Abolire il rentier globale

Emiliano Brancaccio,  La rivista del manifesto, N. 35, gennaio 2003


Dopo il successo del Forum sociale europeo e a pochi giorni dall'apertura del terzo Forum mondiale di Porto Alegre, il movimento attraversa una delicata fase di maturazione. Nel corso dei dibattiti di Firenze è infatti emersa, in più occasioni, una forte sollecitazione ad andare oltre i no alla guerra, al razzismo e a un neoliberismo non sempre ben definito, per aprire finalmente un confronto serrato sulla 'visione' del sistema economico e sugli indirizzi generali di politica economica globale.
Questa sollecitazione si scontra ovviamente con gli attuali limiti del movimento. Come hanno giustamente sottolineato Lucio Magri e altri, il popolo di Porto Alegre sconta gli effetti di una vera e propria cesura nella memoria storica, che ha reso farraginosa, ancor prima che conflittuale, la comunicazione tra le generazioni, e ha rallentato il confronto con le grandi sfide del secolo scorso. In un certo senso, è come se questa riluttanza a guardarsi indietro abbia fatto sì che gli immensi interrogativi del '900 sul modo di produzione capitalistico, sugli estremi istituzionali del piano e del mercato e più in generale sul potere e sul suo esercizio, siano rimasti sospesi per aria in attesa di una risposta. Un così difficile rapporto con la storia è stato finora esorcizzato, e talvolta ingenuamente ostentato, richiamandosi allo slogan zapatista del "camminare domandando". Tuttavia questa parola d'ordine comincia a star stretta a molti, e in particolare a coloro che vedono nel movimento una forza potenzialmente in grado non solo di contrapporsi alla guerra, ma anche di incidere sul corso degli eventi economici.
Attribuire questa prospettiva ambiziosa a una moltitudine così giovane e incerta potrà sembrare smodatamente futuristico, e quindi fuori luogo. D'altro canto è innegabile che per la sua proiezione al tempo stesso planetaria e no global, e per l'ostilità nei confronti del Fondo monetario e delle altre istituzioni internazionali, il movimento appare guidato da una serie di intuizioni politiche di enorme rilievo. Tra queste, come vedremo, assume particolare significato la condanna della speculazione finanziaria e dei creditori internazionali, e più in generale la denuncia dell'espansione sempre più oppressiva delle rendite a livello globale.
Per rendita, si badi, qui intendiamo il reddito derivante dalla proprietà di un bene che può essere naturalmente scarso, come l'acqua, ma che può anche essere reso artificialmente tale, come è il caso della moneta. Nella rendita vanno quindi inclusi i tassi d'interesse sui prestiti al netto del rischio, i quali rappresentano tra l'altro la base su cui vengono a determinarsi i tassi di profitto sul capitale. Vale la pena di notare che in quest'ottica i termini 'rentier' o 'capitalista' divengono entro un certo limite interscambiabili, e il limite consiste semplicemente nel fatto che soltanto al secondo spetta la decisione di allocazione dei capitali tra i vari settori e la conseguente assunzione dei rischi. Ora, il movimento ha finora istintivamente compiuto degli attacchi sia alle alte rendite che ai meccanismi di allocazione concorrenziale dei capitali, e quindi alla connessa dinamica dei margini di profitto. La denuncia delle crisi generate dalla speculazione finanziaria rappresenta, in tal senso, una implicita messa in discussione della presunta efficienza delle allocazioni decentrate proprie del mercato, e costituisce pertanto una possibile strada per recuperare e aggiornare i vecchi dibattiti sul piano. Ad ogni modo, quella strada è ancora lontana. È opportuno tener presente, infatti, che il movimento è rimasto finora pressoché muto sui problemi del modo di produzione della ricchezza mondiale, limitandosi a denunciare la distribuzione sperequata e la composizione ecologicamente insostenibile della stessa. Ecco perché in questa sede soffermeremo l'attenzione sui soli aspetti del conflitto distributivo, ossia sull'attacco alla rendita e al rentier-capitalista che, in modo più o meno consapevole, il popolo di Porto Alegre conduce.
La ribellione nei confronti dell'illegittimo potere del rentier ovviamente non è nata a Seattle. Essa trova antichi precedenti nella definizione aristotelica di prezzo giusto e nella lotta all'usura dei filosofi cattolici del XIII secolo. I filosofi morali condannavano però la rendita in termini puramente etici e normativi. Spettò invece a Marx, a Keynes e alla connection tra i due avanzata dagli economisti anglo-italiani di Cambridge rivelare la natura oggettiva della rendita, la sua stretta correlazione con il profitto e le modalità in cui essa tende a manifestarsi e a diffondersi all'interno del sistema capitalistico. In particolare, la Marx-Keynes connection permise di contestare il ruolo di motore dell'accumulazione e del progresso economico che gli esponenti dell'ortodossia neoclassica attribuivano al tasso d'interesse. Nella visione Marx-Keynes i tassi d'interesse assumono infatti il carattere prevalente di mera rendita, generata dalla scarsità artificiale del denaro e dalla concentrazione dello stesso nelle mani di pochi. Quanto più il denaro è scarso e concentrato, tanto più i tassi d'interesse crescono, il che consente ai rentiers (e ai capitalisti) di accaparrarsi la massima quota possibile del surplus sociale esistente, principalmente a scapito dei salari e della spesa pubblica.
Nel corso degli anni '60 e '70 la Marx-Keynes connection suscitò dibattiti accesissimi, concorrendo con altre visioni del mondo a una contesa delle idee di portata storica. Il fermento di pensiero critico dell'epoca venne tuttavia soffocato dalla restaurazione ideologica degli anni '80, che non a caso coincise con un radicale cambiamento a livello mondiale negli indirizzi di politica economica. Inaugurato dalla nomina di Paul Volcker al vertice della Federal Reserve, il cambiamento si manifestò soprattutto nei divorzi tra Banche centrali e governi, nella tendenza alla restrizione monetaria permanente e nella forsennata liberalizzazione dei movimenti di capitale, misure promosse per sottrarre la moneta dall'arena del conflitto distributivo e rispettivamente finalizzate a renderla di esclusiva proprietà privata, artificialmente scarsa ed estremamente mobile. La conseguenza di tutto ciò è semplice quanto drammatica: anche considerando le recenti tendenze al ribasso, di natura meramente congiunturale, nell'ultimo ventennio i tassi d'interesse reali (calcolati cioè al netto dell'inflazione) sono stati alti e instabili come mai era accaduto prima nella storia dell'umanità.
I livelli elevati e le oscillazioni dei tassi d'interesse rappresentano il dato unificante, quello che attraverso svariati canali ha segnato la vita quotidiana di miliardi di persone. Basti pensare all'aumento delle tasse sul lavoro e alla riduzione dei fondi pubblici destinati al Welfare, misure in gran parte causate dal restringimento dei finanziamenti delle Banche centrali alla spesa statale e dalla necessità di far fronte alla contemporanea espansione della spesa per interessi a favore dei possessori di titoli del debito pubblico (un fenomeno, questo, verificatosi in modo trasversale nel Nord e nel Sud del pianeta, in Italia come in Brasile). Oppure, riguardo all'ambiente, si pensi alla stretta correlazione esistente tra l'aumento dei tassi d'interesse pagati dai paesi indebitati e lo spaventoso incremento dei ritmi di sfruttamento delle risorse naturali di quegli stessi paesi, uno sfruttamento finalizzato al vano tentativo di rimborsare i prestiti per liberarsi dalla morsa dei creditori. Se poi guardiamo al lavoro, scopriremo che gli elevati tassi d'interesse reali hanno fortemente influenzato le dinamiche contrattuali, contribuendo ad accrescere i margini di profitto a danno dei salari e dell'occupazione (a tal proposito, si può notare che gli shock più significativi nel rapporto tra profitti e salari si sono generalmente verificati in seguito all'ampliamento del divario tra i tassi d'interesse e il tasso di crescita del Pil).
Queste tendenze, che hanno impedito ai lavoratori di godere dei guadagni di produttività di un intero ventennio, in Europa vengono oggi cristallizzate nella linea d'azione della Banca centrale, che minaccia esplicitamente di elevare i tassi d'interesse al primo accenno di rivendicazione da parte dei sindacati. Ciò significa che nell'attuale scenario di politica economica le istituzioni monetarie si sentono autorizzate a controllare i lavoratori manovrando sui tassi, ossia agitando continuamente lo spettro della recessione e della disoccupazione. Un orientamento, questo, che si auto-legittima nel corso delle crisi valutarie, in cui le banche centrali contrastano le vendite speculative e le fughe di capitale elevando i tassi d'interesse a livelli inauditi, al fine di ammansire i sindacati, comprimere i salari per contrastare le svalutazioni e convincere così i creditori a non abbandonare i paesi sotto attacco. Solo per citare un esempio emblematico, si può ricordare che il Brasile è stretto proprio in una morsa del genere, il che significa che, a meno di un fortissimo sostegno internazionale all'ipotesi di rinegoziazione degli oneri finanziari, la coalizione progressista guidata da Lula (nonché i vari enti locali a bilancio partecipato) rischiano di soccombere sotto l'insostenibile pressione dei creditori.
Nel corso degli ultimi vent'anni, insomma, la proprietà privata, la scarsità e la mobilità della moneta e i conseguenti elevati livelli dei tassi d'interesse e di profitto hanno duramente inciso sulle condizioni del lavoro, dell'ambiente e dello Stato sociale, sia nel Nord che nel Sud del mondo. L'estrema difficoltà di modificare le norme relative al funzionamento delle Banche centrali e ai movimenti di capitale ha progressivamente indotto le sinistre, e in particolare i partiti socialisti europei, alla rassegnazione e all'ignavia nei confronti delle dinamiche in corso. Il movimento esprime, pertanto, la prima reazione a questo stato di cose dopo anni di colpevole silenzio. Esso infatti si interroga sui rapporti di dominio dei creditori sui debitori, denuncia le nefandezze e le oppressioni che sono scaturite da quei rapporti e afferma l'assoluta necessità di ribaltarli. Il movimento inizia inoltre a comprendere che l'alto costo del denaro ha colpito i lavoratori e i soggetti più deboli sia dei paesi ricchi che dei paesi più poveri. Una presa di coscienza, questa, che assume un inestimabile valore politico, perché delinea una convergenza di istanze tra soggetti apparentemente lontani, e perché consente di liberare il popolo di Porto Alegre da una nomea che non gli rende merito, quella di movimento puramente etico, normativo, un movimento che penserebbe 'soltanto agli altri e non a sé'.
Una volta però delineata la convergenza di istanze, si pone la necessità di individuare una soluzione, una linea d'azione razionale e condivisa che permetta al movimento di smuovere il dibattito politico, e che costringa soprattutto i partiti socialisti a interrogarsi sugli errori compiuti in questi anni. Questa linea d'azione dovrebbe consistere nel trascinare la moneta e le istituzioni che la governano al centro del confronto politico, al fine di promuovere tutte le misure atte a contrastare la proprietà privata, la scarsità e la mobilità della stessa: misure che vanno dalla radicale riforma in senso democratico degli statuti delle Banche centrali al ripristino dei controlli sui movimenti di capitale. Occorrerebbe in altri termini sostenere tutte le iniziative atte a ripristinare la sovranità politica sulla moneta e a regolare, segmentare, dividere tra loro i mercati finanziari mondiali. Il carattere no global del movimento verrebbe in tal modo reinterpretato, passando dall'incerto terreno delle lotte contro un liberoscambismo tutto da verificare, al solido e urgente obiettivo di riprendere il controllo politico dei movimenti di denaro. Inoltre, le rivendicazioni sul governo della moneta aprirebbero la strada a un progetto di politica economica realistico e colossale, basato sull'obiettivo di abbattere i tassi di interesse reali fino a posizionarli, in modo permanente e non congiunturale, intorno allo zero.
Gli effetti di un simile abbattimento dell'intera struttura dei tassi d'interesse sarebbero enormi, sia in termini di distribuzione della ricchezza prodotta che di composizione fisica della stessa. La prospettiva ideale della società senza rentiers tornerebbe in auge e una nuova stagione di conquiste per il lavoro, l'ambiente e lo Stato sociale verrebbe inaugurata. Dal punto di vista dei salari e delle condizioni di lavoro, l'abbattimento sistematico dei tassi d'interesse favorirebbe la riduzione dei tassi di profitto e aprirebbe spazi per la difesa e l'ampliamento dei diritti. Dal punto di vista della spesa pubblica, semplicemente collocando la media dei tassi d'interesse sui titoli di Stato al di sotto del tasso di crescita nominale del reddito, i singoli paesi potrebbero passare dai lacci soffocanti imposti dagli attuali avanzi primari alle grandi possibilità di cambiamento strutturale offerte da deficit primari oggi impensabili, il tutto in condizioni di perfetta sostenibilità del rapporto tra debito e Pil.
Per la sua proiezione internazionale, il movimento rappresenta, allo stato dei fatti, l'unico soggetto politico capace di inaugurare un confronto sulla riforma delle istituzioni monetarie globali e di promuovere un paradigma alternativo, basato sulla sovranità monetaria e sull'abbattimento dei tassi d'interesse. Un obiettivo così ambizioso potrà tuttavia esser perseguito solo se alla battaglia del movimento si affiancheranno, ai vari livelli nazionali, le spinte dei sindacati, dei partiti, e degli altri soggetti sociali sui salari, sulle condizioni di lavoro e sulla spesa pubblica, ossia sulle uniche leve di cui disponiamo per far saltare i vincoli ideologici all'inflazione salariale e al disavanzo pubblico dai quali dipendono la stabilità e la sopravvivenza dell'attuale palinsesto neoliberista di politica economica. La battaglia del movimento per il governo politico della moneta e per i tassi a zero, insomma, costituirebbe una forza propulsiva simmetrica e logicamente complementare alle rivendicazioni dei lavoratori e dei beneficiari della spesa pubblica sul surplus sociale esistente. Ed è proprio questa simmetria tra azioni di rottura a livello nazionale e proposte alternative a livello globale che offrirebbe una base più solida a quel legame istintivo tra il movimento e i lavoratori che, come hanno rilevato Cremaschi e altri, a Firenze ha trovato l'ennesima conferma, ma che necessita di una piattaforma comune per poter sviluppare tutto il suo potenziale.
Si potrebbe obiettare che proporre al movimento dei movimenti di identificarsi nella 'presa della Banca centrale' e in una versione 'conflittuale' del piano Keynes del 1943 sulla riforma del sistema monetario è operazione fuorviante, o quantomeno prematura. Il che sotto molti aspetti è vero. Tuttavia, ogni giorno che passa si acuisce la contraddizione tra l'assoluta necessità di aprire un confronto sul governo della moneta e l'ostinato, assordante silenzio delle istituzioni politiche su questo nervo scoperto del capitalismo globale. La rottura di quel silenzio produrrebbe una svolta e un'accelerazione straordinaria sul corso degli eventi. E consentirebbe al movimento di tener finalmente testa allo slogan, bello ma impegnativo, secondo cui 'un altro mondo è possibile'.