Stefano Boni, "A rivista anarchica", febbraio 2004
Le identità sono il risultato di circuiti sociali che tendono
ad omogeneizzare il comportamento di chi vi appartiene per segnare una
distinzione rispetto all’altro.
Abbiamo bisogno di identità forti? Dobbiamo necessariamente
appartenere a gruppi e conformarci alla condotta collettiva? Le identità
sono modi di disegnare circuiti di appartenenza mediante un processo di
riduzione del plurimo al simile, di generazione di un’omogeneità
di sentimenti, di pratiche e di valori. Proprio nel distinguere e nel caratterizzare
ciò che fa parte dell’identità di un gruppo si giocano dinamiche
di potere: il potere di selezionare i valori condivisi e di diffondere
le pratiche considerate accettabili per chi appartiene al gruppo. Il potere
di omogeneizzare una pluralità e di generare una contrapposizione
verso l’ «altro». Negli ultimi decenni l’antropologia culturale
ha mostrato che le identità che ci vengono presentate come naturali
e inevitabili sono costruite e arbitrarie. Essendo culturalmente costruite,
le identità potrebbero essere decostruite, svuotate e riconfigurate.
Si possono quindi rifiutare dinamiche di appartenenza che mistificano la
lettura della realtà e inconsapevolmente richiedono subordinazione?
Si può ma spesso non si fa. Anche in circuiti antagonisti, anche
in circuiti libertari. È relativamente più semplice cogliere
il potere, al di fuori di noi, nelle istituzioni – nel carcere, nelle fabbriche,
negli ospedali, nelle caserme, nelle cliniche, nello stato –, è
più problematico prendere coscienza di come noi stessi riproduciamo
il potere nel vissuto quotidiano. Non ci sono ricette per abbattere queste
forme di potere discorsivo e sfuggevole se non la consapevolezza individuale
delle dinamiche sociali quotidianamente riprodotte e all’apparenza normali
e innocue.
Ordinare e raggruppare
La classificazione degli esseri umani prevede l’utilizzo di categorie
per mettere ordine e raggruppare le singolarità in modo da offrire
schemi cognitivi che permettono di «leggere» il sociale. Le
classi concettuali assumono una dimensione lessicale: «ragazza»,
«fascio», «marocchino», «barbone»,
«madre di famiglia», «rasta», «disobbediente»
sono termini che identificano ambiti di appartenenza e di condotta. Gli
individui entrano a far parte di gruppi con cui dovrebbero condividere
dei tratti e un modello di comportamento. Le identità sono il risultato
di circuiti sociali che tendono ad omogeneizzare il comportamento di chi
vi appartiene per segnare una distinzione rispetto all’altro.
Le categorie che utilizziamo per distinguere i gruppi non sono totalmente
arbitrarie. Alcune si riferiscono a fattori come il sesso, l’età,
la provenienza, l’occupazione, l’adesione più o meno formalizzata
ad associazioni. L’appartenenza alle categorie genera condotte differenziate.
La società si attende che una certa categoria adotti dei comportamenti
specifici e, in effetti, quelli che sono identificati come i membri di
quella categoria – per esempio «gli anziani» – adottano modi
di fare che noi riconosciamo come appropriati, adatti, congruenti con la
categoria in questione. Le individualità vengono incanalate in modalità
di condotta standardizzate che caratterizzano il loro gruppo di appartenenza.
La collettività si attende quindi un certa condotta e effettivamente
c’è una messa in opera della condotta attesa da parte dei membri
di un determinato gruppo. Il nostro vissuto e ciò che osserviamo
conferma la giustezza delle categorie che abbiamo elaborato: la maggior
parte degli «anziani» si comporta da «anziano»
perché i membri dei gruppi adottano – inconsapevolmente – condotte
conformi a ciò che ci si attende da loro. L’adesione all’ordine
sociale è una forza di conservazione che induce all’ubbidienza –
senza costrizioni fisiche – attraverso continui riferimenti simbolici che
entrano a far parte delle nostre disposizioni mentali e corporee. Si aderisce
alle categorie e si impara a categorizzare gli altri senza rendersene conto.
Quello che è arbitrario è la rappresentazione che questi
gruppi si danno e che noi riconosciamo loro. Questa congruenza tra comportamento
atteso – come si dovrebbe comportare un membro di un gruppo – e comportamento
reale – come si comporta un singolo che appartiene al gruppo – ci può
far credere che le categorie che noi abbiamo generato per comprendere e
ordinare il mondo siano dotate di un’essenza. Ci sarebbe quindi un modo
di fare, per esempio «maschile» – la manualità, il gusto
per il calcio, l’occupazione privilegiata di spazi pubblici, l’indisposizione
alle cure parentali, etc. –, che sarebbe insito nell’essere uomo e non
dovuto a come siamo stati abituati a concepire – e a riprodurre nella pratica
– la mascolinità. La conformità di condotta all’interno di
un certo gruppo sarebbe dovuta ad un’essenza intangibile comune – un carattere,
uno spirito, una natura condivisa – e non a un’operazione sociale di apprendimento,
ossia imparare a comportarsi come gli altri si attendono da noi.
I gruppi tendono a presentarsi come soggetti consolidati, con caratteristiche
antiche e immutabili, che hanno radici nella loro «natura».
Questo è un tratto accentuato nella essenzializzazione delle caratteristiche
di genere e di età ma anche nella appartenenza a nazioni: lo spirito
«italiano» avrebbe le sue radici – nella retorica fascista
ma anche dello stato repubblicano – nella Roma antica così come
quello «padano» avrebbe – improbabili – origini celtiche. L’appartenenza
ha bisogno di rappresentarsi come qualcosa di antico: gli scambi materiali
e immateriali che hanno caratterizzato l’intera storia dell’umanità
così come le trasformazioni di composizione genetica nei residenti
in una certa area – il mischio genetico della popolazione della penisola
è ovvio – sono negate. Si occulta la documentazione che mostra che
i gruppi sono frutto di continue ibridazioni. Si nega l’evidenza della
permeabilità delle società e della mutevolezza delle configurazioni
identitarie e dei tratti che vengono presentati come caratteristici di
un certo gruppo. Alla categoria di «anziano», così come
a quella di «donna» o di «romano» sono state attribuite
caratteristiche assai diverse nello spazio e nel tempo.
Continuo processo di ibridazione
L’identità non è immaginabile come isolata. Si caratterizza
per contrapposizione ad altre. Mentre si presentano identità distinte,
omogenee al proprio interno e irriducibilmente diverse dalle identità
contigue, i tratti di ciascuna identità sono frutto di un continuo
processo di ibridazione dove l’alterità entra a far parte dell’identità.
Eppure ogni identità si presenta come pura, difende i propri confini
reali e simbolici e ripudia quei tratti di alterità che sono entrati
a far parte del sé. La tendenza a valorizzare il «noi»
e a devalorizzare l’altro è un passo che si accompagna alla produzione
di identità. Il razzismo, il nazionalismo, il campanilismo, il maschilismo
nascono da una visione dell’alterità che si limita a confermare
stereotipi negativi.
Il pensiero libertario ha colto e si è posto in modo critico
rispetto alla costruzione di alcune identità rigide. L’appartenenza
nazionale è stata vista – come è – un processo di costruzione
di un senso di appartenenza finalizzato a minimizzare le sovversioni interne
e ad esaltare l’origine e la nascita comune. La critica a identità
rigide andrebbe estesa a tutte le identità di gruppo – quelle comunali,
regionali, etniche, razziali, politiche, di genere. In quest’ottica, per
esempio, non c’è una essenza maschile, come non c’è un’essenza
femminile: uomini e donne generano – seguendo modelli di identità
prevalenti – modi di agire distinti che pensano facciano parte della loro
natura ma – se confrontati con i diversi modi di intendere il maschile
e il femminile nelle diverse culture – si comprende che sono solo configurazioni
arbitrarie. Rendersi conto dell’arbitrarietà delle proprie appartenenze
identitarie – la nostra condotta è costruita e potrebbe essere costruita
in modi radicalmente diversi – è il primo passo per svincolarsene.
Si tratta di tornare a considerare gli individui in quanto tali, singolarità
irriducibili ad appartenenze vincolanti, non leggibili secondo gli stereotipi
che caratterizzano il gruppo. Si tratta, come singoli, di rifiutare modalità
di vestirsi, di rapportarsi agli altri, di discorrere, di pensare stereotipate.
Si tratta di liberare noi stessi dalle attese sociali degli altri e gli
altri dalle nostre aspettative. Si tratta di sabotare, nel vissuto, lo
stereotipo di quello che dovremo essere.
Andare contro l’identità non deve necessariamente – e forse
non può – sfociare in un rifiuto completo di categorie sociali.
Forse non si può immaginare un mondo dove si possa far a meno delle
classificazioni delle persone secondo criteri di appartenenza. Quello che
è possibile è rendersi conto che tutte le identità
sono costruite, mutevoli e ibridate. Essere coscienti dell’arbitrarietà
delle nostre classificazioni permette di apprezzare i singoli nelle loro
differenze, di cogliere la persona oltre le etichette che la società
gli assegna. La lettura delle appartenenze altrui diventa così debole
– non necessariamente un singolo rispecchia i tratti del gruppo in cui
lo abbiamo classificato – e fluttuante – la sua identità e quella
del suo gruppo sono soggette a continui cambiamenti. La lettura delle appartenenze
nostre permette di acquisire coscienza di dinamiche di potere che subiamo
inconsciamente e che dettano il nostro agire. Si può imparare a
sovvertire le aspettative degli altri rispetto ai comportamenti che si
attendono da noi.
I circuiti di appartenenza non si dovrebbero fondare su meccanismi
simbolici che richiedono un’obbedienza ma sulla condivisione cosciente
di valori, ideali e vissuti. Praticare la disobbedienza a questi vincoli
sociali – importanti quanto inconsci –, leggere gli altri e vivere se stessi
al di fuori di schemi prefissati diventa una pratica libertaria. Una pratica
che non può mirare ad una esclusività di una categoria di
«libertari», che non può fondarsi sulla contrapposizione
rispetto ad altre posizioni ma che trova il suo senso in una condivisione
ideale e in una pratica coerente priva di connotazioni precise.
Liberarsi da un potere prodotto socialmente ma che ci pervade un po’
tutti, liberare gli altri da un potere che riproduciamo un po’ tutti.