di Gianfranco Bettin, "Lo straniero", aprile 2004
A volte, nelle foibe, i condannati venivano gettati vivi, in certi casi
legati al cadavere di un giustiziato, per rendere la loro sorte ancora
più atroce. Si ha spesso l’impressione che anche la verità
venga gettata viva in una fossa di menzogne e ambiguità, quando
si parla delle foibe e degli eventi che resero tragico il destino di migliaia
e migliaia di persone, uccise o esiliate, poco prima e poco dopo la fine
della seconda guerra mondiale sul confine orientale italiano. Eppure, non
dovrebbe essere così difficile ormai riconoscere questa storia,
discernere torti e ragioni, vittime e carnefici, insomma far luce con onestà
ed equilibrio nel complesso viluppo di vicende che ha reso incandescente
dalla metà degli anni quaranta l’area giuliano-dalmata. Invece,
la recente istituzione di una specifica giornata del ricordo, dedicata
ai drammi delle foibe e dell’esilio degli italiani d’Istria e Dalmazia
(che non sono la stessa cosa ma il cui intreccio è ben presente
nell’esperienza di chi li ha vissuti e nel quadro storico dell’epoca),
ha riaperto vecchie discussioni e polemiche. Un po’ perché, come
ha scritto Enzo Collotti sul “manifesto”, “l’uso politico della storia
è così connaturato alla nostra classe politica, di destra
e di sinistra, che diventa sempre più difficile districarsi nel
groviglio di sentimenti, rimozioni, pentimenti, confessioni e riabilitazioni
a metà per cui il risultato della memoria e della storia condivisa
finisce per essere sempre una verità dimezzata” perdendo così
“la capacità di leggere criticamente la storia, a cominciare dalla
propria storia, che viene schiacciata dall’alternativa di essere ritenuta
verità assoluta o di essere condannata all’abiura”.
Così, appunto, l’istituzione di un giorno che poteva rappresentare
l’occasione per rivisitare e, per molti, incontrare per la prima volta
un dramma storico e umano non marginale e, anzi, conficcato nel cuore della
nostra storia di paese chiave nell’Europa della guerra fredda, ha rappresentato
una nuova occasione di bassa polemica politica, con certi post fascisti
(ma quanto post?) a tentare di “far pari” con la giornata che ricorda la
Shoah, il 27 gennaio, e certi vetero comunisti a scomunicare il 10 febbraio
come giornata “revisionista” o peggio, a concedere che forse, sì,
sono stati ammazzati anche degli innocenti nelle foibe e scacciati anche
un po’ di italiani per bene, però… Però: le colpe del fascismo,
e prima ancora del regime liberale italiano; e in fondo si trattava di
una guerra, di qualche episodio di giustizia sommaria; e le cose sono sempre
più complicate di quanto non appaiano; e verità e storia
non si possono tagliare con un coltello, eccetera. Tutto vero, ovviamente,
perché è sempre così, nelle vicende storiche, ma questo
non dovrebbe impedire di fissare alcune conclusioni nitide, di riconoscere
torti e ragioni (come anche una celebre canzone di De Gregori invita a
fare, contro ogni generalizzazione e contro ogni confusione di ruoli e
di responsabilità).
In primo luogo, non dovrebbe esserci alcuna diffidenza, tanto meno
alcuno scandalo, di fronte a questo “giorno del ricordo” come di fronte
a intitolazioni di luoghi pubblici che commemorino quegli eventi, come
avviene in diversi comuni. Non dovrebbe avere neppure particolare importanza,
in un paese che ha davvero fatto i conti con la propria storia, il fatto
che sia soprattutto la destra a insistere su questo. La destra occupa,
a modo suo, uno spazio che gli altri hanno lasciato vuoto. L’uso politico
della storia, di cui ha scritto Enzo Collotti, a proposito delle foibe
si è a lungo esercitato proprio nel creare questo vuoto di memoria
istituzionale e civile. Gli storici non avevano certo smesso di indagare,
neanche quelli di sinistra, su quelle vicende. E naturalmente i superstiti,
gli esuli, non avevano smesso di soffrire e di ricordare. Ma i politici
degli schieramenti dominanti – per diversi motivi: la realpolitik per la
Dc, le complicità e gli imbarazzi per il Pci – hanno fatto di tutto
per rimuovere quella brutta storia. Nel vuoto creato da questa rimozione,
si è inserita la destra neofascista e post fascista. Che abbia cercato
di approfittarne politicamente (ed elettoralmente) è un fatto. Che
abbia avuto sincere e ovvie ragioni per occuparsene è pure un altro
fatto, e per queste ragioni ha avuto campo libero su un tema che doveva
essere comune a tutti gli italiani e, anzi, a tutti gli europei dotati
di coscienza civile e di umanità. Ma non è “colpa” della
destra, se vogliamo usare queste categorie. È colpa degli altri,
semmai. La cui rimozione della questione ha anche contribuito – come in
un gioco speculare di oblii, utile a tutti – a velare le gravi colpe italiane
nei confronti dei popoli di quella che era la Jugoslavia, sia durante il
regime fascista sia ancor prima, col regime liberale, con le loro politiche
(certo più becere e spietate sotto il fascismo) di occupazione,
persecuzione, oppressione anche linguistica e culturale, oltre che militare
e politica. Utilizzare questi argomenti, oggi, da parte di chi ha contribuito
attivamente a farli dimenticare, utilizzare cioè i crimini italiani,
e soprattutto quelli fascisti, per bilanciare col loro peso i crimini delle
foibe, è davvero paradossale e disonesto. Meglio sarebbe, semmai,
aggiungere alla lunga lista degli orrori del fascismo di cui ci siamo liberati
il 25 aprile 1945 anche questi. E meglio sarebbe ricordare le responsabilità
della stessa Italietta nazionalista prefascista per vaccinarsi da un certo
ambiguo rilancio patriottardo da qualche tempo in voga.
La tragedia delle foibe e dell’esilio degli italiani del confine e
della costa adriatica orientale può essere commemorata certo contestualizzandola
storicamente ma anche focalizzando la nostra attenzione civile e istituzionale
sul fatto in sé, non avulso dal resto ma illuminato in tutto il
dolore e l’ingiustizia che lo segnano specificamente. Nella grande fossa
della storia, la verità di questo dolore e di questa ingiustizia
è ancora viva e chiede di essere riconosciuta e ascoltata. Non ha
alcuna importanza che vi sia qualcuno che tenta di specularvi sopra. Persone
orrende, ipocriti o cinici matricolati, sepolcri imbiancati hanno speculato
su tutte le giornate e tutte le date e intorno a tutti i monumenti più
solenni e condivisi della nostra storia. Questo non ci impedisce di continuare
a onorare quelle date e quei segni. Questo non dovrebbe impedirci di riconoscere
le vere ragioni che rendono possibile anche una memoria civile e istituzionale,
per così dire, della vicenda delle foibe e dell’esilio.
Certo, la memoria più preziosa e più autentica è
quella coltivata in fondo al cuore di un popolo, e nella sua coscienza.
Preziosa, vorrei dire, questa capacità di ricordare, quanto la capacità
di dimenticare. Dimenticare è a volte una vera e propria decisione
della mente, e in certi casi il modo più radicale e sano di elaborare
esperienze. Ma questo vale soprattutto per le singole persone, e per la
coscienza lunga di un popolo, capace di metabolizzare – di dimenticare
trasformando, cioè – anche i traumi peggiori. La trasfigurazione
istituzionale e rituale degli eventi serve proprio a questo. Ammettere
drammi come quello delle foibe e dell’esilio alla memoria collettiva, perfino
fissata in momenti e luoghi simbolici, sottraendoli all’ingiustizia dell’oblio
ma anche all’aggiunta di dolore e di rancore che deriva dal sentirsi rimossi
dalla storia comune, può essere parte feconda di questo consapevole
percorso di rielaborazione.