibilmente. Mentre nel 1990 solo il 30% dei beni bancari era ufficialmente definito “ben capitalizzato”, il dato raggiunse quota 97% nel 1996. Nel momento in cui l'economia cominciava a prosperare, le banche potevano finalmente trarre il massimo vantaggio dal processo di deregulation che aveva cominciato a delinearsi alla fine degli anni `70, aumentando gli introiti di attività fuori bilancio, come le commissioni sulla vendita di fondi comuni di investimento. Nel frattempo, la tendenza verso la concentrazione bancaria cominciò ad aumentare negli anni `80: la percentuale di beni bancari posseduti dalle maggiori holding finanziarie del paese raggiunse il 64% nel 1996 — a fronte del 57% del 1986 — mentre il numero di compagnie commerciali diminuiva nello stesso periodo da 11.000 a 7500. Cosa forse ancora più importante, la Fed si assicurò che lo scarto tra quanto le banche pagavano per i loro debiti a breve termine e quanto ricevevano per i loro crediti a lungo termine rimanesse `insolitamente alto' 2. Il risultato fu di portata storica. Durante gli anni `90, le istituzioni finanziarie statunitensi in generale, e le banche commerciali in particolare, raggiunsero il più alto tasso di profitto sui propri valori di tutto il dopoguerra, con un margine piuttosto alto. A conferma della nuova congiuntura positiva, i profitti del settore finanziario furono sensibilmente più alti — come percentuale dei profitti totali aziendali — di qualsiasi altro periodo del dopoguerra. Come ciliegina sulla torta, i valori azionari schizzarono alle stelle.
Dalla metà degli anni `90 l'intero settore aziendale americano ha migliorato sensibilmente le proprie prestazioni rispetto al decennio precedente, soprattutto grazie all'ampio e brutale processo di razionalizzazione e ridistribuzione. La razionalizzazione industriale era consistita in una massiccia rimozione di macchinari e infrastrutture obsoleti e inutili e nel `ridimensionamento' di decine di migliaia di lavoratori, in modo da registrare miglioramenti nella produttività. Le aziende hanno quindi enormemente aumentato i propri profitti a scapito dei lavoratori, mediante un congelamento decennale dei salari reali, e una altrettanto decennale svalutazione del dollaro, a tutto scapito dei rivali commerciali esteri. Solo verso la fine di questo processo di ripresa hanno cominciato a intensificare gli investimenti stimolando quindi la crescita produttiva. Come abbiamo già visto, la ripresa della redditività nel settore industriale, amplificata da una decisiva riduzione delle imposte pagate dalle aziende, può effettivamente spiegare la completa ripresa del tasso di profitto del settore non finanziario nel 1995. Dopo il 1995, si è registrato un aumento sostanziale nel settore non industriale, soprattutto nei servizi, che ha portato la redditività dell'economia aziendale vicino ai picchi raggiunti nel lungo boom del dopoguerra. Consolidate le basi dell'economia reale, il settore finanziario ha potuto sfruttare la deregulation, oltre ai generosi sussidi e al saldo supporto del governo, per portare a termine una svolta inattesa. Se questa simbiosi tra il settore industriale, finanziario e dei servizi poteva essere mantenuta, l'economia statunitense si sarebbe forse potuta lasciare alle spalle la lunga epoca di recessione.

II. Spartiacque: 1995-1998

A livello di economia mondiale, tuttavia, la ripresa del settore industriale americano tra il 1985 e il 1995 ha esercitato un'enorme pressione sulle economie giapponese e tedesca, basate sulle esportazioni, per non parlare di tutta l'Europa occidentale. La profonda recessione e la ristrutturazione industriale su vasta scala avvenute in Giappone e in Europa occidentale nella prima metà degli anni `90, a causa delle valute forti, possono essere considerate l'equivalente della crisi del settore industriale americano nella prima metà degli anni `80, in seguito alla stretta monetaria di Volcker, all'impennata del valore del dollaro, e alla sbandata di Reagan-Regan per la finanza. Ma le difficoltà del Giappone e della Germania sono state probabilmente aggravate dal vantaggio degli Stati Uniti che, in simili circostanze, avevano già eliminato le imprese ad alto costo e a basso profitto. La ripresa statunitense avvenne a tutto scapito dei suoi principali rivali. Ma c'era comunque un prezzo da pagare per tutto ciò. Nella prima metà degli anni `90, la stagnazione complessiva dell'economia mondiale, aggravata dalla sovracapacità industriale e leggermente rallentata dalla pressione sui salari e dalla stretta creditizia, non era stata sormontata. La stessa ripresa statunitense era limitata dalla sempre più lenta crescita della domanda mondiale, e dalla conseguente intensificazione della competizione internazionale nel settore industriale. Non sottolineeremo mai abbastanza che, anche alla metà degli anni `90, l'economia mondiale mostrava ben pochi segni di essere uscita dalla lunga fase di stagnazione. In effetti, la crescita in questi cinque anni fu, nelle avanzate economie capitalistiche, sensibilmente più lenta che in ogni altro periodo degli ultimi trent'anni. Una tale constatazione non è valida solo per l'economia tedesca e quella giapponese, piombate in una profonda recessione, ma anche per la stessa economia statunitense, che crebbe più lentamente tra il 1990 e il 1995 di quanto avesse fatto negli anni `70 e `80.
Bisogna dire che questa lenta crescita non ha dato particolari pene all'amministrazione Clinton, che di fatto ha potuto portare avanti una politica monetaria avventuristica e una riduzione delle imposte come non si vedevano dall'epoca di Eisenhower — in attesa di una completa ripresa della redditività delle aziende. Non solo Clinton ha rifiutato la strategia di spesa del deficit usata dall'economia americana e internazionale per uscire dalle crisi dall'inizio degli anni `70, ma ha portato avanti una crociata per far quadrare il bilancio, che ha ridotto il disavanzo federale come percentuale del Pil dal 4,7% del 1992 a quota zero nel 1997. Inoltre, non appena l'economia ha cominciato a dare segni di ripresa, la Federal Reserve, come abbiamo già visto, ha aumentato i tassi di interesse di tre punti percentuali tra il febbraio 1994 e il febbraio 1995. In realtà, secondo i sondaggi di opinione, «molta gente pensava che il paese fosse ancora in una fase di recessione per tutto il 1995» 3. Non è certo sorprendente che, tra il 1990 e il 1995, il Pil statunitense, la produttività della manodopera e i salari reali sono cresciuti più lentamente di quanto fosse avvenuto negli anni `70 e `80.
Nel 1996 questa congiuntura cambiò. In quell'anno, e nell'anno seguente, la crescita di tutte le più importanti variabili economiche subì una considerevole accelerazione, includendo (con uno sfasamento) anche i salari reali. È chiaro che il recupero della redditività nel settore industriale, basato in gran parte sulla svalutazione del dollaro, la restrizione dei salari e la riduzione delle tasse sulle imprese – e solo in tempi molto recenti amplificata dal boom degli investimenti – stava cominciando a fruttare. Nel 1997, mentre le esportazioni reali salivano del 14%, l'economia prosperava come non aveva fatto per decenni, e cominciò a prospettarsi uno scenario dove gli Stati Uniti potevano finalmente condurre l'economia mondiale fuori dalla stagnazione. L'espansione del mercato interno statunitense, che stava rendendo possibile una crescita a livello internazionale sotto la spinta delle esportazioni, non poteva più essere sostenuta, come era stato per decenni, in prima istanza dal deficit del governo USA, ma, in modo sostanziale, dalla crescita delle esportazioni e dall'investimento di capitale, fondato su una competitività crescente e su un incremento degli indici di profitto. Proprio al momento in cui una crescita più rapida cominciava a diffondersi in tutta l'economia Usa, dalla fine del 1995, le sue stesse fondamenta cominciarono a essere trasformate da due linee di sviluppo strettamente legate fra loro. Da una parte, una rapida crescita del dollaro cominciò a minare alla base le esportazioni dell'industria, innalzando i relativi costi dei beni americani e accelerando indirettamente la fine del boom dell'Asia orientale. D'altro lato, la bolla del mercato che stava esplodendo, finanziando una febbrile corsa all'indebitamento, cominciò a spostare la forza trainante dell'espansione verso i consumi interni, e di conseguenza a far decollare la crescita dell'economia Usa.

Il Plaza ribaltato

Il punto di svolta nella fase iniziale di entrambe queste linee di sviluppo, e a conti fatti dell'evoluzione dell'economia mondiale nella seconda parte degli anni `90, è stato l'accordo siglato dagli Usa, dal Giappone e dagli altri paesi del G7 che sarà poi chiamato `Accordo del Plaza ribaltato'. Nella prima parte del 1995, in seguito al crollo del peso e alla conseguente operazione di salvataggio dell'economia messicana, si verificò una nuova corsa al dollaro, che venne ad accentuare fortemente la lunghissima fase di flessione del precedente decennio. Una moneta a buon mercato era stata, ovviamente, un prerequisito indispensabile per la ripresa della redditività dell'industria Usa e di tutta l'economia non-finanziaria, e Washington l'aveva accolta con notevole entusiasmo, tornando tra il 1985 e il 1995 alla politica di benign neglect nei confronti del dollaro, la stessa che aveva prevalso per la maggior parte degli anni '70. Così quando il dollaro precipitò nei primi mesi del 1995, l'amministrazione Clinton non soltanto non fece nulla per frenare la caduta, ma aumentò anche la pressione sul Giappone, minacciando di escluderlo dal mercato automobilistico statunitense se non avesse acconsentito ad aprire agli Usa il suo mercato di componenti per auto.
Nell'aprile del 1995, comunque, lo stesso dollaro basso che aveva contribuito a guidare l'economia industriale degli Usa per un decennio aveva portato il Giappone sull'orlo del collasso. Lo yen era salito di oltre il 60% rispetto al suo livello dell'inizio del 1991 e di circa il 30% rispetto all'inizio del 1994, arrivando al tasso record di 79 nel cambio col dollaro. A quest'altezza astronomica, i produttori giapponesi non potevano neanche coprire i loro costi variabili, e la crescita della macchina giapponese sembrava essersi inceppata. Nonostante quella che era stata, proprio in questa congiuntura, la loro preoccupazione quasi ossessiva per la competitività dell'industria, le autorità Usa non erano in grado di considerare questo sviluppo con serenità. Erano infatti state appena scioccate dalla crisi messicana, che, venuta fuori `dal nulla', aveva fatto tremare il sistema finanziario internazionale. E una versione giapponese sarebbe stata ovviamente molto più pericolosa. Così anche se una crisi giapponese poteva essere contenuta, poteva invece facilmente verificarsi una liquidazione su larga scala dell'immenso patrimonio azionario Usa in mano ai giapponesi, soprattutto di buoni del Tesoro. Uno sviluppo del genere avrebbe spinto al rialzo i tassi d'interesse, spaventato i mercati monetari, e forse avrebbe portato verso una recessione nello stesso istante in cui l'economia Usa sembrava finalmente pronta a raddrizzarsi. Oltretutto cominciavano a essere incombenti le nuove elezioni presidenziali. Gli Stati Uniti, sotto la guida del Segretario al Tesoro, Robert Rubin, non soltanto rinunciarono a forzare l'apertura del mercato giapponese di componenti per auto, ma intrapresero un progetto con giapponesi e tedeschi per un'azione comune tesa a ribassare lo yen (e il marco) e rialzare il dollaro. Questo fu in parte ottenuto abbassando i tassi d'interesse giapponesi rispetto a quelli americani, ma anche aumentando l'acquisto di dollari da parte di giapponesi e tedeschi, oltre che con l'intervento del Tesoro stesso per sostenere la moneta americana 4.
Questo fu un accordo provvisorio, che rappresentò un dietrofront nella politica sia degli Usa sia dei suoi principali alleati e rivali, in modo molto simile a quanto era accaduto per l'originario accordo del Plaza del 1985. Gli Stati Uniti rinunciarono ai vantaggi che una moneta debole aveva portato al settore industriale per quasi un decennio. Ma si assicurarono in cambio sia la prospettiva di un enorme afflusso di capitali che si immaginava potesse servire a coprire il crescente deficit della bilancia commerciale e rialzare il valore delle azioni, sia un'inondazione di importazioni a basso prezzo su cui poter contare per esercitare una forte pressione al ribasso sui prezzi, sollevando la Fed da gran parte del lavoro di contenimento dell'inflazione. In un certo senso, l'amministrazione Clinton stava favorendo i creditori e gli speculatori dei mercati a scapito degli industriali, più o meno allo stesso modo in cui l'amministrazione Reagan aveva fatto nella prima metà degli anni '80. Si potrebbe credere che un settore industriale Usa ridimensionato poteva ora resistere con successo a una crescita del dollaro. Forse si è anche pensato che l'aumento della redditività nei servizi e la crescita dei consumi interni avrebbero potuto compensare un declino dei profitti nell'industria. In ogni caso, le conseguenze sensibili di questo accordo si sentirono immediatamente in tutto il sistema mondiale, esattamente nel modo opposto in cui si erano registrati i drammatici effetti dell'originario accordo del Plaza nel 1985. La crescita della moneta cominciò allora a comprimere l'industria americana (piuttosto che quella giapponese e quella tedesca); le società giapponesi e tedesche (piuttosto che quelle Usa) iniziarono delle riprese (di breve durata); e l'Asia orientale passò dal boom record successivo all'accordo del Plaza a una crisi regionale successiva al `Plaza ribaltato'. Allo stesso tempo, esplodeva negli Usa un'immensa bolla finanziaria, consentendo all'espansione economica americana di accelerare sulla base della crescita dei mercati, del debito e dei consumi – proprio come aveva fatto la bolla in Giappone, dopo il 1985.

L'impennata delle azioni

Dal tempo della recessione della Volcker all'inizio degli anni '80, il mercato azionario Usa conobbe una storica ascesa. Questa fu interrotta dal crack dei mercati del 1987; ma quando non soltanto la Fed ma anche le autorità finanziarie degli Stati Uniti presero la decisione di fermare il crollo del prezzo delle azioni, molti investitori cominciarono a credere che non si sarebbe mai permesso al mercato dei titoli di precipitare troppo duramente, e la tendenza al rialzo continuò. Tra il 1990 e il 1993, la crescita dei mercati ebbe un ulteriore incremento quando Greenspan ridusse a zero i tassi di interesse reali a breve termine, per salvare le società sommerse dai debiti e le banche sull'orlo del fallimento – aprendo la strada a una massiccia espansione della liquidità. Poiché le opportunità di realizzare profitti erano ancora relativamente limitate in un'economia reale Usa che solo adesso stava lentamente riprendendosi dalla recessione, l'afflusso di moneta a buon mercato che ne seguì si riversò sui titoli, catalizzando un ulteriore notevole rialzo dei mercati. Tuttavia, alla fine del 1995 i corsi azionari, anche dopo un rapido incremento oltre i risultati migliori di una dozzina d'anni, non erano riusciti a staccare la crescita degli utili industriali. Si poteva affermare infatti senza troppa esagerazione che il significativo rialzo del valore delle azioni fino a quel punto non faceva altro che rispecchiare il recupero della redditività nell'economia Usa dopo lo stato di stagnazione della recessione dei primi anni '80. Tra il 1980 e il 1995 l'indice del valore delle azioni al NYSE (New York Stock Exchange) è aumentato di un coefficiente del 4,28, mentre i profitti al netto d'imposta sono aumentati del 4,68. Ma da questo momento in poi, il valore delle azioni perse rapidamente contatto con quello degli utili industriali che li sostenevano, e la bolla del mercato azionario cominciò a gonfiarsi.
È chiaro che la ripresa della redditività iniziata dieci anni prima, e la grande fiducia che aveva creato negli investitori, erano le condizioni necessarie per l'impennata dei corsi azionari che ebbe inizio dal 1995-96. Le forze che in realtà permisero quest'impennata non sono così facili da delineare. Tuttavia non si può non arrivare alla conclusione che una grande responsabilità va attribuita alle drammatiche trasformazioni nelle condizioni della finanza internazionale e ai flussi di capitale che entrarono in gioco nel corso del 1995. Nel marzo '95, a seguito dell'operazione di salvataggio del Messico, la Fed fermò la campagna di restringimento del credito iniziata circa un anno prima e, a partire dal luglio 1995, abbassò i tassi di circa tre quarti di punto durante i successivi sei mesi. Un dato forse ancora più notevole è che le misure prese per mettere in atto l'accordo del Plaza ribaltato non solo cominciarono a far salire il dollaro, amplificando in tal modo gli incrementi nel valore dei patrimoni Usa (compresi i titoli) per gli investitori orientati a livello internazionale, ma diedero anche spazio libero al fiume di denaro che veniva dal Giappone, dall'Asia orientale e da tutto il mondo, per potersi riversare nei mercati finanziari americani, facendo così scendere drasticamente il costo dei prestiti per investimenti.
Nell'aprile 1995, la Banca del Giappone tagliò il tasso ufficiale di sconto, già molto basso all'1,75%, fino all'1%, e il settembre successivo lo riabbassò ancora fino allo 0,5%. Questo contribuì a determinare l'effetto desiderato di ridurre il valore dello yen. Ma piuttosto che stimolare l'economia interna nella quale i tassi di profitto erano ancora troppo bassi per giustificare molti investimenti a lungo termine per le infrastrutture, i bassissimi tassi d'interesse del Giappone ebbero l'effetto di gonfiare la globale offerta di credito, considerato che una grande porzione dell'accresciuta liquidità giapponese si riversava fuori dai confini. Gli investitori Usa, in particolare, diedero vita a un `commercio di riporti' — assai redditizio, comprando yen in Giappone a un basso tasso d'interesse, convertendoli in dollari, e usando questi ultimi per investire in tutto il mondo. Buona parte dei profitti ritrovavano la loro strada proprio nel mercato azionario Usa 5.
Nel frattempo, le autorità giapponesi stavano riversando capitali sui titoli e sulla moneta Usa, e incoraggiavano le compagnie d'assicurazione giapponesi a comportarsi allo stesso modo, ammorbidendo la regolamentazione sugli investimenti all'estero. I governi dell'Asia orientale, decisi a tenere basso il valore delle monete locali e a sostenere la crescita delle esportazioni, si allinearono, e furono seguiti a ruota dagli investitori privati in tutto il mondo, specialmente dagli hedge funds. In questo modo nel 1995 gli acquirenti esteri compravano titoli del governo Usa per un valore di 197 miliardi di dollari, due volte e mezzo la media degli anni precedenti, continuando con acquisti per 312 miliardi di dollari nel 1996 e di 189,6 miliardi di dollari nel 1997. Di questa spesa, la parte più grossa riguardava titoli del Tesoro — 168,5 miliardi di dollari nel 1995, 270 nel 1996, 139,7 nel 197. La somma totale di più di 500 miliardi dollari in titoli del Tesoro Usa comprati da acquirenti stranieri in questi tre anni coprì non solo tutto il nuovo debito emesso dal Tesoro Usa in questo periodo, ma anche altri 266,2 miliardi di dollari di debito statale, prima in mano a, e ora comprato da, cittadini americani 6.
Quest'enorme massa di acquisti non poteva che facilitare le condizioni dei mercati monetari Usa, abbassando i tassi d'interesse e liberando un flusso di liquidità per comprare azioni Usa. Tra il gennaio 1995, quando queste raggiunsero il loro massimo in seguito alla stretta economica del 1994, e il gennaio 1996, i tassi d'interesse sui buoni trentennali del Tesoro precipitarono dal 7,85% al 6,05%. Questa riduzione vicina al 25% nel costo dei prestiti a lungo termine nel corso del 1995 ha costituito il principale fattore nel creare la bolla del mercato azionario. In questo modo ci fu un nuovo rialzo del dollaro, innescato dalla notevole massa di moneta acquistata dalle autorità Usa, in coordinazione con le controparti giapponese e tedesca, nel maggio e nell'agosto 1995; e successivamente sospinto dall'ondata di acquisti da parte estera di buoni del governo Usa. Il tasso di scambio del dollaro sullo yen schizzò in alto del 50% nel breve periodo tra l'aprile del 1995 e la fine del 1996.
Con i tassi d'interesse in caduta libera e un dollaro così fortemente in ascesa, era più che scontato le azioni salissero alle stelle. Dopo essere saliti rispettivamente del 2 e dell'1,8% nel 1994, l'S&P 500 e il NYSE ebbero un rialzo del 17,6 e del 14,6 nel 1995, di gran lunga gli incrementi più alti dal 1989. Entrambi gli indici salirono di un ulteriore 23% durante il 1996, e a dicembre di quell'anno Greenspan era di nuovo lì a lanciare moniti contro «l'esuberanza irrazionale». Senza alcun ascolto da parte degli investitori. Nel 1997, l'S&P crebbe di un altro 30%, il NYSE del 27%. L'espansione della bolla finanziaria Usa cominciata nel 1995 fece velocemente sentire il suo effetto sulla crescita di tutta l'economia. L'incremento delle vendite di azioni, in special modo a società che finanziavano le proprie operazioni di riacquisto attraverso il debito, si andava significativamente ad aggiungere al potere d'acquisto delle famiglie. Allo stesso tempo, l'inflazione dei patrimoni finanziari conseguenti all'ascesa del valore dei capitali sembrò giustificare una storica depressione dei risparmi dei privati, insieme a un grosso incremento nel debito dei privati. A sua volta l'accelerazione dei consumi diede un ulteriore stimolo a quello che sembrava essere un boom che si espandeva sempre di più, mentre la crescita delle importazioni USA e il deficit della bilancia commerciale contribuì a far uscire l'economia mondiale dalla recessione tra il '90 e il '95. L'economia non industriale ne fu la principale beneficiaria in patria. Con un'accelerazione della crescita dei consumi, la richiesta in questi settori si espandeva di conseguenza. Dato che questa produzione era composta principalmente da beni non commerciabili, che non erano danneggiati dal flusso di importazioni deprezzate dal dollaro alto, essa poteva sfruttare liberamente le importazioni a basso costo. Gli investimenti nell'economia non industriale crebbero molto rapidamente e, come abbiamo visto, determinarono un vero e proprio balzo in avanti nella crescita della produttività. Tra il 1995 e il 1997, la redditività del settore dei servizi dopo un luogo periodo di ristagno (anche se mai vi era stata una vera e propria recessione) crebbe del 22%, portando l'indice di profitto in tutto il settore non finanziario dell'economia quasi al 19% del suo massimo dal 1965 7.
Sembrò che l'economia stesse finalmente operando a pieno regime.

La débacle del 1998

Nell'autunno del 1997, la crisi dell'Asia orientale aveva appena cominciato a svilupparsi, e l'economia Usa era all'apice della rinascita catalizzata dall'industria. Nel 1996 e 1997, la produzione industriale e le esportazioni continuarono a crescere rapidamente. Inoltre, i costi di produzione si andavano riducendo drasticamente, mentre in quegli stessi anni la crescita annuale della produttività del lavoro si assestava su una media del 3,2%, il rapporto produzione-capitale al 6%, e la compensazione nominale a un mero 2,2%. Nonostante ciò, nello stesso periodo di due anni, il tasso di cambio reale del dollaro crebbe del 20% e il suo valore rispetto allo yen del 50%, esercitando una notevole pressione al ribasso sui beni commerciabili. I prezzi dei prodotti industriali furono costretti a scendere a una media annua del 3,5% nel '96 e nel '97, con il risultato che la crescita dell'indice di profitto dell'industria — e quello di tutta l'economia privata — che era iniziata alla metà degli anni '80 ed aveva avuto un breve arresto soltanto nella recessione dei primi anni '90, finì per arrivare al capolinea nella seconda metà del 1997 8.
Colpiti dalla crisi asiatica, i produttori Usa dovettero affrontare non solo una competizione accresciuta da parte dei rivali giapponesi, tedeschi e anche degli altri paesi dell'Europa che si stavano avvantaggiando della caduta delle rispettive monete. Ma si trovarono a confrontarsi con il collasso del mercato delle esportazioni dell'Asia orientale fino ad allora dinamico e con il riversarsi su mercati interni Usa di prodotti asiatici, diventati estremamente convenienti per la svalutazione delle monete. La crescita delle esportazioni Usa, motore essenziale del boom, precipitò in termini reali dal 14% del 1997 al 2% del 1998, da una media annuale del 17, 4% nel terzo trimestre del 1997 a meno 0,5% nel secondo e terzo trimestre del 1998. Le importazioni reali degli Usa, nel frattempo, continuarono a espandersi al ritmo dell' 11,8% nel 1998, a fronte del 14,2% del 1997. Con i prezzi delle esportazioni e delle importazioni che precipitavano rispettivamente del 3,1 e del 5,9% nel 1998, il settore industriale Usa era pronto per una crisi: l'indice di profitto dell'industria delle compagnie principali scese di circa il 12%, rispetto al 1997 9.
A sua volta il calo degli utili delle società esercitò una pressione al ribasso sui mercati. I valori delle azioni delle compagnie più piccole rappresentate sul Russell 2000 erano quelli più vulnerabili, e scesero del 20% tra aprile e la prima settimana di agosto.
Da quel momento anche l'élite del S&P 500 cominciò a scendere, perdendo il 10% dal suo picco di metà luglio; e a causa dell'insolvenza russa, andò sotto di un altro 10%. Il ribasso dei mercati minacciava di mettere rapidamente la parola fine all'espansione Usa distruggendo la fiducia degli investitori e invertendo la tendenza della crescita dei consumi interni. Con il resto dell'economia mondiale in crisi, una recessione negli Usa avrebbe minacciato di far piombare tutto il mondo nella depressione.

III. La bolla dietro il boom

Verso la fine del settembre 1998 gli Usa si trovarono ad affrontare una grossa crisi. Il crollo russo innescò una fuga verso la sicurezza del mercato delle obbligazioni, che si manifestò con l'emergere di enormi differenziali tra i tassi d'interesse pagati sui buoni del tesoro statunitensi, relativamente stabili, e quelli pagati sulle meno sicure obbligazioni societarie, sul debito dei paesi in via di sviluppo, e persino sui titoli d'emissione di alcuni governi europei. Le azioni delle banche commerciali crollarono, per la paura di grosse perdite sui prestiti concessi ai paesi emergenti. Ma le perdite maggiori vennero sostenute dagli hedge funds e dalle gestioni patrimoniali delle banche commerciali e di investimento, conosciute tutte sotto il nome di Higly leveraged financial institutions [Hlfi: Alte istituzioni finanziarie di controllo dell'indebitamento (NdT)], che persero una quantità inaudita di dollari, dopo aver accumulato buone posizioni con strumenti d'indebitamento rischiosi, di qualità scadente ma ad alto rendimento, ricompensati da qualche posizione guadagnata nei titoli statali di nazioni sviluppate.
Il grosso cambiamento avvenne il 20 settembre, quando il gigantesco Long Term Capital Management [Ltcm: Fondo gestione dei capitali a lungo termine (NdT)] ammise di fronte al governo federale di trovarsi alle prese con un'insolvenza. Fu in questo momento critico che il governo intervenne. Mise insieme un consorzio di quattordici banche di Wall Street e di società di intermediazione per organizzare un'operazione di salvataggio della Ltcm da 3,6 miliardi di dollari. Greenspan la giustificò come un atto di mediazione non-bancaria sulla base del fatto che, se il governo non avesse agito, avrebbe messo a rischio tutto il sistema finanziario internazionale 10. La Federal Reserve realizzò, come è noto, tre successivi tagli dei tassi d'interesse, compresa una clamorosa riduzione promossa durante un intervallo fra le sue sedute formali. Se l'obiettivo immediato era neutralizzare il pericolo di blocco dei mercati finanziari, l'obiettivo più ampio sin dall'inizio era di rialzare il valore delle azioni, e sostenere quanto più a lungo possibile la corsa agli acquisti. Le riduzioni dei tassi di interesse operate dal governo segnarono un punto di svolta, non tanto perché la conseguente caduta del costo dei prestiti fu consistente, ma perché essa diede un forte segnale positivo agli investitori che volevano veder salire le azioni. Tutto ciò per stabilizzare tanto l'economia interna che quella internazionale, che stavano avviandosi verso una crisi. Ovviamente, Greenspan negò categoricamente che le riduzioni dei tassi d'interesse fossero mirate a influenzare i prezzi delle contrattazioni. Ma gli investitori sapevano bene che l'intervento di Greenspan in questa congiuntura non era la prima operazione di salvataggio di finanzieri e corporation. Nell'ottobre del 1987 il presidente della Fed era già intervenuto per bloccare il crack dei mercati azionari e, tra il 1990 e il 1992, aveva ridotto a zero gli interessi reali a breve termine, per salvare le banche che si avviavano al fallimento e le compagnie che si erano pesantemente indebitate in seguito alle crisi delle istituzioni finanziarie e creditizie, alle fusioni delle aziende insolventi e al crollo degli acquisti. E non bisogna dimenticare che il ministero del Tesoro Usa e la Federal Reserve si erano preoccupati di salvare le principali banche internazionali all'epoca della crisi latino-americana del 1982; erano accorsi in aiuto degli investitori americani che si erano trovati a subire enormi perdite in conseguenza del crack messicano del 1994-1995; e, ancora una volta, avevano aiutato le banche internazionali durante la crisi dell'Asia Orientale nel 1997-1998.
Gli investitori furono così confermati nella loro idea che Greenspan non avrebbe lasciato precipitare troppo in basso i prezzi delle azioni, tanto più perché si rendevano conto di quanto la crescita economica in corso dipendesse dal livello dei consumi e quindi da un mercato favorevole. In verità, probabilmente Greenspan non aveva avuto molta scelta. La fonte principale della crescita Usa, ossia la ripresa dei profitti industriali, si era incrinata sotto l'impatto del rialzo del dollaro e dell'incremento del surplus produttivo mondiale derivato dalla crisi dell'Asia Orientale. Tra il 1987 e il 1997 l'aumento delle esportazioni aveva contribuito per almeno un terzo alla crescita del Pil – che nel '98 e nel '99 era aumentato solo del 7%. Per evitare una depressione internazionale, la Fed stava in effetti promuovendo un nuovo modo per stimolare la domanda – la crescita del debito privato, sia delle aziende che dei consumatori – al posto del vecchio, di tipo keynesiano, basato sul deficit pubblico. La spinta americana ha funzionato in misura molto maggiore rispetto a quanto era accaduto alla metà degli anni '70 e all'inizio degli anni '80 per bloccare la recessione mondiale.
L'intervento decisivo della Fed sul mercato azionario e in quello del credito nell'autunno-inverno del 1998 non diede solo una battuta d'arresto allo spaventoso crollo del mercato dei titoli dell'estate precedente, ma permise a questo di balzare alle stelle, pur senza che si fosse registrato il minimo risultato favorevole nel livello dei profitti. Così, tra il '98 e il '99, l'indice della Borsa di New York crebbe, rispettivamente, del 20,5 e del 12,5%, anche se gli utili d'impresa al netto d'imposta (interessi esclusi) diminuirono del 3,9% e del 4,6%. Negli stessi due anni, l'Indice Standard & Poor's Corp 500 [S&P 500: Indice azionario di 500 società (NdT)] crebbe rispettivamente del 27 e del 19%, sebbene i guadagni delle aziende rappresentate in questo Indice fossero stati dello 0% nel '98 e del 17% nel '99. La Fed non si fece sfuggire l'occasione di rassicurare nuovamente i mercati del credito alla fine del 1999, apparentemente come reazione alla possibile débâcle determinata dal millennium bug. Immettendo nel sistema bancario una liquidità tale da ridurre improvvisamente il Federal Funds Rate dal 5,5 al 4% – il più grosso sbalzo del tasso in nove anni – preparò la strada per un'ultima convulsa ripresa dei mercati azionari durante i primi tre mesi del 2000. Verso il marzo 2000, l'Indice S&P 500 era salito del 20% oltre il livello raggiunto alla fine dell'ottobre 1999. Ora stava a 3,3 volte il livello raggiunto alla fine del 1994. L'Indice Nasdaq dominato dai titoli tecnologici e informatici era esploso in modo ancor più rilevante, da quota 2736 all'inizio di ottobre 1999 a quota 5000 nel marzo 2000.

Il riacquisto delle azioni

Se le condizioni necessarie per prolungare l'espansione della bolla furono alimentate dalla Fed, i prezzi delle azioni sono stati spinti verso l'alto in modo diretto e consapevole dalle varie società. È in seguito alle fusioni delle aziende indebitate e alla frenesia di acquisizioni degli anni '80 che le società avevano avviato la pratica di comprare le loro stesse azioni attraverso una crescente assunzione del debito. Il risultato interessante è stato che le società hanno realizzato la stragrande maggioranza dei loro riacquisti di azioni durante questa fase: non meno del 72,5% tra il 1983 e il 1990. Sebbene queste spese fossero abbastanza limitate in questo periodo, la liquidità delle imprese è riuscita a coprirne soltanto l'87,5%, lasciando il 12,5% al finanziamento tramite prestito. Il risultato è stato che il 100% degli acquisti di azioni in questi anni è stato finanziato attraverso ulteriori prestiti. Gli acquisti di azioni hanno assorbito il 50% dell'esposizione delle imprese e sono arrivate al 125% degli utili accantonati (profitti d'impresa al netto delle tasse meno i dividendi) e al 25% del cash flow delle società (somma degli utili accantonati e della svalutazione) 11.
Nel periodo dal 1991 al 1993, in seguito alle crisi di indebitamento delle società, le aziende cessarono quasi del tutto sia di riacquistare azioni sia di indebitarsi ulteriormente. Ma, all'inizio del '94, riprendendo dal punto dove avevano smesso durante il movimento di fusione e acquisizione delle società indebitate degli anni '80, continuarono a sprofondare sempre più nei debiti. In modo del tutto simile al periodo precedente, ma con una differenza: l'obiettivo non era più finanziare investimenti in nuove infrastrutture, che per la maggior parte continuavano a essere coperte senza fondi interni, ma piuttosto quello di riacquistare le proprie azioni. La ripresa del movimento di fusioni e acquisizioni, che si è accelerato negli ultimi anni, ha influito su alcune di queste operazioni. In qualche modo i tassi d'interesse reale più bassi, che hanno abbassato il costo del credito, e un sistema fiscale reso meno gravoso più sugli utili di capitale che sui dividendi – che ha permesso alle compagnie di annullare il pagamento degli interessi – hanno costituito ulteriori fattori significativi. Ma è chiaro che, nel corso degli anni '90, le riacquisizioni delle azioni che stavano risalendo vennero sostenute sempre più dalle richieste dei dirigenti esecutivi di vertice delle aziende, che investirono una parte crescente delle proprie retribuzioni in forma di stock option, spingendo al rialzo il valore delle azioni della propria società semplicemente per riempirsi le tasche. Perseguendo questo obiettivo, essi non hanno avuto nessuna esitazione ad alimentare il debito in modo crescente. Nel 1999, il rapporto debito-capitale netto dell'S&P 500 è balzato al 116%, rispetto all'84% della fine degli anni '80, quando la crisi d'indebitamento delle imprese aveva paralizzato sia le banche che le stesse società 12. Tra il 1994 al 1999, l'indebitamento delle imprese non finanziarie ammontava a 1,22 mila miliardi di dollari. Di tutta questa somma, le imprese hanno usato soltanto il 15,3% per coprire i propri investimenti, finanziando il resto di questi acquisti attraverso gli utili accantonati più la svalutazione, mentre ne hanno devoluto non meno del 57%, ossia 697,4 miliardi di dollari, per riacquisire azioni – una somma uguale a circa il 75% degli anticipi sulle entrate e al 18% del cash flow.

Bubblemania

Nei primi tre mesi del 2000, il valore delle azioni delle imprese, ossia la loro capitalizzazione sul mercato, è volato a 19,6 mila miliardi, a fronte dei 6,3 mila miliardi del 1994. L'assurdità di questa cifra e la sua rapida crescita sono abbastanza comprensibili. Il dato più determinante, naturalmente, era la mancanza di connessione tra l'aumento dei corsi azionari e la crescita della produzione – e in particolare della redditività – dell'economia sottostante. La capitalizzazione dei mercati (in quanto percentuale del Pil) ha impiegato solo cinque anni (tra il 1995 e l'inizio del 2000) per triplicare e passare dal 50% al 150% del Pil, sebbene nel frattempo i profitti al netto d'imposta delle imprese siano aumentati solo del 41,2%. Ci sono voluti, invece, ben tredici anni, dal 1982 al 1995, per raddoppiare tale capitalizzazione dal 25% al 50% del Pil, mentre gli utili delle imprese sono saliti nello stesso periodo del 160% 13. Ugualmente significativo è stato il divario, senza precedenti, tra le valutazioni delle compagnie sul mercato in termini di prezzi delle azioni e il valore del capitale finanziario e fisico che avevano a disposizione. Nei primi tre mesi del 2000, il rapporto tra il valore di mercato delle imprese non finanziarie degli Stati Uniti rispetto al loro attivo netto – conosciuto come `Quoziente di Tobin' – ha raggiunto quota 1,92, dallo 0,94 del 1994 e dall'1,14 del 1995, a fronte di una media dello 0,65 del ventesimo secolo. È stato quindi di circa il 50% più alto del rapporto registrato nei precedenti picchi durante il ventesimo secolo, che si verificarono, come prevedibile, nel 1929 (1,3) e nel 1969 (1,2), proprio alla conclusione dei boom finanziari di quei decenni.
Considerato che la valutazione delle loro azioni era decisamente più alta del costo dei mezzi di produzione e delle attività finanziarie in loro possesso, sembrava che fosse solo una questione di buonsenso da parte degli investitori acquistare nuovi impianti e attrezzature, piuttosto che azioni, al fine di mettere al sicuro gli incrementi di capitale conseguiti. Il fatto che sia più spesso accaduto il contrario mostra chiaramente che la bolla stava espandendosi 14. Alla fine, nel marzo 2000, il rapporto prezzo-rendita per le società rappresentate nell'Indice S&P 500 – il rapporto cioè tra quanto costa, in media, comprare un'azione rispetto ai rendimenti annui (gli utili) che le azioni realizzano – raggiunse quota 32. In considerazione di quanto si fosse allargato il divario tra l'ascesa dei prezzi delle azioni e la crescita degli utili, non è sorprendente che questo segnò un nuovo record: almeno un terzo più alto dei precedenti picchi raggiunti da questo rapporto durante il ventesimo secolo, e circa due volte e mezzo la media storica di 13,2. Il tasso annuale di rendimento delle azioni – il cosiddetto rendimento sui profitti, che è semplicemente il rapporto invertito tra prezzo e rendita – ha toccato i suoi minimi storici: intorno al 3%, rispetto a una media storica del 7,7%. Ci si poteva aspettare che le azioni sarebbero state considerate sempre più un cattivo investimento. Si è invece verificato l'opposto: prova lampante che le azioni venivano acquistate, nella maggior parte dei casi, semplicemente con l'aspettativa che i prezzi sarebbero ulteriormente saliti, non tenendo in alcun conto i reali tassi di rendimento delle società. Questo è stato l'ennesimo segnale che la bolla stava continuando a gonfiarsi 15.

Il debito delle famiglie

Nel frattempo, i privati cittadini si sono anch'essi fatti prendere dall'euforia. Tra il 1994 e il marzo 2000, il valore delle azioni possedute dalle famiglie è cresciuto da 4,5 a 11,5 mila miliardi di dollari 16. Incoraggiate da quest'enorme sostegno finanziario, le famiglie sentivano di disporre delle condizioni necessarie per ridurre i risparmi e cominciare a indebitarsi a un livello mai visto in precedenza. Tra il 1950 e il 1992, l'indice dei risparmi personali non era mai salito oltre il 10,9% ed era sceso sotto il 7,5% solo tre volte. Tra il 1992 e la prima metà del 2000, è piombato dall'8,7 allo 0,3%. Al contrario, l'indebitamento delle famiglie è volato, anche se, come percentuale del Pil, non ha raggiunto i livelli record degli anni '80, probabilmente perché l'indebitamento da parte delle famiglie lavoratrici per compensare la discesa delle entrate non era una pratica diffusa come nel precedente periodo. Comunque, nel 1999 il debito contratto dalle famiglie in proporzione alle proprie entrate disponibili raggiunse il livello massimo di tutti i tempi: il 97%, a fronte di una media dell'80% della seconda metà degli anni '80. Nello stesso periodo, dal 1994 al 1999, per ogni singolo anno le famiglie hanno venduto azioni per un totale di 218 miliardi di dollari. In parole povere, le aziende, con qualche significativo aiuto da parte dello Stato, dei fondi pensione, dei governi locali e delle compagnie di assicurazione, hanno realizzato quegli acquisti che hanno spinto al rialzo il mercato azionario, in larga parte attraverso l'aumento del proprio indebitamento. Le famiglie hanno tratto vantaggio dalla conseguente inflazione dei valori finanziari non solo per incrementare il proprio indebitamento e ridurre il loro risparmi, ma anche per realizzare notevoli guadagni di capitale 17.
Per rispondere alla richiesta di prestiti, schizzata alle stelle, da parte delle famiglie e delle aziende e per coprire l'accresciuto consumo e l'acquisto di azioni, le istituzioni finanziarie si sono dovute pesantemente indebitare. Tra il 1995 e il 1999, il debito del settore finanziario è cresciuto di due volte e mezzo e si è assestato intorno alla media del 10% del Pil, più del doppio della media del precedente decennio. Questo risulta evidente dal rapido incremento nella creazione di moneta. Tra il 1995 e il 1999, l'M3 è cresciuto a un tasso medio annuo dell'8,3%, rispetto all'1% annuo del periodo 1990-95. Una tale esplosione del debito nel settore finanziario non avrebbe potuto verificarsi senza la benedizione della Federal Reserve, che, se lo avesse voluto, avrebbe potuto, per esempio, aumentare i tassi d'interesse o contenere la domanda, in modo da tenere bassa la crescita del debito necessaria a finanziare l'acquisto di azioni e l'aumento dei consumi. Ma l'idea di contenere la bolla era puramente e semplicemente assente dai pensieri di Alan Greenspan. Infatti, durante gli anni 1998-99, il debito del settore finanziario si è mantenuto su una media del 12% del Pil, cioè a un livello del 75% più alto di qualsiasi precedente anno record. Negli stessi due anni, solo per essere sicuri che la liquidità disponibile fosse sufficiente a sostenere l'enorme frenesia che stava sviluppandosi, il governo, attraverso la Federal national mortgage association e la Federal home loan mortgage association, concesse la bellezza di mutui per 600 mila miliardi di dollari ai consumatori che volevano comprare una casa o altri beni. Il debito che il governo ha contratto per queste iniziative è stato pari a quasi il 30% di tutto il debito del settore finanziario in questi anni. Alla fine del 1999, le cifre del debito dei privati, delle compagnie, degli operatori finanziari erano arrivate tutte, in percentuale rispetto al Pil, a livelli record rispetto alla storia degli ultimi cinquant'anni degli Stati Uniti.

Consumi sfrenati

Mentre i risparmi crollavano, il debito montava e venivano realizzati grandi guadagni di capitale, la crescita dei consumi schizzava in alto, giocando un ruolo sempre più importante nel guidare la crescita economica. Dopo l'incremento percentuale del 2,9% annuo e un'incidenza di circa i due terzi sulla crescita del Pil tra il 1985 e il 1995, le spese delle famiglie sono cresciute a una velocità media annua del 4,2% tra il 1995 e il 1999, anno in cui queste ultime hanno contribuito per il 73% alla crescita del Pil. Del resto la Fed e il ministero del Tesoro contavano proprio su questa evoluzione per evitare il crollo dell'export che era in corso dalla fine del 1997. Nel complesso, dopo essere aumentato a una media del 2,4% tra il 1989 e il 1995, il Pil è cresciuto a una media del 4,15% tra il 1995 e il 1999. Di questa cifra, secondo la Federal Reserve, circa un quarto dovrebbe essere attribuito all'`effetto benessere' di un mercato azionario balzato alle stelle. Detto in altri termini, la corsa ai consumi sostenuta dal mercato delle azioni ha sostenuto a sua volta per circa un terzo la crescita del Pil in questo periodo. I salari reali hanno alla fine incominciato a crescere in maniera considerevole, tra il 1998 e il 1999, a una media del 3,3% nel settore non agricolo, dopo aver mantenuto una media dello 0,3% tra il 1986 e il 1996, fornendo un'ulteriore grossa spinta ai consumi in questi anni.
L'offerta interna non poteva sostenere questo livello di domanda. Nel periodo 1998-1999 l'incremento degli acquisti complessivi interni è andato superando quello della produzione interna del 25%. I beni prodotti all'estero hanno dovuto compensare questo gap, e le importazioni di beni e servizi in termini reali sono aumentate al ritmo strepitoso dell'11,2% annuo tra il 1985 e il 1995. Questa spinta al rialzo delle importazioni negli Stati Uniti è stata fondamentale nel rianimare l'economia mondiale dal 1995, e indispensabile nell'evitare che essa cadesse nella depressione in seguito alla crisi dell'Asia Orientale del 1997-1998. All'inizio degli anni '90, il deficit della bilancia commerciale si è nuovamente riaffacciato sulla scena, dopo i picchi record della seconda metà degli anni '80. Ma, dal '94-95, con l'economia che cominciava ad espandersi, la bilancia estera cominciò di nuovo a franare. Una volta crollata il tasso di crescita delle esportazioni contemporaneamente all'accelerazione dei consumi nel 1998, i disavanzi degli scambi e della bilancia commerciale esplosero. Nel 1999 e nel 2000 segnarono entrambi nuovi record.
Per finanziare questi disavanzi, gli Stati Uniti non ebbero altra scelta che scontare un crescente indebitamento per sostenere le passività degli acquirenti esteri. In ogni modo, gli investitori stranieri non hanno avuto molto bisogno di farsi convincere a investire in beni americani, e la corsa per riuscire ad accaparrarseli ha contribuito a far gonfiare ulteriormente la bolla. Il processo era già in corso nel 1995, quando il governo giapponese e quelli dell'Asia Orientale hanno cercato di mantenere bassi i loro tassi di cambio acquistando titoli di Stato Usa; e i privati hanno fatto altrettanto per trarre vantaggio dalla crescita del dollaro. Ma nel 1997 la composizione delle commesse estere è considerevolmente mutata. Nel tentativo di sostenere il crack della propria valuta, diversi governi dell'Asia Orientale sono stati obbligati a liquidare i propri patrimoni. D'altro canto, gli investitori privati si convincevano sempre più che gli Stati Uniti fossero un porto sicuro in un mondo minacciato dalla recessione e aumentavano i loro investimenti diretti sull'estero, assumendo un ruolo sempre più centrale nel mercato statunitense delle azioni e delle obbligazioni. Nei primi tre mesi del 2000 hanno contribuito per il 30% agli acquisti di azioni – rispetto al 15% del 1999 e al 7% del 1998 – e per il 40% del totale degli acquisti sulle obbligazioni, rispetto al 33% del 1999 e al 20% del 1998.
La crescita dell'apporto estero in questi mercati ha amplificato il boom finanziario statunitense, mentre i creditori oltreoceano hanno sovvenzionato direttamente e indirettamente la corsa ai consumi sostenuta dal debito, in modo che la domanda Usa potesse sostenere le loro esportazioni. Rimane il fatto che il grosso dei beni che essi hanno comprato potrebbe essere liquidato con relativa facilità. Gli acquisti privati di Buoni del Tesoro statunitensi, obbligazioni e azioni, tra il 1995 e la prima metà del 2000, ammontavano a circa 1600 miliardi di dollari, a fronte dei circa 900 di miliardi di investimenti diretti. A metà del 2000, i patrimoni Usa in proprietà del resto del mondo hanno raggiunto i 6,7 mila miliardi di dollari, ossia il 67% del Pil statunitense, rispetto ai 3,4 mila miliardi (ossia il 46% del Pil) del 1995. Di questi, 3,49 mila miliardi di dollari sono composti da Buoni del Tesoro, azioni e obbligazioni acquistati da risparmiatori privati, rispetto a 1,2 mila miliardi di dollari degli investimenti diretti 18. La dipendenza del benessere americano – e le prospettive di espansione su scala mondiale – da un volume mai visto in precedenza di acquisti di attività patrimoniali Usa da parte di stranieri, è innegabile. Altrettanto innegabile è la vulnerabilità del boom americano nei confronti di qualsiasi calo della fiducia da parte degli investitori esteri.

IV. Le dimensioni e il carattere del boom

Data la straordinaria montatura che la ha accompagnata, le dimensioni dell'espansione degli anni '90 e il conseguente boom dovrebbero essere considerati in prospettiva. Nel 1999 Alan Greenspan lanciava proclami: «In questo decennio stiamo assistendo negli Stati Uniti alla più grandiosa dimostrazione della capacità produttiva da parte di popoli liberi di operare nei liberi mercati”. Greenspan si era evidentemente fatto ammaliare dalla sua stessa creazione. Se si prendono i dati per il valore nominale, non c'è nessuna base per pensare che siamo entrati nella new economy – se per new economy si intende, in termini storici, uno stato di eccezionale (o almeno insolita) produttività e vitalità, e non soltanto un maggiore dinamismo rispetto alla lunga fase di flessione durata per due decenni dopo il 1973.
I risultati dell'economia Usa negli anni '90, considerati nel loro insieme, non si possono neanche lontanamente mettere a confronto con quelli del periodo 1945-73. Il ciclo economico è stato migliore, ma non in misura così straordinaria, rispetto al ciclo degli anni '80 (1979-1990) e a quello degli anni '70 (1973-1979). Inoltre, se consideriamo l'indice di sviluppo rispetto ai cicli precedenti, questo è dovuto interamente all'accelerazione della crescita avvenuta dopo il 1995 19. Fino ad allora, i risultati dell'economia americana negli anni '90 non erano riusciti a superare quelli degli anni '70 e '80, per non parlare degli anni '50 e '60. Anzi, in termini di crescita del Pil, la situazione era in realtà peggiore. Solo dal 1995 c'è stata un'autentica espansione. Ma anche il boom dei quattro anni e mezzo (dal 1995 alla metà del 2000) è stato, al suo livello massimo, appena paragonabile all'espansione economica durata ventitre anni, dal 1950 al 1973, in termini di crescita del Pil (4,15% contro il 4,2%); di produttività del lavoro (2,7% contro il 2,7%); di crescita dei salari reali (1,8% contro il 2,7%); o del tasso di disoccupazione (4,7% contro il 4,2%). E va detto anche che, a differenza della breve espansione attuale, in quel lungo periodo ci sono state parecchie fasi di recessione. Naturalmente, le dimensioni di questa lunga espansione americana avvenuta dopo la guerra non si possono neanche lontanamente paragonare alla crescita che ha avuto luogo in Giappone o in buona parte dell'Europa Occidentale.
Bisognerebbe anche evidenziare che il ritmo di creazione di posti di lavoro durante gli anni '90 è stato inferiore rispetto alle fasi espansive degli anni '70 e '80, e ha comportato indici bassissimi di occupazione, soprattutto perché l'espansione è partita, rispetto ai periodi precedenti, da una fase di ristagno del mercato del lavoro. Inoltre, la crescita dei salari reali è stata discretamente rapida soltanto a partire dal 1998. Infatti, fino al 1997 il livello reale del salario, nei settori non agricoli, non era più alto che nel 1992. Per quanto riguardava gli operai e i quadri intermedi, la situazione era molto peggiore: nel 1999 il loro salario medio reale non era riuscito a superare il livello del 1970, ed era ancora più basso del 5% rispetto al picco del 1979. Nel frattempo, come è noto, la distribuzione della ricchezza per tutto il corso degli anni '90 è andata via via peggiorando: tra il 1989 e il 1997, fra i livelli più alti di reddito l'1% ha aumentato il suo utile netto dell'11,3%; il 5% l'ha aumentato del 10%, e il 10% del 4%, mentre il 90% più povero della popolazione lo ha diminuito del 4,4% 20.
Insomma, l'elemento più significativo in tutto ciò, la crescita della produttività del lavoro raggiunta nel settore industriale a partire dal 1993, che è anche il dato più comunemente citato per indicare l'inizio della new economy, non è forse un risultato così straordinario se messo a confronto con quello degli altri paesi concorrenti. Mentre la produttività dell'industria americana è cresciuta a un tasso percentuale annuo del 4,7%, tra il 1993 e il 1999, la produttività di Francia e Germania è aumentata, rispettivamente, a un ritmo medio annuo del 4,25 e del 5% (durante il 1998). Nello stesso periodo, il tasso di produttività industriale giapponese è rimasto leggermente indietro, assestandosi su una media del 3,7%, ma è stato chiaramente tenuto basso dalla recessione (realizzando per un paio d'anni meno di zero nella crescita della produttività). In effetti, tra il 1990 e il 1998, la crescita della produttività del lavoro nei settori non agricoli in tutta l'area dell'euro è stata più o meno uguale a quella degli Stati Uniti, con una media di circa il 2% annuo, e la crescita della produttività di tutti i fattori produttivi è stata anche leggermente più alta 21.

Una nuova vitalità

Da tutto ciò che abbiamo detto finora, risulta chiaro che, se consideriamo che l'esplosione della crescita è cominciata nel 1996, il ciclo economico degli anni '90 ha segnato un miglioramento modesto rispetto a quello degli anni '70 e a quello degli anni '80, e il recente boom americano di quattro-cinque anni rappresenta soltanto una naturale discontinuità nel contesto di lunga stagnazione durata un quarto di secolo. Come bisogna interpretare i numeri? È evidente che durante il corso degli anni '90 l'economia americana ha dimostrato una notevole vitalità, che si è manifestata in diverse accelerazioni correlate negli investimenti e nella crescita della produttività nell'industria e nei servizi, dopo periodi piuttosto prolungati di stallo negli investimenti e di scarsi risultati nella produttività 22. Tra il 1995 e la metà del 2000, i valori reali della crescita delle infrastrutture industriali erano in media, rispettivamente, del 17% e del 9,7% rispetto al Pil, paragonate al 14,6% e al 6% dell'espansione (durata otto anni) degli anni '80, e al 13,4% e al 3,4% dell'espansione (durata nove anni) degli anni '60. Durante lo stesso periodo di quattro-cinque anni la crescita della produttività dei settori non agricoli ha tenuto una media del 2,7%, a fronte dell'1,6% del periodo compreso tra il 1990 e il 1995, e dell'1,4 tra il '73 e il 2000 23.
Alla luce dell'aumento del tasso di accumulazione del capitale, le cifre che indicano un parallelo incremento nella crescita della produttività del lavoro, anche se sovrastimate, dovrebbero apparire molto convincenti, a parte il problema di calcolo a esse connesso. Le ragioni sono abbastanza evidenti per quanto riguarda l'industria, semplicemente perché l'aumento della produttività e degli investimenti è stato così pronunciato, e si è concentrato proprio nel settore dove era atteso. Nel periodo tra il 1993 e il 1999, il tasso di crescita della produttività del lavoro nell'industria è stato maggiore di un terzo che nel periodo di espansione economica tra il 1982 e il 1990. Sembra dunque ragionevole vedere questo impressionante sviluppo come una conseguenza dell'aumento, nello stesso periodo, del 100% del tasso di crescita del capitale azionario, rispetto al periodo 1982-90. Le cose stanno così soprattutto da quando, per la prima volta dopo la lunga fase di crisi cominciata nel 1973, il rapporto lavoro-capitale è potuto crescere in modo consistente durante un'espansione, aumentando a un tasso medio annuo dell'1,8% tra il '93 e il '98, rispetto allo 0% registrato tra il 1975 e il 1979 e tra il 1982 e il 1990 24. È significativo che nel settore dei beni durevoli, la crescita della produttività del lavoro sia balzata al 7% circa nel periodo '93-'97, a fronte del 3,9% del periodo tra il 1982 e il 1990. È in questo settore che si sarebbe dovuta prevedere una distribuzione diseguale degli aumenti di produttività, poiché era qui che l'accelerazione degli investimenti era principalmente concentrata; con un incremento degli investimenti sui beni durevoli che ammontava al 12,3% tra il 1993 e il 1998, contro il 6,3% riferito ai beni non durevoli. È sempre in questo settore che si trovano le industrie con la crescita più forte: quelle di macchinari per l'industria e per il commercio (inclusi i computer), di componenti elettronici, tra cui i semiconduttori.
Gli aumenti di produttività nel resto dell'economia sono più difficili da valutare, a causa della loro estrema discontinuità. La produttività del lavoro nell'economia non industriale è cresciuta, tra il 1995 e il 1999, a un tasso medio annuo di circa il 2,4%, dopo aver avuto un incremento appena percettibile negli otto anni precedenti. Anche nel 1995, il livello della produttività del lavoro in questo settore era più alto del livello del 1977 di un modesto 4%. Il fatto che la produttività del settore non industriale non ha cominciato a crescere finché non si è verificata un'accelerazione della crescita della produzione, a partire dal 1996, ha portato un bel po' di analisti a considerare questo dato come un sottoprodotto di questa più rapida, forse insostenibile, crescita della produzione. Attraverso questo ragionamento, il boom registrato nella crescita della produttività del lavoro al di fuori del settore industriale è in gran parte un risultato delle maggiori pressioni sui lavoratori in risposta alla domanda che cresceva velocemente. Da questo punto di vista, l'aumento della produttività della manodopera nei settori non industriali è il risultato dell'accresciuta pressione sui lavoratori in risposta al rapido aumento della domanda. Si tratta di un elemento tipico delle ultime fasi del ciclo economico, quando la crescita degli investimenti naturalmente cala. In ogni caso, quel che mette in dubbio questo dato è che la crescita degli investimenti negli anni '90 sia stata, in maniera molto atipica, decisamente accelerata durante lo sviluppo del ciclo economico, facendo credere che l'aumento della produttività fosse determinato dall'aumento di macchinari e attrezzature a disposizione dei lavoratori, e non soltanto dall'aumento dei loro sforzi. La media annua della crescita negli investimenti nell'economia non industriale in termini nominali è stata di ben oltre il 10% durante l'espansione economica iniziata nel 1991 – una spesa pari a più del doppio di quella avvenuta durante l'analoga espansione negli anni '80, molto più inflattivi – e che ha raggiunto il suo apice durante la prima metà del 2000. C'è da aggiungere che, nello stesso periodo, gli investimenti in valori nominali nella produzione informatica e nel software sono aumentati, in riferimento al totale, dal 30% circa al 35%. È difficile credere che le aziende abbiano fatto spese così ingenti per un periodo così esteso, se queste non hanno contribuito in misura considerevole ai loro profitti attraverso un aumento sostanziale della crescita della produttività.
Il contenimento dell'inflazione durante gli anni '90 è in linea con la precedente analisi e non ha avuto un grosso impatto sulla variazione dei prezzi nella prima metà del decennio. In questi anni, la crescita dei salari reali è stata in realtà pari a zero, e dunque la spinta verso l'alto sia dei costi che dei prezzi è stata minima. Poiché l'aumento del Pil è stato in questi anni molto limitato, la crescita della domanda è stata anche più bassa che negli anni '70 e '80. È solo per sicurezza che la Federal Reserve ha aumentato i tassi d'interesse in misura molto drastica nel 1994. Quel che occorre spiegare è invece il basso indice dell'inflazione nel corso dell'ultimo quinquennio, se messo a confronto con la rapida crescita del Pil, con il notevole calo della disoccupazione e con il significativo incremento dei salari reali. Non c'è dubbio che l'indebolimento delle posizioni dei lavoratori ha continuato a costituire un fattore essenziale nel mantenere bassa la crescita dei prezzi. Durante la seconda metà degli anni '90 il sindacato del settore privato ha rappresentato in media meno del 10% della forza lavoro, nonostante gli sforzi della nuova leadership della Afl-Cio. Inoltre, a dispetto della bassa disoccupazione, l'insicurezza dei lavoratori è restata alta, mentre i licenziamenti e il turnover sono continuati a ritmo elevato e l'enorme quota di forza lavoro impiegata con salari bassi ha continuato a intaccare alla base la posizione contrattuale di coloro che erano meglio pagati. Mentre mercati del lavoro sempre più rigidi hanno naturalmente fatto crescere i salari in modo consistente, questi stessi mercati non hanno finora compresso i profitti o fatto salire i prezzi in maniera significativa, ed è abbastanza improbabile che lo facciano, per il semplice motivo che al momento attuale le corporations hanno il potere di determinare la crescita dei salari reali in linea con la crescita della produttività 25.
La principale forza attiva nel mantenere bassa l'inflazione nella seconda metà del decennio è stata probabilmente la crescita molto lenta dei prezzi dei prodotti industriali provenienti dall'estero e delle importazioni Usa, in conseguenza dell'alto corso del dollaro e delle condizioni critiche dell'economia estera. Soprattutto con l'economia dell'Asia Orientale in crisi, i prezzi delle importazioni di componenti industriali si sono mantenuti decisamente stabili. Oltretutto, data l'inerzia della domanda mondiale tra il '97 e il '99, i prezzi delle materie prime – e in particolare, del petrolio – si sono mantenuti bassi fino a poco tempo fa. In ultima analisi, poiché il valore del dollaro è lievitato nella misura nota, i beni provenienti dall'estero sono negli Stati Uniti molto più convenienti. In queste condizioni diventa estremamente difficile per i venditori americani di beni per il mercato far salire i prezzi. E, in ogni caso, è difficile far diminuire l'impatto antinflazionistico della rapida crescita produttiva dell'industria americana, che tra il 1995 e il 1999 ha contenuto l'incremento annuale del costo del lavoro a meno dell'1,2%. La crescita della produttività è stata significativa anche al di fuori del settore industriale, e il rialzo dei prezzi è stato tenuto basso in tutti i settori non agricoli, cioè non solo nel settore del commercio.
Infine, è questo il dato più interessante: il rapido incremento del capitale azionario, evitando per gran parte della durata dell'espansione l'aumento della quota di capacità utilizzata, nonostante la velocissima crescita del Pil, ha avuto un ruolo fondamentale anche nel contenere costi e prezzi. E, nonostante l'incredibile durata dell'espansione degli anni '90, la media dell'attività industriale all'inizio del 1999 era più di un punto percentuale sotto la media degli ultimi trenta anni. Per dirla in un altro modo, la quota di capacità utilizzata era un po' più bassa nel 1999 che nel 1993. Durante gli ultimi due anni e mezzo, dal 1997 alla prima metà del 2000, la crescita dei salari reali nei settori non agricoli ha avuto una media annua del 2,9%; mentre l'incremento del costo del lavoro nello stesso periodo si è assestato soltanto all'1,6% circa, poco più di quello del prezzo dei prodotti (1,4%).
Insomma, una crescita esplosiva dei consumi, conseguente a un ridimensionamento record dei risparmi e a una crescita senza precedenti dell'indebitamento privato, ha iniziato ad amplificare l'espansione Usa, nel 1996, e le ha assicurato continuità nel 1998. Ciò che ha distinto la traiettoria dell'economia di questi anni è il fatto che l'espansione rapida della domanda si sia incontrata con un'offerta cresciuta altrettanto rapidamente e con un'inflazione bassa: è cioè aumentata la produzione, ma non i prezzi. Alla fine, il fattore responsabile di questo miglioramento dei risultati è stata la grande crescita dei tassi di profitto al lordo e al netto delle imposte, che è cominciata tra il 1985 e il 1995 nel settore industriale, ma si è estesa a tutta l'economia tra il 1995 e il 1997. Essa ha determinato un notevole recupero, se non l'assoluta ripresa, di tutta la redditività dei settori non industriali, rispetto al boom postbellico. Durante gli anni '70, a causa della crescita del deficit della Federal Reserve, i creditori pubblici e privati costituivano insieme una percentuale del Pil del 50% più alta rispetto alla fine degli anni '90. Ma poiché i tassi di profitto erano notevolmente più bassi, le industrie avevano un surplus relativamente contenuto disponibile per gli investimenti, mentre una gran parte era sull'orlo della bancarotta. Il risultato fu `meno entusiasmo per il dollaro'; aumenti di prezzi relativamente alti e investimenti relativamente bassi; crescita della capacità produttiva e della produzione vera e propria in risposta a qualsiasi crescita nella domanda aggregata. Durante gli anni '80, il deficit pubblico e quello privato sono stati più alti, in percentuale del PIL, rispetto agli anni '70. Ma i tassi di profitto ancora bassi e i tassi reali d'interesse, giunti a un'altezza record, hanno mantenuto al minimo la crescita degli investimenti e della produttività. In questo contesto, con la crescita del debito che guidava l'espansione, l'inflazione è stata frenata da quella che sulla carta (ma anche in realtà) è stata la lentissima crescita dei salari, insieme a un dollaro molto alto durante la prima metà del decennio.
Al contrario, nel periodo iniziato alla metà degli anni '90, mentre i profitti, al lordo e (ancor di più) al netto delle tasse, hanno toccato le vette di metà anni '60 – l'incredibile crescita degli investimenti, la crescita della capacità e della produttività industriale per tutta la seconda metà del decennio – l'offerta interna è riuscita a sostenere la domanda sospinta dal debito in un modo che era stato impossibile per la maggior parte del lungo periodo precedente. Non sono stati soltanto tenuti bassi gli incrementi dei prezzi, ma si sono rimodellati i salari in ascesa senza troppa pressione sul tasso di profitto, almeno al di fuori del settore industriale (che era stato infatti compresso dal crollo dei prezzi mondiali nel 1998). Se una crescita della domanda `artificiale', basata sul debito e fondata in ultima analisi sul rialzo del valore delle azioni, è stata la forza che ha sostenuto il boom dopo il 1995, l'economia è stata capace di rispondere con un vigore ancora maggiore di quello dimostrato per lungo tempo.

V. Il boom può essere sostenuto?

Bisogna ovviamente cercare di capire se questo boom può essere sostenuto. Gli eccessi della bolla che hanno spinto il boom tanto in alto troveranno forse una propria nemesi in una specie di ipercorrezione verso il basso, come è successo in Giappone all'inizio degli anni 90? Consapevoli di questo rischio, le autorità statunitensi cercano di affidarsi alla sfrenata espansione dei consumi domestici negli Usa – prima che il trend si inverta – per dare all'economia una solida base, che permetta una tranquilla transizione dalla congiuntura di crisi internazionale degli anni 1997-98 a una sostenuta crescita globale. Stimolando un'espansione basata sulle esportazioni attraverso l'economia globale, e innescando di conseguenza un aumento della domanda estera di prodotti americani, l'aumento dei consumi negli Stati Uniti permetterà a sua volta – nell'ipotesi più favorevole – una crescita delle esportazioni americane pari ai livelli precedenti il 1997, permettendole di raggiungere i tassi di profitto di allora. Allo stesso tempo, si spera che gli investimenti non direttamente legati alla produzione continuino a crescere abbastanza rapidamente da sostenere l'aumento della produttività, almeno fino ai livelli di quattro-cinque anni fa, facendo quindi crescere ulteriormente il tasso di profitto del settore dei servizi. L'economia potrà allora rompere l'attuale circolo vizioso del consumo basato sul debito, gettando le basi per un boom delle esportazioni e degli investimenti; e stimolando, di conseguenza, una crescita dei valori azionari (che potrebbe nel frattempo subire una qualche `correzione', senza però andare incontro al collasso).
Intorno alla metà dell'anno scorso, l'economia statunitense sembrava svilupparsi nel modo auspicato dalle autorità americane. Stava crescendo in modo straordinario, a una velocità record per un'espansione economica. Nei dodici mesi precedenti, il Pil era cresciuto del 6,1%. Nello stesso periodo, la produttività della manodopera non agricola era incredibilmente cresciuta del 7% – molto più del già accettabile livello del 4,1% raggiunto l'anno precedente. Un tale risultato è quasi certamente dovuto all'aumento degli investimenti, che sono cresciuti in quell'anno del 14,2% con un incremento, calcolato in media d'anno, del 18% nel primo semestre del 2000. D'altra parte, malgrado il balzo del Pil e l'aumento della produttività, alla metà del 2000 i salari reali erano aumentati appena dell'1,4%, la metà rispetto al 2,7% dell'anno precedente, con un aumento, su base annua, di appena lo 0,8% nel primo semestre del 2000. Le aziende, intanto, aumentavano i prezzi dei loro prodotti molto più di quanto avessero fatto durante l'anno precedente, soprattutto nel primo semestre del 2000, periodo in cui l'aumento, calcolato su base annua, è stato del 2,7%. Per il capitale, le cose sarebbero potute difficilmente andare meglio. Non c'è quindi da stupirsi se, nel primo semestre 2000, i profitti delle industrie hanno registrato una crescita annua del 14% (senza calcolare gli interessi).
Intanto, l'espansione dell'economia statunitense riusciva a stimolare un aumento della crescita in diverse zone del mondo, soprattutto in Asia Orientale e in Europa Occidentale, beneficiando in cambio di un aumento del commercio internazionale. La Corea, per esempio, sembra ormai uscita dalla crisi. Le sue esportazioni verso gli Stati Uniti sono aumentate del 20-25% nel 1999 e nel primo semestre del 2000, mentre il Pil coreano cresceva dell'11% nel 1999, e si prevedeva una crescita della stessa entità nel 2000. Taiwan, Hong Kong e Singapore spuntavano risultati altrettanto incoraggianti. Le economie della zona euro, le cui esportazioni verso il mercato statunitense realizzavano un livello che non si vedeva dalla fine degli anni '80 – a un ritmo di crescita media annua maggiore del 3,5% – e un consistente calo della disoccupazione. In questo contesto dinamico di crescita internazionale ciclica, anche le esportazioni statunitensi sono aumentate a una velocità molto sostenuta – le esportazioni effettive di merci sono aumentate del 13,3% nell'anno conclusosi alla metà del 2000, a fronte del 2,2% del 1998 e del 4% del 1999. Il progetto politico prospettato dal trio Greenspan-Summers-Clinton sembrava in via di realizzazione, e la prospettiva di un lungo ciclo di crescita sembrava tutt'altro che irrealistica.
Per agevolare il raggiungimento del risultato auspicato, Greenspan invertì, tra il giugno 1999 e il 2000, la politica decisa nel 1998 – di una riduzione dei tassi di interesse per far aumentare il valore delle azioni – elevando i tassi di interesse a medio termine fino a un valore di circa l'1,75% (al momento in cui scrivo). Una misura piuttosto modesta, per non dire altro. Nell'estate 2000, l'aumento dei prezzi mostrava che, al momento in cui venivano avviate tali misure, i tassi di interesse effettivi non erano ancora riusciti a superare il loro livello precedente. Il presidente della Fed sembra sperare che, proprio come nell'autunno del 1998 la manifestazione del suo desiderio veder crescere il valore delle azioni aveva sospinto in alto le Borse – senza che ci fosse bisogno di ridurre drasticamente i tassi di interesse – bastasse sperare che esse non rallentassero la loro ascesa (senza essere costretti a prendere misure drastiche ma operando al massimo una modesta `correzione') per realizzare il risultato auspicato. L'obiettivo esplicito era di far diminuire i consumi domestici – e quindi le importazioni – congelando i mercati azionari 26.
Resta comunque da vedere se gli Stati Uniti possano raggiungere questo risultato senza mettere a rischio la loro espansione, e senza esporre il resto del mondo al rischio di stagnazione, per non dire peggio. L'economia americana deve concertare un nuovo corso economico più incentrato sulle esportazioni, come ha cercato di fare per tutto il 1997, accompagnato questa volta – questa sarebbe la soluzione ideale – da un aumento intensivo delle esportazioni non solo tra i partner commerciali americani, ma anche tra i suoi rivali. Una divisione sempre più concertata della divisione mondiale del lavoro potrebbe fornire, come è scritto nei libri di testo, sufficienti vantaggi a tutti per sostenere un'espansione coordinata a livello internazionale. Per dare maggior risalto all'intero processo, i settori non-commerciale e non-industriale dovrebbero sostenere un circolo virtuoso in cui gli elevati tassi di profitto producano un aumento degli investimenti e una crescita della produttività, con un diretto e rapido aumento dei salari e un'espansione dinamica del mercato interno.

Sovrapproduzione internazionale?

Ma il rilancio di un'espansione internazionale di tipo complementare anziché competitivo non può essere dato per scontato, come non può esserlo la prosecuzione del boom degli investimenti nel settore non-commerciale. In primo luogo, va ricordato che proprio fino al 1998 le economie dei maggiori paesi produttori – Stati Uniti, Asia Orientale, Europa Occidentale – si sono scontrate con la difficoltà, se non con l'impossibilità, di crescere e prosperare tutte nello stesso tempo, a causa della sovrapproduzione di merci a livello internazionale. Dal 1995, come abbiamo già visto, l'aumento del valore del dollaro e la forte crescita dell'economia statunitense hanno stimolato il rapido incremento delle importazioni americane, che a loro volta hanno innescato un ciclo di crescita in varie zone del mondo, facendo uscire il Giappone e l'Europa Occidentale dalla stagnazione, come avevano già fatto in occasione delle crisi della metà degli anni '70 e dell'inizio degli anni '80 (non era andata così nella prima metà degli anni '90, quando il rallentamento della crescita americana e la riduzione del valore del dollaro hanno provocato la recessione delle economie del Giappone e dell'Europa Occidentale). In effetti, nel 1997, la crescita del Pil dei paesi membri del G7 e dell'Ocse, presi complessivamente, ha raggiunto il valore massimo del decennio. Ma gli alti tassi di cambio americani, e il fatto che le economie dei paesi est-asiatici fossero legate al dollaro (così essenziale per esportare la ripresa in Giappone e in Europa Occidentale) portò in breve tempo al declino della competitività, alla caduta dei profitti e al rallentamento delle produzioni americane, oltre che a una crisi generalizzata in Asia Orientale, che, tra l'autunno e il dicembre 1998, ha minacciato di travolgere tutta l'economia mondiale, compresa quella americana, spingendola nella recessione; per non dire peggio. Il surplus produttivo, a livello internazionale, reso manifesto dalla crescente pressione verso il basso dei tassi di profitto nelle produzioni industriali internazionali, aveva ancora una volta fatto sentire i suoi effetti.
Secondo un'inchiesta condotta dall'«Economist» all'inizio del 1999, «A causa dell'enorme eccesso di investimenti, soprattutto in Asia, il mondo è inondato di computer chip, strumenti vari, macchine, prodotti tessili e chimici… Si valuta, per esempio, che l'industria automobilistica registri, a livello mondiale, un surplus produttivo del 30%; e in Asia si aprono ancora nuove fabbriche”. L'«Economist» continuava affermando che: «Nessun aspetto di questo surplus produttivo può essere ridotto rapidamente, perché le aziende squattrinate ricevono incentivi per tenere aperte le loro fabbriche, sia pur in perdita, e hanno così un minimo di profitti. La saturazione globale sta spingendo i prezzi inesorabilmente verso il basso. La svalutazione non può annullare il surplus produttivo; semplicemente trasferisce il problema altrove». Il risultato, conclude lo studio, è che il divario produttivo mondiale – tra la capacità industriale e il suo assorbimento – sta raggiungendo i livelli più alti dagli anni '30 27.
Dal 1998 in poi, come abbiamo visto, la crescita dei consumi sostenuti dall'indebitamento ha sostituito l'aumento della competitività produttiva e delle esportazioni come forza trainante dell'economia americana, permettendole quindi di continuare a gestire i problemi diffusi nel sistema. C'è da chiedersi ora se gli Stati Uniti possano, nel momento in cui i loro rivali sostengono un'espansione basata sulle esportazioni, invertire il processo. La ripresa internazionale, che dal 1999 si è rafforzata, non sembra rendere possibile un'espansione simultanea delle maggiori economie produttive del mondo. O, quanto meno, non ci riuscirebbe senza i benefici prodotti da un aumento del disavanzo corrente americano, che ogni anno registra un nuovo record; cioè senza la continuazione del boom dei consumi negli Stati Uniti. La crescita delle esportazioni statunitensi è in realtà dovuta principalmente a un'incipiente espansione economica internazionale, a cui ha contribuito in larga parte l'aumento delle importazioni statunitensi. Ma tutto ciò non manca di porre problemi, perché il livello delle importazioni Usa alla metà del 2000 superava di più del 30% quello delle esportazioni. Il che vuol dire che, per evitare un ulteriore inasprimento del disavanzo commerciale, le esportazioni devono in futuro aumentare a una velocità tripla rispetto a quella delle importazioni. Alla metà del 2000, si è calcolato che le esportazioni americane negli ultimi dodici mesi erano aumentate del 13%, e le importazioni del 22%. Se questo livello di crescita delle importazioni si mantiene inalterato per il resto dell'anno, le esportazioni dovranno crescere a un livello – inconcepibile – del 28,5% annuo, solo per mantenere l'attuale buco commerciale di 30 miliardi di dollari al mese. È perciò difficile prevedere come nel 2000 il deficit della bilancia corrente possa evitare di balzare al nuovo livello record del 4,5-5% del Pil.
Come è già accaduto nel 1996-97 (e anche nelle precedenti riprese cicliche della metà degli anni '70 e dei primi anni '80), i principali partner e rivali in Europa Occidentale e in Asia Orientale beneficiano, nell'attuale fase di espansione internazionale, di una combinazione di bassissimi tassi di cambio (in particolare l'euro debole) e di una eccezionale domanda di importazioni da parte degli Stati Uniti, con il risultato di un'accelerazione della loro crescita. Se la crescita del Pil degli Stati Uniti e la domanda americana dovessero calare, è difficile pensare che gli stimoli esteri alle esportazioni Usa aumenteranno. Anzi, affinché il mercato mondiale possa assorbire la crescita delle esportazioni Usa al livello attuale, è necessario che le importazioni e il deficit della bilancia corrente Usa aumentino in modo sproporzionato. È quindi necessario, perché l'economia americana e quella mondiale continuino a crescere, che continui a prevalere il modello attuale di espansione; sebbene ciò, ovviamente, non ridurrà, ma probabilmente accrescerà, il deficit della bilancia corrente.
Allo stesso modo, non è chiaro se la produzione industriale americana possa, all'attuale valore del dollaro, evitare facilmente quel tipo di pressione verso il basso sui suoi profitti e quel livello di accumulazione di capitale che ha già sperimentato nel 1998 e nel 1999, a causa dell'impatto della crisi economica internazionale. Nella prima metà del 2000, i profitti nel settore della produzione industriale (senza contare gli interessi) non sono riusciti a superare i livelli del 1997, anche se l'esportazione di merci è aumentata del 13%. Tutto ciò nonostante che le spese per consumi privati continuino ad aumentare, come hanno fatto nel 1999, allo stupefacente – e probabilmente insostenibile – tasso annuo del 5,35%. Ovviamente, la caduta dell'euro, in questo stesso periodo, non facilita le cose. Ma, ancora una volta, l'euro debole ha guidato la ripresa europea, che ha poi fatto aumentare le esportazioni americane.
In ultima analisi, la fonte principale della potenza dell'economia non-finanziaria statunitense dal 1995, e soprattutto dal 1997 in poi, è stata la sua capacità di mantenere, o aumentare, la sua redditività globale, nonostante la concomitante pressione verso il basso che colpisce il tasso di profitto della produzione industriale. Questa forza deriva, in primo luogo, dalle ottime prestazioni del suo settore non industriale, che ha registrato, tra il 1995 e il 1997, una netta crescita del proprio livello di profitti, e che, nel 1998-99, ha permesso di compensare il declino del tasso di profitto del settore industriale. In realtà, nella prima metà del 2000, i profitti totali (esclusi gli interessi) delle società non-finanziarie erano maggiori di 93 miliardi di dollari rispetto al 1997 e il settore non industriale contribuiva per almeno 3 miliardi di dollari a questa crescita. Come conseguenza, il tasso di profitto delle società non finanziarie – compreso il settore della produzione industriale – si è mantenuto nel 1999 allo stesso livello del 1997, e sarà probabilmente cresciuto nel 2000. Sulla base di questa ripresa della crescita, gli investimenti nel settore non industriale sono aumentati più che in tutta l'economia non-agricola dal 1995 a oggi, e soprattutto dal 1998, quando la crescita degli investimenti nel settore industriale sembra aver subito una seria battuta d'arresto 28. In compenso, con l'incremento degli investimenti nel settore non industriale, la crescita produttiva di questo settore, praticamente nulla negli ultimi vent'anni, è uscita dal suo torpore e ha registrato un'impennata, particolarmente marcata negli ultimi due anni. Visto poi il congelamento dei salari reali, l'aumento degli investimenti non ha prodotto solo una maggiore crescita produttiva, ma anche una maggiore redditività.

Lo spettro del Giappone?

Bisogna cercare di capire se tutto ciò può essere sostenuto. Infatti la crescita febbrile dei consumi privati non ha costituito soltanto un enorme incentivo per nuovi investimenti in impianti e attrezzature in questo settore non industriale, ma è stata anche indispensabile per renderli remunerativi; e ha permesso, nel 1997-1998, al settore industriale di limitare le perdite. Nonostante il collasso del tasso di crescita dell'export, passato dal 10% annuo in termini nominali nel 1985-1997 allo 0% nel 1998-99 – con la conseguenza di una caduta della competitività del settore industriale – il calo del tasso di profitto del settore industriale è stato contenuto: non è cioè sceso al di sotto del 10-12%; soprattutto perché tra il 1997 e la metà del 2000 il consumo dei beni durevoli era improvvisamente cresciuto al tasso fenomenale dell'11% annuo, a fronte di un tasso di incremento del 6,5% tra il 1991 e il 1997. Si tratta però di capire se questo repentino aumento dei consumi – che, nella seconda metà degli anni '90, ha spianato la strada all'incremento degli investimenti e ha attenuato la crisi del settore industriale – sia stato anch'esso determinato dalla riduzione del risparmio privato e dall'enorme incremento del debito delle famiglie. Ma, data la proporzione senza precedenti tra debito e reddito delle famiglie e la caduta del tasso di risparmio sotto lo zero, è abbastanza improbabile che il credito possa continuare a crescere tanto da sostenere l'aumento dei consumi; e che, di conseguenza, l'aumento dei consumi possa continuare a trainare l'economia.
C'è poi da considerare la probabile riduzione, se non la scomparsa, dell'effetto di prosperità generato dall'aumento vertiginoso del valore delle azioni. In realtà, se il valore delle azioni dovesse smettere di salire per un qualsiasi periodo di tempo, sarebbe difficile impedire un loro rapido crollo (dagli anni '90, l'acquisto delle azioni si è basato sulla previsione che il loro valore sarebbe aumentato progressivamente più di quanto ci si potesse attendere dal loro rendimento). L'economia statunitense si troverà allora in una posizione non troppo diversa da quella in cui si è trovato il Giappone quando è scoppiata la sua bolla. A causa dell'elevato valore della moneta, il settore industriale non può più rinnovarsi grazie alle esportazioni e non sarà quindi in grado di ri-dinamizzare l'economia. Con la caduta del valore delle azioni – e, di conseguenza, del credito e del consumo – i settori non-industriale e non-commerciale si troveranno privi di un mercato interno in forte espansione che possa valorizzare l'immensa crescita dei loro impianti. Essendo impossibile sfruttare la crescita della domanda internazionale, a causa del valore del dollaro, la caduta della domanda interna provocherà probabilmente una nuova stagnazione. Le aziende, prive ormai di quel capitale netto aggiuntivo di cui potevano disporre con l'alto valore delle azioni, non avranno solo maggiori difficoltà a farsi concedere prestiti, ma vedranno aumentare i tassi di interesse sulle loro attuali obbligazioni.
Se l'economia americana sarà costretta ad accettare un consistente rallentamento per fronteggiare la fine della bolla, non è affatto certo che ciò non finisca per generare una rottura. Infatti, se la crescita Usa sarà congelata, la riduzione delle importazioni americane provocherà probabilmente un rallentamento di tutta l'economia mondiale; con conseguenze imprevedibili, specialmente in Asia Orientale, una zona che ha strettamente legato la sua economia all'espansione rapida del mercato americano. Ciò rallenterà la stessa espansione delle esportazioni statunitensi. Ma interverranno allora senza dubbio ulteriori difficoltà. Perché se il Pil americano dovesse diminuire, facendo crollare in modo significativo il valore delle azioni, i beni statunitensi diventeranno in generale meno attraenti per gli acquirenti stranieri. Nell'ultimo periodo, gli acquisti esteri speculativi di azioni e obbligazioni di società statunitensi sono cresciuti a un tasso insostenibile. Ogni serio tentativo di vendere questi valori eserciterebbe una straordinaria pressione verso il basso sul dollaro. In questo caso, la Fed si troverebbe stretta in una morsa. Dovrebbe ridurre i tassi di interesse per fornire la liquidità necessaria al funzionamento dell'economia e alla difesa dei valori statunitensi, ma, allo stesso tempo, dovrebbe aumentare i tassi di interesse per attrarre un afflusso di fondi dall'estero e sostenere il dollaro in modo da finanziare il disavanzo della sua bilancia corrente. Ma di quanto dovrebbero essere elevati i tassi di interesse per contrastare l'enorme pressione verso il basso esercitata sul dollaro, se gli investitori esteri cercassero di liquidare il loro portafoglio? Una tale politica rischierebbe di innescare una caduta cumulativa tra i mercati dei beni e quelli monetari, che scatenerebbe il panico e la fuga dei capitali, con conseguenze devastanti sull'economia reale. Questo, come sappiamo, è quanto è successo in Asia Orientale tra il 1997 e il 1998. Ma, ovviamente, qui non potrebbe mai accadere.
 

Robert Brenner insegna storia alla University of California at Los Angeles; è autore di Merchants and Revolution (1994), e di The Economics of Global Turbulence, «New Left Review», I/229.
(Traduzione di Christian Raimo e Stefano Liberti.)
* Il saggio di R. Brenner è apparso nel n. 6 del dicembre 2000 della «New Left Review» con il titolo The Boom and the Bubble.
 

note:
1  Il calo di redditività del settore industriale era conseguenza dell'aumento della competizione internazionale, che ha portato ad un incremento della sovra-produzione. I tentativi fatti sia dai governi che dalle aziende di ridurre i costi e aumentare la competitività finirono per generare l'effetto opposto, esacerbando la produzione in eccesso e riducendo la domanda di accessori. La redditività rimase quindi bassa e la stagnazione proseguì. Si veda Robert Brenner, "The Economics of Global Turbulence", NLR 1/229, maggio-giugno 1998.
2  OECD, Economic Survey. The United States 1997, Washington DC, 1997, pp. 71, 176, n. 26.
3  Economic Report of the President 1996, Washington DC, 1996, p. 46; Rich Miller e altri, “How Prosperity is Shaping the American Economy", Business Week, 14 febbraio 2000.
4  Per questo e il precedente paragrafo, si veda R. Taggart. Murphy, The Weight of the Yen, New York 1996; J. B. Judis, `Dollar Foolish', New Republic¸ 9 Dicembre 1996.
5  Weight of the Yen; Ron Bevacqua, “Whither the Japanese Model?”, Review of Interantional Political Economy, vol 5, n.3, Settembre 1998, pp. 410-423.
6  Board of governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts of the United States. Flows and Outstandings [d'ora in avanti FRB, Flow of Funds], Table F.107 Rest of World (flows) e Table F.209 Treasury Securities (flows); OECD, Economic Survey. United States 1995; pp. 55-58; OECD, Economic Survey. United States 1996, Paris 1996, pp.49-51; OECD, Economic survey. United Survey 1997, Parsi 1997, pp.73-75. La differenza tra la somma dei titoli governativi e la somma dei titoli del Tesoro acquistati dal resto del mondo in questi anni è stata compensata dai titoli del government agency, buoni emessi da organismi come l'FNMA o la FIX.
7  Nel 1997 gli indici di profitto delle società finanziarie e non finanziarie al netto d'imposta toccarono quasi, rispettivamente, i valori massimi del 15% e il 9% raggiunti del 1965.
8  Cfr. OECD, Economic Survey. United States 1999, Paris 1999, pag.32, in particolare Figure 7. “Dopo un rapido incremento dal 1992 e la metà del 1997, gli utili delle società sono recentemente calati, e il contributo al reddito nazionale ha cominciato a precipitare.”
9  Bureau of Economic Analysis, “National Income and Product Accounts: Second Qaurter 200° GPD and Revised Estimates: 1997 Through First Qaurte 2000”, 20 Luglio 2000.
10  Sullo sviluppo della crisi finanziaria dell'autunno 1998, vedi Peter Warburton, Debt and Delusion. Central Bank Follies that Treaten Economic Disaster, London 2000, pp. 263-266.
11 Board of Governors of the Federal Reserve System, Flow of Funds Accounts of United States. Flows and Outstandings [d'ora in avanti FRB Flow of Funds], Tab. F.102 Non Farm Non-financial Corporate Business (flows); Tab. F.213 Corporate Equities (flows).
12  Daniel Bogler e Gary Silverman, US Risky Debt Threat to Banks, «Financial Times», 22 febbraio 2000.
13 Martin Wolf, Walking on Troubled Waters, «Financial Times», 12 gennaio 2000. Le cifre di Wolf non coincidono perfettamente con quelle del più recente FRB, Flows of Funds, ma sono abbastanza vicine.
14 FRB, Flow of funds, B.102. Balance Sheet of Nonfinancial Corporations, riga 37; Andrew Smithers e Stephen Wright, Valuing Wall Street: Proctecting Wealth in Turbulent Times, New York 2000, p. 10, Tab. 2.1, e pp. 146-154, 257. Il patrimonio netto è definito dal patrimonio finanziario più i beni immobiliari, impianti e software, e le scorte, per quello che normalmente costerebbe sostituirli, meno le passività.
15 Valuing Wall Street, pp. 226 e 227, in part. Graf. 22.1
16  FRB, Flow of funds, Tab. L.213 Corporate Equities (levels)
17  FRB, Flow of Funds, Tab. F.213 Corporate Equities (flows). La cifra qui fornita per i ricavi al netto da parte delle famiglie è derivata sottraendo le azioni acquistate al netto dai fondi comuni d'investimento per 882 miliardi in questi anni dai 1100 miliardi di ricavi al netto delle azioni in possesso di famiglie.
18  FRB, Flow of Funds, Tab. L.107 Rest of the World (levels). Tra il 1995 e il 2000, l'attivo al netto dei beni Usa in possesso di soggetti esteri è raddoppiato, raggiungendo 1400 miliardi di dollari, ossia il 14,2 % del Pil, rispetto ai 700 miliardi di dollari (ossia il 9,4 % del Pil appena cinque anni prima). «L'attivo al netto» qui significa semplicemente l'attivo al lordo in mano a soggetti esteri, meno il passivo dei soggetti esteri verso gli Stati Uniti (che qui includono il valore di mercato delle azioni straniere in mano ai residenti Usa).
19 In realtà, se si considera soltanto l'espansione degli anni '90, ovvero il periodo del ciclo economico dal punto in cui toccò il fondo e cominciò a risalire (ovvero il punto più basso), «questa non è stata l'espansione con il più alto tasso di crescita, [e] anche durante gli ultimi quattro anni, la crescita media ha soltanto raggiunto i livelli dell'espansione degli anni '80 ed è rimasta ben al di sotto di quella degli anni '60
20  Bank of International Settlements, 70th Annual Report 1999-2000, p.14; Lawrence Mishel et Al, The State of Working America 2000-2001 (edizione provvisoria), Ithaca 2000. p. 121, Graf. 2A; Lawrence Mishel et Al., The State of Working America 1998-1999, Ithaca 1999, p. 264, Tab. 5.6.
21  US Bureau of Labor Statistics, International Comparisons of Manufacturing Productivity and Unity Labor Cost Trends, Revised Data for 1998, «News Release», p. 7, Tab. B e p. 17, Tab. 1; Europe's Economies: Stumbling Yet Again?, «Economist», 16 Settembre 2000, p. 78, Graf. 2.
22  Nelle riflessioni seguenti, tendo ad accogliere, tanto per partire da una base di dati, le statistiche sull'economia revisionate dal governo, e provo a presentare un quadro coerente basato su queste. Ma occorre evidenziare che ci sono stati grossissimi cambiamenti nei metodi di misurazione statistica, e i numeri che vengono fuori potrebbero decisamente sovrastimare la crescita delle variabili chiave.
23 Bank for International Settlements, 70th Annual Report 1999-2000, p.13. Le cifre sulla reale crescita degli investimenti in questo periodo sono state messe in dubbio, perché queste sembrano, in parte, basate sull'attribuzione di riduzioni dei prezzi implausibilmente enormi a quegli elementi che hanno permesso la crescita degli investimenti. Ad ogni modo, il fatto che la crescita almeno nominale degli investimenti nell'economia industriale e dei servizi sia stata così veloce – con una media del 9% annuo durante l'espansione economica degli anni '90 (1991-2000), rispetto al 4,9 % degli anni '80 (1982-1990), quando l'inflazione era notevolmente più alta – dà un qualche credito alla prova che l'accumulazione del capitale è stata in realtà piuttosto veloce. Economic Report 2000, p. 326, Tab. B-16.
24  Nei cicli economici degli anni '70 e '80, venivano ottenuti guadagni nel rapporto capitale-lavoro soltanto durante le fasi di recessione, in conseguenza del precipitare delle dimensioni della forza lavoro, più che per la crescita del capitale azionario rispetto alla crescita della forza lavoro.
25  Naturalmente non c'è da dubitare che, se dei problemi collaterali nella domanda dovessero manifestarsi nella forma di una crescita della produzione e dei prezzi, la vischiosità dei salari farà aumentare i profitti oppure farà crescere l'inflazione.
26  Nell'autunno 2000, il desiderio di Greensapan si stava avverando, visto che l'indice S&P 500 era rimasto stagnante per mesi, e l'indice Nasdaq dei titoli tecnologici, parte centrale della bolla, era calato di circa il 40 %.
27  Potrebbe succedere ancora?, «Economist», 22 febbraio 1999. Come specificò parecchi mesi dopo la Banca per gli investimenti esteri: «La piaga dell'eccesso della capacità industriale in vari paesi e settori minaccia seriamente la stabilità finanziaria. In assenza di un'apposita riduzione o di un assorbimento di questa capacità in eccesso, i tassi di ritorno sul capitale continueranno a rimanere bassi, con effetti durevoli sulla fiducia e l'entità degli investimenti. Inoltre, la solvibilità delle istituzioni che finanziavano questa espansione del capitale rimane dubbia»: 69th Annual Report 1998-1999, Basilea 7 giugno 1999.
28  Nel 1998, ultimo anno per il quale disponiamo di dati attendibili, gli investimenti nel settore industriale (in termini nominali) sono calati al 2.6 %, a fronte del 10.8 % dei quattro anni precedenti, mentre gli investimenti nel settore non-industriale hanno raggiunto quota 13.2 %, a fronte del 9.1 % degli anni precedenti.