di Emiliano Brancaccio, "Rivista del manifesto", N. 44, novembre 2003
Ma chi l'ha detto che i `riformisti' del centro-sinistra non avrebbero
già pronto per l'uso un programma di politica economica? La verità
è che un programma (non scritto ma ampiamente condiviso) esiste,
ed esaminandolo non c'è da stare allegri. I fautori della lista
comune Ds-Margherita-Sdi per le elezioni europee, banco di prova ideale
per la nascita dell'agognato partito riformista, hanno infatti deciso di
cancellare dalla memoria gli ultimi due anni e di riannodare le fila del
loro vecchio progetto, che a grandi linee può riassumersi nel seguente
obiettivo: contrastare il deficit pubblico e il deficit commerciale attraverso
una continua, rigorosa compressione della spesa pubblica e del costo del
lavoro, ed evitando accuratamente di accrescere il peso della tassazione
sui profitti e sulle rendite. Per quanto sintetico, tale obiettivo rappresenta
il nucleo originario dell'orientamento dei riformisti nei più svariati
campi: dalla previdenza, alla sanità, all'istruzione, al mercato
del lavoro. E spiega per giunta l'irrefrenabile voglia di dialogo col governo
che colpisce, un giorno sì e l'altro pure, i principali leader della
coalizione di centrosinistra.
A nulla dunque sarebbero valsi la sconfitta elettorale del maggio 2001,
la recessione degli ultimi anni, lo sviluppo dei movimenti e le grandi
manifestazioni di piazza contro la libertà di licenziamento e contro
la guerra. I `riformisti' sono certi che il `biennio rossiccio' (come amano
definirlo) sia già morto e sepolto, che le recenti sconfitte della
sinistra politica e sindacale europea stiano lì a testimoniarlo,
e che i tempi siano quindi maturi per riprendere il cammino del contenimento
della spesa pubblica e dei salari assieme a Schröder, a Blair e, perché
no, al gollista Raffarin.
I riformisti non amano sentirsi dire che questa ostinata fedeltà
a un sentiero di politica economica già ampiamente battuto, praticamente
condiviso da destra e da sinistra, deriva dal fatto che oggi più
che mai le coalizioni politiche reputano il sostegno delle lobbies industriali
e finanziarie una condizione imprescindibile per la conquista del governo.
Essi preferiscono invece appellarsi all'assoluta necessità di rispettare
i vincoli macroeconomici imposti dal palinsesto europeo, una necessità
che è bene introiettare senza batter ciglio, dal momento che il
riformista, per esser davvero tale, è sempre tenuto ad assumere
il «vincolo delle compatibilità» (1) con lo stato di
cose esistente.
Visto in quest'ottica il cosiddetto vincolo esterno assume dunque le
forme e le funzioni di un lavacro per tutti i peccati. Dopotutto, è
ben noto che l'attuale palinsesto macroeconomico globale impone a tutti
i paesi eccetto uno (gli Stati Uniti, detentori della valuta di riserva
internazionale) di restringere la circolazione monetaria e di tenerla il
più lontano possibile dalla spesa pubblica e dai salari. I Trattati
europei rappresentano, in tal senso, il mezzo più indicato per tenere
a bada l'andamento di quelle variabili. Parafrasando il Morpheus dei fratelli
Wachowski, non sarebbe azzardato affermare che in fondo Maastricht è
una cosa molto semplice: è controllo. Un controllo che oltretutto
risulta particolarmente stringente in Italia. Come è stato osservato,
l'avanzo strutturale italiano sembra infatti essersi stabilizzato intorno
al 2% del Pil, e risulta peraltro continuamente minacciato da un rialzo
dei tassi d'interesse internazionali (2). In un simile scenario tutti sono
chiamati a far cassa per quadrare i conti, e garantire in tal modo la prosecuzione
della discesa del rapporto tra debito e Pil. Potrà dunque risultare
difficile da ammettere, ma in un simile contesto Fassino risulta legittimato
a scalpitare in favore della riforma previdenziale, così come D'Alema
può permettersi di informarci del fatto che il centro-sinistra al
governo non toccherà l'orrenda eppur virtuosamente sparagnina riforma
scolastica della Moratti, mentre Letta e Rossi si sentono autorizzati a
dichiarare che, semmai in finanziaria uscissero un po' di risorse, varrà
la pena di utilizzarle per detassare le imprese. Del resto, con la spesa
pubblica in gabbia da oltre un decennio, queste ultime rappresentano le
uniche depositarie della formula segreta per creare occupazione. Contraddirle
non sarebbe una cosa intelligente. Non sarebbe una cosa riformista.
I `riformisti' non sono cattivi, insomma. È l'Europa che li
disegna così. Con le elezioni del 2004, però, il gioco si
ribalta e i margini potrebbero, almeno in linea di principio, ampliarsi.
I riformisti, infatti, questa volta saranno chiamati a proporci un loro
disegno per la politica economica europea. Alcune premesse ci hanno indotti
a sperare che il loro programma potesse prefigurare un futuro un po' più
roseo proprio sui versanti della spesa pubblica e dei salari. Dopotutto,
il leader naturale della ipotetica coalizione sarebbe Romano Prodi, vale
a dire uno dei pochi in Europa ad avere di tanto in tanto sfidato l'ortodossia
sulle questioni fiscali e monetarie. Basti ricordare le sue affermazioni
sulla necessità di «dire in pubblico, francamente, ciò
che tutti noi ammettiamo in privato», vale a dire che «il Patto
di stabilità è stupido» (3), o sulla opportunità
di adoperare le riserve valutarie del Sistema europeo delle Banche centrali
per finanziare gli investimenti infrastrutturali.
I riformisti tuttavia sembrano esser nati per deluderci. Il programma
riformista di politica economica europea che va delineandosi appare infatti
tra i più ortodossi e conformisti che si potessero immaginare. Un
primo segnale emerge dalle dichiarazioni dello stesso Prodi, il quale sembra
aver compensato il timido passo avanti di un tempo con almeno due passi
indietro, entrambi nella direzione del più gretto e funesto rigore
contabile. In una recente intervista, Prodi ha infatti dichiarato che il
Patto di stabilità è stato già «reso più
intelligente» dall'accoglimento delle ultime proposte della Commissione,
che da ora in poi il Patto andrà «applicato e rispettato come
è», e che egli non vede «nemmeno imminente una volontà
degli Stati membri di riformarlo» (4). Il riferimento è alle
nuove procedure di valutazione dei programmi nazionali di stabilità.
Introdotte quali contropartite della modesta concessione di un rinvio del
pareggio di bilancio, esse stabiliscono che i paesi tuttora in deficit
si impegnino ad attuare un aggiustamento annuo del loro disavanzo `strutturale'
pari ad almeno lo 0,5% del Pil. Il riferimento alla componente strutturale
del disavanzo è molto più grave di quanto non si pensi, poiché
con esso la Commissione ha voluto far intendere che tollererà soltanto
gli incrementi nel rapporto tra deficit e Pil dovuti alle oscillazioni
cicliche di quest'ultimo, mentre condannerà gli aumenti del rapporto
dovuti a variazioni autonome del primo. La Commissione, insomma, ha voluto
ancora una volta dichiararsi assolutamente contraria a un uso keynesiano
del deficit quale strumento attivo di gestione macroeconomica.
Non ci stancheremo mai di ripetere che simili scelte, dogmatiche e
sconcertanti, non hanno basi scientifiche su cui poggiare, e possono spiegarsi
soltanto con l'attuale, diffusa, interessata idiosincrasia europea nei
confronti della spesa pubblica (5). Ma la retromarcia di Prodi non è
finita qui. A proposito del piano Tremonti per le grandi opere infrastrutturali
in Europa, l'ex (e prossimo?) leader dell'Ulivo non solo ha evitato di
criticarlo ma ne ha pure implicitamente rivendicato la paternità,
ricordando che «la Commissione lo aveva già pronto ben prima
del governo italiano». In questo modo Prodi ha implicitamente rivelato
di non avere nessuna intenzione di mettere sotto accusa la gigantesca contraddizione
di quel piano: originariamente destinato al reperimento di finanziamenti
pubblici per la realizzazione di beni pubblici, il piano per le grandi
opere si è ben presto trasformato in un progetto volto all'emissione
di garanzie pubbliche a favore di finanziatori privati per la realizzazione
di un insieme molto più circoscritto di opere, vale a dire soltanto
quelle in grado di generare profitti. L'inatteso passaggio dai crediti
pubblici a quelli privati implica cioè che le infrastrutture da
realizzare restino confinate nel campo dei beni privati o privatizzabili
(la diatriba sui pedaggi per l'uso del ponte sullo Stretto è emblematica,
in tal senso). I beni pubblici in senso tecnico, invece, essendo per definizione
capaci di generare miglioramenti di benessere diffusi ma non necessariamente
profitti diretti (si pensi all'istruzione o alle opere di salvaguardia
dell'ambiente), verranno inevitabilmente estromessi dal grande piano, con
buona pace per la tanto decantata sensibilità culturale ed ecologista
dei cosiddetti riformisti.
Con le sue ultime dichiarazioni, dunque, il presidente Prodi non si
è limitato a definire i contorni dell'involucro partitico nel quale
gli piacerebbe operare, ma si è pure dedicato alla specificazione
dei contenuti programmatici dello stesso, e alla fissazione dei paletti
da non oltrepassare. Paletti piantati così stretti che Prodi è
stato capace di creare un certo imbarazzo persino all'interno della Fondazione
Italianieuropei, dove un gruppo di riformisti della prima ora capitanati
da Visco e Pirani aveva osato rimettere in piedi la vecchia proposta di
rilancio della spesa pubblica attraverso l'emissione di eurobonds sganciati
dal limite del 3% sancito dal Trattato Ue (6). A quanto pare l'idea è
stata frettolosamente accantonata, attraverso un sollecito rientro nei
ranghi. Per il presidente della Commissione europea, infatti, è
ormai chiaro che per i prossimi anni non vi saranno margini per l'innovazione,
nemmeno per interventi di così modesta entità. Figurarsi
poi per quelli riguardanti la Banca centrale europea e il regime di governo
della moneta.
Verrebbe a questo punto spontaneo accusare il presidente Prodi di essersi
poco onorevolmente convertito all'ortodossia monetarista, e di aver definitivamente
piegato l'azione del nascente gruppo dei riformisti agli interessi del
grande capitale industriale e finanziario. La scoperta dell'acqua calda,
insomma. Tuttavia le cose non risultano così semplici. Basterà
ricordare che tra i principali sostenitori di una svolta espansionista
nella politica monetaria e fiscale europea c'è nientemeno che il
Fondo monetario internazionale (7). Ora, collocare idealmente il Fondo
alla sinistra della lista unica di Prodi sarebbe sinceramente troppo. Si
tratta pertanto di trovare una spiegazione più completa e plausibile.
Questa risiede, ad avviso di molti, in un sogno da tempo coltivato da tutte
le bandiere e le confessioni della tecnocrazia europea: quello di rendere
l'euro, al pari e in competizione con il dollaro, una vera e propria moneta
di riserva internazionale. Un obiettivo, questo, che esige tempo e assoluta
credibilità della nuova valuta, una credibilità che secondo
i più potrà conquistarsi solo attraverso il rigido controllo
dell'inflazione e dei bilanci, ossia tramite il contenimento della spesa
pubblica e dei salari. La gabbia macroeconomica di Maastricht, insomma,
non sarebbe stata creata al solo, evidente scopo di generare un colossale
effetto distributivo favorevole ai capitalisti industriali e finanziari
e alle loro accolite di manager, burocrati e professionisti. Quella gabbia
sarebbe sorta pure al fine di estendere l'effetto distributivo al mondo
intero: il sogno di un'Europa che, attraverso un euro forte e credibile,
concorre apertamente con gli Stati Uniti per la conquista dell'ambitissimo
ruolo di grande parassita globale.
In quest'ottica gli indirizzi generali di politica economica europea
tracciati da Prodi e rapidamente digeriti dal suo plotone di `riformisti'
assumono una connotazione al tempo stesso perversa e razionale, così
razionale da apparire implicitamente ineludibile anche agli occhi di economisti
per nulla affetti dalla sindrome del contabile(8). Quanto alla sinistra
europea, quella vera, la sensazione è che eviti di volare così
in alto per una strutturale, autolesionistica carenza di volontà
progettuale. Fatta eccezione per la meteora Lafontaine e le sue discutibili
target zones, o per i lodevoli benché incerti tentativi di Attac
e di altri settori del movimento in favore della Tobin Tax (9), la sinistra
europea si è finora limitata a pescare dalla stessa scatola degli
attrezzi della destra e dei cosiddetti riformisti, a un certo punto giungendo
persino ad affezionarsi alla golden rule del commissario europeo Monti.
Con i tempi che corrono e le poche forze in campo, potrà forse
apparire spropositata l'invocazione di un impegno della sinistra per la
definizione di un modello alternativo di politica economica europea. Il
problema è che, continuando a tralasciare questo impegno, le nostre
rivendicazioni sulla spesa pubblica e sui salari finiranno per risultare
poco credibili ai nostri stessi occhi. Con il risultato che l'assalto al
Welfare e ai diritti proseguirà indisturbato e apparentemente ineluttabile,
mentre la prospettiva socialista non troverà il benché minimo
spazio, nemmeno nelle nostre amabili discussioni da salotto.
note:
1 Franco Debenedetti, Non basta dire no, Mondadori 2002. Per
una recensione del libro, si veda, dello scrivente, Riformisti col vincolo,
«la rivista del manifesto», febbraio 2003.
2 Luigi Spaventa, Se il debito non cala più, «Corriere
della Sera», 17 ottobre 2003.
3 Romano Prodi, Discorso del Presidente della Commissione
Ue al Parlamento europeo, 21 ottobre 2002.
4 Intervista a Romano Prodi, «Il Messaggero»,
24 ottobre 2003.
5 Si veda, dello scrivente, Le servitù di Maastricht,
«la rivista del manifesto», luglio-agosto 2002.
6 Position paper sul Patto di stabilità e sullo stato
dell'economia europea, Fondazione Italianieuropei, 30 magio 2003.
7 Si veda ad esempio l'Imf Economic Outlook, settembre 2003.
8 Una delle rare varianti agli indirizzi di politica economica
descritti è riportata in Marcello De Cecco, Abbassare i tassi ricetta
sbagliata per la crescita europea, «la Repubblica-Affari & Finanza»,
3 marzo 2003. La variante ammette infatti la lieta eresia del finanziamento
monetario del deficit, ma al tempo stesso ribadisce l'assoluta esigenza
di una moneta forte, in grado di preservare la propria credibilità
e attirare capitali esteri.
9 Sulla Tobin tax si rinvia a Bellofiore e Brancaccio, Il
granello di sabbia: i pro e i contro della Tobin Tax, Feltrinelli 2002.
Sulla Tobin Tax all'interno del movimento, si veda, dello scrivente, Rivoluzionari
o moderati? Il caso della Tobin Tax, in: A. Burgio e L. Cavallaro (a cura
di), Marx. Discorso sul libero scambio, Deriveapprodi 2002.