Emiliano Brancaccio, "Progetto lavoro", gennaio 2011
D: L’euro è giunto, durante la crisi “greca”, a un passo dal baratro. Ma c’è da chiedersi come mai abbia resistito tanto, essendo fondato - in assenza di un governo comune della politica economica e di un prestatore di ultima istanza - solo su alcuni parametri intrinsecamente restrittivi e recessivi. Si chiama “Patto di stabilità e convergenza” europeo, ma sarebbe meglio chiamarlo “Patto di instabilità e divergenza”, perché in fin dei conti è questo il risultato che produce. In più, con l’euro sono venuti meno quei meccanismi di riaggiustamento valutario che consentivano di riequilibrare le forti differenze di produttività e competitività fra i vari paesi, mentre la forte dinamica delle esportazioni della Germania, che rappresenta da sola un terzo dell’intera economia europea, tende a spingere verso l’alto il tasso di cambio, spiazzando le economie dei paesi più deboli, i cosiddetti “maiali” (Pigs: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) e gonfiando il loro disavanzo e debito pubblico. Ma allora il comportamento di un paese “virtuoso” come la “formica” Germania non è proprio la causa della crisi delle “cicale” e della crescente divaricazione dell’economia europea?
Fin dalle sue origini, l’Unione monetaria europea porta con sé
una contraddizione interna che con la crisi globale è emersa in
tutta la sua evidenza. Questa contraddizione può essere a grandi
linee sintetizzata nel fatto che la Germania è dotata di un grado
di centralizzazione e di organizzazione dei capitali superiore a quello
degli altri partners europei. Essa riesce quindi a generare incrementi
della produttività molto significativi e al tempo stesso a determinare
una dinamica salariale relativamente contenuta rispetto all’andamento della
produttività. Inoltre la Germania si caratterizza per una politica
economica che determina un volume complessivo
di spesa relativamente contenuto rispetto al reddito prodotto. Conseguenza
di ciò è che le imprese tedesche riescono a penetrare i mercati
esteri con estrema facilità.
Al contrario, le imprese degli altri paesi europei riescono più
difficilmente a inserirsi nel mercato tedesco. Il risultato è che
la Germania si ritrova con un sistematico eccesso di vendite all’estero
rispetto agli acquisti che effettua. Cioè di fatto la Germania si
ritrova con un sistematico surplus commerciale nei conti con l’estero.
Simmetricamente i paesi relativamente fragili nell’Unione monetaria
si trovano in una situazione esattamente opposta. Portogallo, Irlanda,
Italia, Grecia, Spagna e, in misura minore ma comunque significativa, anche
la Francia hanno una sistematica tendenza al deficit nei conti con l’estero.
Vorrei far notare che l’Italia si trova in una situazione particolarmente
complicata. Il nostro paese si è infatti caratterizzato in questi
anni per una crescita del reddito nazionale molto modesta. Ciò avrebbe
dovuto implicare anche una crescita relativamente contenuta delle nostre
importazioni. E invece noi registriamo un sistematico eccesso delle importazioni
rispetto alle esportazioni, indicativo di una fragilità strutturale
del paese. In definitiva, potremmo affermare che paradossalmente la Germania
è cresciuta in questi anni anche grazie al “traino” dei paesi in
disavanzo commerciale. Infatti buona parte della domanda che è andata
ad assorbire la capacità produttiva delle imprese tedesche è
venuta proprio dai paesi relativamente fragili dell’unione monetaria europea.
Sono gli stessi paesi che le autorità tedesche accusano di lassismo.
In un certo senso, lo potremmo definire un caso tipico di “ipocrisia macroeconomica”.
D. Adesso che i paesi relativamente fragili non riescono a fare da “traino”, cosa si sta immaginando?
Gli interessi prevalenti in Germania propendono per un’unione monetaria
europea che rifletta in maniera ancor più significativa l’impianto
del Trattato di Lisbona. L’idea potrebbe essere quella di “estremizzare”
Lisbona, cioè di fare dell’unione monetaria una sorta di Grande
Germania, che non cerchi più uno sbocco per le merci realizzate
all’interno dell’area euro, ma lo trovi in qualche modo all’esterno dei
confini europei. Se le cose andranno davvero in questi termini, assisteremo
a un processo di ulteriore centralizzazione e verticalizzazione degli assetti
capitalistici europei. Nei paesi periferici dell’Unione registreremo una
crescente mortalità delle
imprese e un crescente numero di acquisizioni di quelle che sopravvivono
da parte dei capitali tedeschi. Ciò significa che i paesi periferici,
che sono stati per un certo periodo fonte di domanda, si trasformeranno
con il passare del tempo in fornitori di manodopera a basso costo, in erogatori
di semilavorati e subforniture, e al limite in azionisti di minoranza di
un capitale centralizzato a prevalente controllo tedesco. Questa linea
di condotta ha certamente una sua logica. Essa tuttavia pone un problema
di domanda effettiva. E’ chiaro infatti che se l’Europa diventa una sorta
di “macchina da guerra” capitalistica a guida tedesca, si verrà
a determinare un ancor più rigido controllo delle capacità
di spesa interne. Di conseguenza si dovrà sperare che altri, gli
Stati Uniti o la Cina, agiscano da fonte di domanda effettiva, cioè
da “spugna” capace di assorbire la capacità produttiva esistente.
Non è detto tuttavia che una spugna esterna ai confini europei venga
a determinarsi.
L’attuale stato dei rapporti monetari ed economici internazionali appare
altamente conflittuale, per cui non è chiaro da dove possa emergere
una fonte di domanda effettiva esterna all’Europa.
D. E la politica?
Nel corso di questi anni le sinistre hanno invocato un governo politico
dell’Unione, e quindi un bilancio pubblico europeo, un coordinamento della
politica fiscale, una nuova disciplina dei trasferimenti e della politica
degli investimenti pubblici europei. E’ chiaro tuttavia che questi appelli
troverebbero terreno fertile sul piano politico
solo se e nella misura in cui il piano della Grande Germania venisse
sconfitto. E’ solo a seguito della sconfitta del progetto attualmente prevalente
che potrebbe aprirsi un varco verso l’alternativa di un’Europa politica,
e in un certo senso policentrica. Avvertiamo qualche scricchiolio riguardo
al piano tedesco. Faccio un esempio, forse il più eclatante. Abbiamo
avuto recentemente una serie di attacchi speculativi che hanno investito
i titoli pubblici dei paesi cosiddetti periferici: la Grecia e l’Irlanda
in primo luogo, ma anche Spagna e Portogallo (e il rischio di attacchi
sussiste anche per l’Italia e perfino per la Francia). Questi attacchi
sono stati per il momento relativamente contenuti solo perché la
Banca Centrale Europea si è resa finora disponibile a comprare titoli
pubblici per contrastare le vendite speculative. Dunque, il motivo principale
per cui finora non si è verificata una vera e propria esplosione
dei tassi di interesse pagati sui titoli pubblici dei paesi periferici
è l’intervento non convenzionale della Banca Centrale, che appunto
sta acquistando quei titoli, impedendo così che il loro prezzo crollasse
e che i tassi di interesse su quei titoli slittino di conseguenza più
in alto di quanto non siano già saliti. Ora, è ben noto che
questa manovra è stata realizzata senza il consenso delle autorità
tedesche, e non si sa se alla scadenza del mandato di Trichet continuerà
a essere perseguita.
Non è un caso che Axel Weber, attuale governatore della Bundesbank,
stia promuovendo la sua candidatura a capo della Banca Centrale Europea
sostenendo espressamente che la politica di acquisti non convenzionali
di titoli di stato dei paesi periferici deve terminare.
Se questa linea oltranzista prendesse il sopravvento, il rischio sarebbe
di vedere crescere talmente tanto i differenziali fra i tassi di interesse
da costringere i paesi periferici all’uscita dall’unione monetaria europea.
E questa è un’eventualità che viene da tempo contemplata
dalle autorità tedesche. A Berlino non appaiono realmente terrorizzati
dalla prospettiva che i paesi periferici si sgancino dall’euro e inizino
a svalutare. I tedeschi sembrano cioè ritenere che anche una eventuale
deflagrazione della zona euro non arresterebbe l’ormai inesorabile processo
di centralizzazione dei capitali europei a essi favorevole. Probabilmente
l’unica mossa per metterli un po’ in difficoltà e per aprire nuovamente
una dialettica sul futuro dell’Europa dovrebbe consistere in una messa
in discussione della libera circolazione dei capitali e delle merci all’interno
stesso dell’Unione. Per quanto possa apparire paradossale, un’eventuale
minaccia protezionistica da parte dei paesi periferici dell’Unione potrebbe
costituire l’unica arma dialettica in grado di riaprire i giochi e salvare
il progetto dell’Unione monetaria europea.
D. Invece le sinistre moderate hanno finora escluso totalmente tale questione.
Da questo lato della politica si è avuto nei confronti dell’apertura
globale e indiscriminata dei mercati un atteggiamento di sudditanza, per
non dire talvolta addirittura apologetico, che nulla ha a che vedere con
la tradizione dell’internazionalismo operaio. Perché è bene
chiarire un punto sul quale purtroppo troppi equivocano
a sinistra. L’internazionalismo del capitale, e cioè la piena
apertura globale dei mercati, dei capitali e delle merci, non c’entra niente
con l’internazionalismo del lavoro, che ha sempre significato solidarietà
di classe in primo luogo contro la guerra militare, e in secondo luogo
contro la guerra economica. Su questo equivoco
bisogna tornare a riflettere e bisogna far maturare una riflessione
critica. Del resto, le evidenze empiriche di cui disponiamo ci comunicano
che l’apertura globale dei mercati risulta correlata a un declino delle
quote dei salari sul Prodotto Interno Lordo.
D. Il cosiddetto “Patto del Calvados” tra Germania e Francia a tuo avviso può essere letto come un ammorbidimento dei tedeschi o una calata di braghe dei francesi?
Per il momento questo patto sembra rappresentare un passaggio meramente interlocutorio. Esso si presenta come una ulteriore testimonianza di una crisi politica in atto, di cui non siamo in grado di prevedere gli sviluppi. Almeno una cosa sembra esser chiara: il livello intergovernativo, cioè il livello dei rapporti tra governi nazionali, sta tentando di prendere il sopravvento sulle istituzioni comunitarie: se è vero che il Consiglio Europeo sancisce l’irrigidimento dei parametri chiesto dai tedeschi e al tempo stesso conferisce a se stesso un potere esclusivo di applicazione delle sanzioni, escludendo l’ipotesi di meccanismi sanzionatori automatici. Ripeto: non possiamo prevedere come andrà a finire. Per adesso ci troviamo di fronte all’ennesimo esempio del fatto che l’Europa si arrovella nella sua contraddizione interna originaria, quella di uno scontro tra la Germania egemone e tutti gli altri, inclusa in parte la Francia. Ma ancora sul ruolo della Germania credo che valga la pena puntualizzare un aspetto. A proposito della esigenza di scardinare il progetto di Grande Germania, è chiaro che sarebbe molto importante se emergesse all’interno della realtà politica di quel paese l’esigenza di rimarcare le responsabilità tedesche nella crisi politica europea in atto. Ad esempio sarebbe importante se i partiti tedeschi socialdemocratico e verde, unendosi in ciò a quello della sinistra alternativa, riconoscessero con determinazione che in assenza di una svolta nella concezione che la Germania ha dell’Unione sarà forte il rischio di una deflagrazione del progetto di unità europea. Tale deflagrazione non si potrà semplicemente imputare ai soli paesi cosiddetti “irresponsabili” ma si dovrà imputare in larga misura al paese egemone.
D. Passiamo alla questione del lavoro.
Come dicevo prima, bisognerebbe in primo luogo avviare una riflessione
critica sul rapporto tra globalizzazione capitalistica e movimento operaio
internazionale. Che è un rapporto antagonistico, in cui l’una sopprime
l’altro. Noi infatti registriamo che in caso di apertura indiscriminata
di un paese al mercato mondiale, e in particolare ai movimenti dei capitali,
si assiste a un declino relativo delle quote lavoro sul reddito e più
in generale delle condizioni e delle tutele del lavoro. Né si può
dire che la globalizzazione abbia favorito i lavoratori dei paesi poveri.
La crescita dei redditi pro-capite, e in particolare di quelli dei lavoratori
dei paesi meno sviluppati, avviene solo in quei paesi che hanno gestito
in termini molto attenti il processo di apertura dei mercati. Solo in quei
paesi che si sono protetti a lungo e che hanno controllato in modo dirigista
l’apertura dei mercati oggi assistiamo a un progresso relativo dei salari
e delle condizioni di lavoro. Stiamo parlando in primo luogo, ovviamente,
di Cina, di India e di alcuni paesi del Sud Est asiatico, come la stessa
Corea del Sud. Si tratta di paesi che hanno gestito l’apertura dei mercati
attraverso un forte ruolo dello stato e un massiccio uso dei controlli
e delle protezioni. Esclusi questi e altri esempi, l’apertura globale indiscriminata
dei mercati non sembra affatto aver favorito i lavoratori, compresi quelli
dei paesi poveri. Preso atto di questo, noi dovremmo interrogarci sul perché
nell’ambito delle sinistre socialdemocratiche, e di frange importanti delle
sinistre comuniste e di alternativa, sia prevalso in questi anni un orientamento
favorevole all’apertura dei mercati. Talvolta si sono raggiunti tali livelli
di adesione acritica che potremmo parlare di “comunisti liberoscambisti”.
Ecco, io credo sia giunto il tempo di prendere atto della insostenibilità
di questi ossimori e della esigenza di sottoporli a critica. Il motivo
principale, a mio avviso, è che in questa fase storica la possibilità
di immaginare un rilancio del movimento operaio a livello internazionale
è condizionata al ridimensionamento dell’apertura dei mercati e
alla necessità di concepire motori di propulsione dello sviluppo
interni ai confini nazionali o europei, piuttosto che motori da ricercare
all’esterno di questi confini. In altre parole, se vogliamo realmente scommettere
su un rilancio del movimento operaio internazionale, allora noi dobbiamo
sapere che difficilmente un simile rilancio potrà verificarsi se
i paesi continueranno a cercare sbocchi per le merci all’esterno dei propri
confini: questa ricerca, infatti, sarà strettamente collegata con
l’intensificazione del conflitto tra capitali e quindi con l’intensificazione
della guerra tra lavoratori in atto da tempo a livello mondiale.
In linea di principio, io vedo una sola obiezione che potrebbe essere
coerentemente mossa a questo ragionamento. E’ una obiezione che potremmo
fare risalire al Discorso sul libero scambio di Marx del 1848. Ma in genere
il Discorso di Marx viene citato a sproposito. Bisognerebbe infatti ricordare
che per tutto l’arco del
suo intervento Marx parla dei disastri e delle devastazioni provocate
dal sistema della libera circolazione dei capitali e delle merci. In particolare
egli si sofferma sui danni subiti dai lavoratori proprio a seguito del
processo di apertura dei mercati. E’ solo nelle ultime tre righe del Discorso
che Marx dichiara il proprio voto favorevole al libero scambio. Ma quel
voto egli lo giustifica espressamente in base all’idea che l’apertura globale
dei mercati avrebbe provocato così tante e violente contrazioni
del sistema, così tante e violente devastazioni, da accelerare la
crisi generale del capitalismo e quindi la rivoluzione mondiale. Questa
dunque era la tesi di Marx in un momento d’altronde particolare e rilevantissimo,
il 1848. La cosa curiosa dei nostri tempi è che a sinistra, in questi
anni, qualcuno sembra aver letto solo le ultime tre righe del Discorso
di Marx, trascurando tutto il resto del suo ragionamento. E invece bisognerebbe
sviluppare la riflessione di Marx alla luce di un secolo e mezzo di ulteriore
esperienza acquisita. E’ chiaro infatti che noi, a distanza di oltre 150
anni dal Discorso di Marx, sappiamo una cosa in più: che nel momento
in cui si scatena la crisi capitalistica – crisi preconizzata da Marx e
accentuata dalla libera circolazione dei capitali e delle merci – il meccanismo
di riproduzione del sistema può facilmente assumere una piega nazionalista,
neofascista e al limite razzista. Il modo in cui il sistema tenta di autoriprodursi
è un modo che noi sappiamo avere queste possibili caratteristiche.
A me questa sembra oggi una eventualità tutt’altro che remota. L’attuale
scontro tra posizioni liberoscambiste
e posizioni protezioniste, che finora si è sviluppato solo all’interno
degli assetti del capitale, rischia di assumere una piega reazionaria proprio
perché manca
il punto di vista del lavoro. Cioè proprio perché le
rappresentanze del lavoro appaiono imbambolate, silenti, paralizzate dal
liberoscambismo acritico che le ha caratterizzate in tutti questi anni.
Ovviamente, una volta presa coscienza di questa esigenza, cioè
di una revisione critica profonda delle posizioni del mondo del lavoro
e della sinistra rispetto all’apertura globale dei mercati, questa consapevolezza
va poi tradotta in proposta politica.
D. Per chiudere, dicci come secondo te.
Gli strumenti operativi, i criteri di intervento sono numerosi, e sono
da tempo oggetto di discussione. Personalmente ho avanzato un paio di indicazioni,
che potrebbero essere sintetizzate nei seguenti termini. La prima può
essere tradotta in uno slogan: se intendiamo “liberare” i lavoratori immigrati,
e più in generale tutti i
lavoratori, allora dobbiamo esser pronti ad “arrestare” i capitali.
A fronte cioè della tendenza tipica delle attuali destre populiste,
leghiste e neofasciste di incanalare le tensioni sociali in un risentimento
contro i migranti, e quindi di proporre la soluzione di bloccare i movimenti
di persone (soluzione molto di moda ed efficace sul
piano del consenso elettorale), le sinistre dovrebbero proporre di
bloccare i movimenti dei capitali. In questo modo si potrebbero ridefinire
le condizioni per una politica endogena, cioè di propulsione interna
dello sviluppo, anziché una politica ultracompetitiva che cerca
sbocchi all’estero.
In secondo luogo, si dovrebbe condizionare l’apertura dei mercati all’adozione
di un labour standard (uno standard del lavoro). Qui però occorre
intendersi sul significato dell’espressione. Per standard del lavoro di
solito si intende un livello minimo di regole a tutela del lavoro, per
esempio contro lo schiavismo o lo sfruttamento dei minori. Queste regole
sono state spesso invocate dalle imprese e dai lavoratori dei paesi relativamente
ricchi per contrastare il dumping scatenato dalle condizioni di lavoro
prevalenti nei paesi poveri. Ad esempio, la famosa “clausola sociale” di
cui si discusse negli anni novanta negli USA raccoglieva un’esigenza espressa
anche da parte dei sindacati di contenere le importazioni di merci dai
paesi che non applicassero determinati standard del lavoro. Da tempo l’Organizzazione
Internazionale del Lavoro ha fatto propria quest’interpretazione di “labour
standard”, e ha più volte proposto di inserirla tra le clausole
degli accordi mondiali di libero scambio. Ora, la definizione che personalmente
propongo prende gli aspetti della clausola OIL ma va anche oltre. Personalmente
infatti ritengo che il concetto di labour standard dovrebbe essere applicato
anche ai paesi più ricchi. Mi spiego con un esempio: la Germania
si caratterizza per una sistematica politica di contenimento dei salari
rispetto alla produttività; impone cioè da tempo un significativo
contenimento del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto
agli altri paesi. Ciò senz’altro contribuisce ad accentuare la capacità
delle imprese tedesche di penetrazione dei mercati esteri e la tendenza
sistematica della Germania ad accumulare surplus commerciali. Ecco, io
credo che si dovrebbe applicare una clausola di labour standard anche verso
la Germania. Se quel paese insiste con una politica di forte contenimento
dei salari in rapporto alla produttività, di fatto violerebbe il
“labour standard” e quindi dovrebbe essere sottoposto a misure di contenimento
dell’apertura ai suoi capitali e alle sue merci da parte dei mercati degli
altri paesi. Nella sostanza, la mia proposta si presenta come una sintesi
tra
la definizione di labour standard dell’OIL e una versione aggiornata
della “clausola della valuta scarsa” che Keynes propose nel 1943 per impedire
il riproporsi del dumping e della deflazione degli anni trenta. Questa
particolare soluzione, che potremmo definire di labour standard sulla moneta,
verrebbe applicata non solo ai paesi poveri ma anche a quelli forti, che
realizzano un surplus sistematico verso l’estero, che non collaborano al
riequilibrio dei rapporti internazionali e che favoriscono il dumping dei
salari e dei diritti.