Intervista a Bruno Contini
realizzata da Barbara Bertoncin e Francesco Ciafaloni, "Una città",
n. 188, ottobre 2011
Una generazione che, nonostante sia meno numerosa, più istruita e flessibile e meno sindacalizzata, stenta a entrare nel mercato del lavoro; l’idea, sbagliata, che per fare spazio ai giovani ci si debba liberare dei vecchi; il problema del mismatch e di un’economia fondata sul basso costo del lavoro. Intervista a Bruno Contini.
Bruno Contini, già professore di econometria e economia applicata
presso l’Università di Torino, è fondatore e direttore del
Laboratorio R. Revelli, Centre for Employment Studies del Collegio Carlo
Alberto. Negli ultimi vent’anni i suoi interessi di ricerca si sono concentrati
sull’analisi del mercato del lavoro e degli effetti economici dell’invecchiamento.
Ha curato, tra l’altro, Osservatorio sulla mobilità del lavoro in
Italia, Il Mulino 2002, ed Eppur si muove: persistenze e dinamiche nel
mercato del lavoro (con Ugo Trivellato), Il Mulino 2005.
Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un invecchiamento
della forza lavoro e da un’alta disoccupazione, soprattutto, ma non solo,
giovanile...
Cominciamo con un inquadramento generale. Possiamo dire che a partire
dagli anni Settanta il problema della disoccupazione giovanile è
stato un tratto costante, non solo del nostro paese. Tant’è che
le istituzioni -europee specialmente- l’hanno sempre messo all’ordine del
giorno suggerendo politiche che affrontassero o che tentassero di risolvere
il problema. Queste politiche erano sostanzialmente basate su due filoni:
uno, flessibilizzare il mercato; due, sussidiare l’occupazione giovanile.
Il caso tipico in Italia è stato quello dei contratti di formazione
lavoro (Cfl), che sono partiti a metà anni Ottanta e che appunto
sussidiavano, nel senso che in larga misura i contributi erano a carico
dello Stato. Terminati i due anni di formazione, peraltro, le imprese potevano
tranquillamente non rinnovarli.
Nel 1996 abbiamo poi la Riforma legata al cosiddetto pacchetto Treu,
che introduce due novità: la liberalizzazione dei contratti temporanei
(che comunque già esistevano, per quanto soggetti ad alcune restrizioni)
e il "co.co.co.”, spesso lavoro dipendente mascherato, caratterizzato da
bassi contributi sociali.
Bisogna però dire che prima dell’introduzione del Cfl e del
Pacchetto Treu, la prassi di interrompere contratti formalmente permanenti
era già diffusa, e non solo con i giovani. La legge infatti era
molto protettiva sulla carta, ma facilmente aggirabile nei fatti (come
dicono i giuristi la "law in the books” e la ”law in action” sono due faccende
differenti).
La riforma Treu andava dunque a legittimare pratiche già in
uso.
Ma torniamo al problema della disoccupazione giovanile. Per molti anni
è prevalsa anche l’idea che per accomodare i giovani fosse necessario
far fuori gli anziani. Questa è una cosa cui hanno creduto le istituzioni,
le imprese, e ci hanno creduto anche i sindacati, che hanno negoziato pensioni
anticipate proprio con l’idea che prepensionando i cinquantenni -a volte
anche i quarantacinquenni- si facesse spazio per l’assunzione dei giovani.
Ora, questa cosa non è che non abbia funzionato mai, però
sicuramente non ha funzionato nei modi e negli ordini di grandezza che
ci si aspettava.
Anche oggi la questione è controversa. Tuttavia se si guarda
ai paesi europei, non è affatto vero che laddove ci sono molti giovani
al lavoro ci sono pochi vecchi, anzi è vero esattamente il contrario.
Nei paesi scandinavi, ad esempio, dove i tassi di occupazione degli anziani
sono nell’ordine del 60%, quelli dei giovani sono ugualmente alti.
L’Olanda ha la specificità di essere riuscita nell’impresa facendo
ricorso all’occupazione a tempo parziale in modo massiccio. Però,
anche lasciando perdere questi paesi, in genere si nota che dove ci sono
molti anziani al lavoro ci sono anche molti giovani occupati.
Nel nostro paese invece, nonostante le politiche di prepensionamento
messe in atto, se si guarda alla struttura per età dell’occupazione
nell’industria e nei servizi, perlomeno in quelli relativamente avanzati,
si scopre che c’è stato un invecchiamento notevole, soprattutto
nel settore manifatturiero. Negli anni Settanta inizio Ottanta l’età
modale era intorno ai 35-36 anni; oggi l’età modale, cioè
il grosso di chi lavora, ha intorno ai 45-48 anni.
Quindi abbiamo una forza lavoro che soffre di invecchiamento e dall’altra
parte una generazione di giovani che accede con difficoltà al mercato
del lavoro. Una situazione di non facile lettura e interpretazione.
E tuttavia, dai vari studi, emerge tutta una serie di fattori molto
importanti che farebbero pensare che in Italia l’occupazione giovanile
dovrebbe essere molto più ampia di quanto non sia.
Premetto che nelle nostre ultime indagini abbiamo ristretto l’analisi
agli individui maschi, così da bypassare quegli ulteriori elementi
di complessità legati all’incidenza delle strategie riproduttive
nella partecipazione femminile al mercato del lavoro.
Detto questo, io vedo almeno cinque elementi diciamo "favorevoli” all’occupazione
giovanile. Primo: il declino demografico. Negli anni Ottanta, quando i
nati del baby boom degli anni Sessanta raggiunsero l’età da lavoro,
ogni anno si presentavano sul mercato coorti di ottocento-novecentomila
persone grosso modo. Oggi le coorti di ventenni che entrano sul mercato
del lavoro sono nell’ordine delle seicentomila unità. E tra qualche
anno saranno ancora meno perché si presenteranno sul mercato i nati
all’inizio degli anni Novanta, che sono ulteriormente diminuiti. Qui si
potrebbe già fare una prima considerazione: se c’è meno gente
disponibile in età da lavoro, uno si aspetta che ci siano meno occupati
giovani in assoluto, però percentualmente il tasso di occupazione
dovrebbe essere cresciuto. Invece è calato.
Secondo elemento. La flessibilità è aumentata tantissimo
e questo riguarda in particolare i settori giovanili, quindi da questo
punto di vista le condizioni sono più favorevoli.
Terzo: il costo del lavoro dei giovani rispetto a quello degli anziani
è diminuito molto fra gli anni Ottanta e gli anni Duemila e probabilmente
sta diminuendo anche in questi anni; sicuramente non è aumentato.
Quarto: i giovani sono poco sindacalizzati e questa è una cosa,
dal punto di vista della domanda, dell’impresa, che dovrebbe rendere tutto
più semplice.
E poi c’è il fatto che la scolarità è aumentata
moltissimo.
Quindi ci sono una serie di elementi che riguardano il lato dell’offerta
di lavoro: la demografia e la scolarità; e poi ci sono una serie
di fattori che invece riguardano la domanda di lavoro, cioè il fatto
che i giovani costano di meno, sono meno sindacalizzati e più flessibili.
Tutti questi fattori concorrono, almeno in teoria, a incentivare l’ingresso
di questi soggetti nel mercato del lavoro. Insomma i ventenni dovrebbero
essere tutti al lavoro. E allora com’è questa storia che i tassi
di occupazione giovanili sono più bassi?
Ora, è possibile che la scolarità e l’occupazione siano
in qualche modo due fattori legati, cioè se c’è poco lavoro,
la gente va a scuola. In questo senso, l’aumento di scolarità potrebbe
anche essere un derivato del fatto che ci sono poche occasioni di lavoro.
Queste due cose non sono indipendenti.
Comunque, resta il fatto che in Italia l’occupazione giovanile è
particolarmente messa male.
Nei suoi studi lei denuncia soprattutto una difficoltà di ingresso,
ma poi anche di permanenza, nel mercato del lavoro. Può raccontare?
Le difficoltà di ingresso in effetti sono molto grosse. In base
a un’indagine Istat del 2004, il tempo medio di attesa tra il diploma di
scuola secondaria e il primo lavoro era di 14 mesi. Si badi bene: il tempo
medio. Sempre nel 2004, la percentuale di giovani che avevano completato
la scuola da tre anni e che erano ancora in cerca di lavoro era del 26%.
La cosiddetta "probabilità di transizione”, cioè la probabilità
di trovare un lavoro da un anno all’altro, era del 50%, che significa un
ritardo medio di due anni. Un po’ meno per la fascia 20-24 anni.
In conclusione, dall’uscita dalla scuola, oggi registriamo grossissimi
tempi di attesa.
Un dato ancor più allarmante se ricordiamo il calo demografico
avvenuto. Tenga presente che negli anni Sessanta la forza lavoro nell’età
20-29 anni era di quattro milioni. Alla fine degli anni Ottanta era di
cinque milioni. Oggi i giovani nella fascia 20-29 sono tre milioni e mezzo.
Cosa succede alle persone che invece entrano nel mercato del lavoro?
I grafici a nostra disposizione sono abbastanza drammatici. Sulla totalità
dei giovani (19-30 anni) entrati nel mercato del lavoro nel 1987, dopo
15 anni, nel 2002, meno dell’81% era ancora al lavoro.
In buona sostanza, tra queste persone che iniziano con un lavoro vero
(parliamo di lavoratori per cui sono stati versati dei contributi all’Inps
o a qualche altra cassa), a un certo punto alcune cominciano a sparire,
nel senso che non sono più visibili nel mercato del lavoro regolare.
E, attenzione, escono e non rientrano più.
Ripeto, dopo 15 anni, spariscono 19 giovani su 100. E il 1987 è
stato un anno di espansione produttiva e occupazionale.
Infatti, per coloro che entrano nel ‘92, che è invece un anno
recessivo, le cose vanno pure peggio. Questa è una faccenda molto
preoccupante perché bisogna chiedersi: dove vanno a finire questi
giovani?
Anche perché tra gli scomparsi non vengono conteggiati coloro
che escono per un periodo di disoccupazione e poi rientrano (e ce ne sono
tantissimi). Qui parliamo proprio di chi esce e non rientra più,
di chi sparisce da qualsiasi parte, perché se anche diventassero
lavoratori autonomi o entrassero nelle professioni continueremmo a "vederli”,
per così dire.
Va poi notato che chi esce dal mercato del lavoro lo fa prevalentemente
nei primi due anni. In seguito continuano a sparire, ma in modo più
fisiologico, diciamo.
Se poi guardiamo la differenza tra Nord e Sud, vediamo che dopo 15
anni al Nord siamo all’86% e al Sud al 74% di "sopravvissuti”. Già
questo è un indicatore forte del fatto che c’è più
gente che entra nel sommerso al Sud di quanto non succeda al Nord.
Se infine valutiamo i gruppi di età, vediamo che chi entra tardi
esce di più. Il gruppo 19-22 anni resiste meglio di quello dei 25-30
anni (l’84% contro il 77%). Mi si potrebbe obiettare che tra chi accede
al mercato nell’arco tra i 25 e i 30 anni, ci sono anche quelli che vanno
nelle professioni o si mettono in proprio, ma le professioni sono incluse
in questi dati.
Anche tra manifattura e servizi c’è pochissima differenza. C’è
invece differenza tra chi entra come impiegato e chi entra come operaio.
Purtroppo non siamo in possesso di dati relativi all’istruzione, alle
skills, alle competenze ed è un peccato. Purtuttavia il solo fatto
che gli impiegati, che hanno sicuramente una scolarità maggiore,
vadano meglio degli operai, già ci dice qualcosa.
Un altro fattore rilevante nella "sopravvivenza” dei giovani nel mercato
del lavoro è la durata del primo impiego. Le persone che come prima
posizione hanno avuto un impiego che è durato meno di tre mesi sono
quelli più a rischio. Per chi invece parte con un impiego di almeno
12 mesi, dopo dieci anni siamo intorno al’85% di sopravvivenza.
Anche se non conosciamo le caratteristiche personali di questi lavoratori,
possiamo ipotizzare che siano persone che sono entrate in modo regolare,
ma con un contratto breve, dopodiché non è detto che siano
uscite subito dopo i tre mesi e però nel lungo periodo risultano
quelli più a rischio.
Anche quelli che hanno salari d’ingresso particolarmente bassi sono
altresì molto a rischio. È molto probabile che queste persone
siano poi quelle che entrano nel sommerso.
Nel sommerso peraltro possono entrare anche i giovani che qui non vediamo,
e cioè quelli che non hanno mai cominciato un lavoro regolare.
Purtroppo è difficilissimo avere dei dati sul lavoro irregolare.
Nell’indagine trimestrale sulle forze del lavoro, l’Istat chiede: "Hai
lavorato la settimana scorsa?” e chi risponde affermativamente può
lavorare regolarmente, ma può anche aver lavorato al nero.
Nella contabilità nazionale il lavoro nero è una stima.
Meglio di così credo che l’Istat non possa fare. Perché è
una questione estremamente complessa.
Su questo problema di come l’Istat classifica i disoccupati, i disoccupati
di lungo periodo, e il lavoro irregolare, è stata fatta una ricerca
molto seria "Ineligibles and eligible non-participants as a double comparison
group in regression-discontinuity designs”, di Battistin e Rettore, pubblicata
sul Journal of Econometrics.
Il succo è che dall’indagine sulle forze lavoro è molto
difficile capire chi lavora regolarmente, chi è fuori dalle forze
del lavoro, chi è un disoccupato di lungo periodo e chi è
in nero. È difficilissimo.
Quello che è certo è che i tempi "fuori dal lavoro ufficiale”
sono estremamente pesanti.
Nel 2002 noi avevamo stimato i disoccupati in circa 1.147.000 unità
(l’Istat parlava di 1.092.000, quindi eravamo abbastanza vicini). Tra questi,
come dicevamo, ci sono sicuramente molte persone che lavorano in nero.
Ad ogni modo la durata media della disoccupazione per questi soggetti era
di quattro anni.
Scomponendo il dato per classi d’età, si rilevava che, sempre
nel 2002, il gruppo 45-54 anni comprendeva circa 104.000 persone con una
media di sette anni e mezzo fuori dal mercato. E, attenzione, sette anni
e mezzo di media vuol dire che ce ne sono alcuni che avevano quindici anni
"fuori” e altri che ne avevano uno. Tra i ventottenni e i trentatreenni,
i tempi medi di disoccupazione erano quattro anni e mezzo (e anche qui
vuol dire che un po’ ne aveva sette-otto e un po’ ne aveva solo uno). Se
si prende la classe di 22-28 anni, noi calcoliamo che avessero un anno
e mezzo di tempo medio di disoccupazione; infine se si va a prendere la
fascia 19-21 anni erano sei mesi in media.
Sono dati poco rassicuranti.
Queste tra l’altro sono tutte persone che almeno hanno cominciato a
lavorare. Le persone che non hanno neanche cominciato in questo calcolo
non ci sono.
L’Istat, quello stesso anno, considerava in 290.000 le persone in cerca
di prima occupazione. Queste verosimilmente aspettano mediamente tre anni
e mezzo prima di entrare nel mercato del lavoro.
Prima ho fatto cenno al lavoro irregolare perché una delle ipotesi
è che la maggior parte delle persone che spariscono vadano a finire
nel nero. Aneddotica: a Napoli i tassi di disoccupazione giovanile sono
il 40-45% ed è noto che in Campania il nero è elevatissimo,
quindi è chiaro che queste persone stanno lavorando -male, malissimo,
ma stanno lavorando. Però si dichiarano disoccupati. In Francia
è verosimile che anche nelle banlieues parigine ci sia un fenomeno
analogo.
Lei prima ha elencato alcuni fattori che dovrebbero incentivare un’occupazione
giovanile più massiccia. Ma perché allora i giovani faticano
tanto a trovare lavoro? È un problema di formazione?
Ha visto i dati di AlmaLaurea? Sono paurosi. Lì è spiegato
chiarissimamente qual è la condizione occupazionale (ma anche i
tempi di ingresso nel mercato del lavoro, la retribuzione, ecc.) in base
al corso di laurea. Cioè quanti (e quali) laureati italiani lavorano
dopo uno, tre, cinque anni. Allora lì si vede che il 50% di chi
si laurea in Lettere o in Scienze umane di vario tipo dopo quattro anni
è ancora a spasso. Chi si laurea in Ingegneria o anche in Economia
e Commercio entra abbastanza velocemente.
La gente continua ad iscriversi a facoltà -forse perché
sono più facili o forse perché c’è questo appeal-
come appunto quelle umanistiche, i cui laureati già sappiamo essere
destinati a imbattersi in tempi di attesa lunghissimi. Questo per la verità
vale anche per Giurisprudenza: molti di questi laureati quando escono vanno
negli studi a fare l’apprendista a zero paga per due, tre, anche quattro
anni. Oltre al fatto che è una professione che si sta proletarizzando.
Cosa devo dire? Finché continua a esserci questa deformazione
per cui si vanno a fare certe facoltà che si sa a priori che non
portano da nessuna parte...
Quindi è un problema di mismatch?
C’è proprio un mismatch totale, una radicale discrepanza tra
domanda e offerta, perché alcune facoltà piazzano la gente,
magari non esattamente dove vorrebbero, però... D’altra parte, questo
è un problema generale: anche le banche quando assumono fanno dei
corsi di formazione. Nell’ultima indagine Excelsior quando si chiede ai
datori di lavoro: "Le persone che assumete sono quelle di cui avete bisogno?”,
la risposta in genere è "No”, salvo che sulle mansioni più
basse o in quelle molto specialistiche.
Quindi c’è un problema di formazione sicuramente.
Ma alle aziende conviene davvero avere lavoratori poco formati e che
cambiano continuamente?
Questo turnover così elevato nell’occupazione giovanile è
senz’altro dovuto anche al fatto che evidentemente alle imprese in qualche
modo conviene.
Allora, fintanto che le imprese continuano a non avere alcun interesse
a investire in training, e i lavoratori, dal canto loro, hanno ugualmente
poco interesse a formarsi perché tutto sommato costa parecchio investire
in un training specifico che venga valorizzato dalle imprese (soprattutto
perché le imprese non lo valorizzano affatto), la situazione è
questa.
Forse uno dei problemi dell’economia italiana è proprio questo:
i tassi di crescita del Pil sono i più bassi tra tutti i paesi europei,
eppure i tassi di disoccupazione italiani non sono più alti che
in altri paesi, anzi sono un po’ più bassi. Come si spiega? Per
me si spiega con il fatto che questa è un’occupazione di bassissimo
livello. E qui dentro l’istituzione c’entra enormemente. Se si guardano
le graduatorie sugli anni di istruzione delle persone al lavoro, beh, l’Italia
è in fondo alla lista.
A me sembra allora che questo utilizzo patologico della forza lavoro
giovanile dipenda certamente in parte dal mismatch, ma questo non spiega
tutto. Temo le ragioni siano più profonde. Anche perché il
mismatch non è una tipicità italiana. Certo, l’ideale sarebbe
che se si presentassero sul mercato del lavoro delle persone perfettamente
formate, ma questo non esiste da nessuna parte. Forse esisteva in Germania
quando c’era il sistema duale con un apprendistato che era parte integrante
del ciclo scolastico; a quel punto i giovani entravano alla Siemens o alla
Volkswagen e sapevano già fare, ma perché avevano fatto lì
l’ultima fase del proprio percorso formativo.
Insomma, il problema del training c’è un po’ dappertutto, in
alcuni posti più che in altri. La maggior parte delle espulsioni
veloci cui facevo riferimento prima, ad esempio, sono sicuramente riferite
a persone che non sono laureate, che avranno finito la scuola dell’obbligo,
ma che non hanno alcuna particolare professionalità. Ma, ripeto,
solo nel sistema duale tedesco o austriaco questa professionalità
veniva fornita.
Insomma, il problema della scarsa professionalità delle persone
che escono dalla scuola media secondaria non è specifico del nostro
paese. Sull’Università è un altro discorso: come dicevo c’è
tanta gente che si laurea in materie che non hanno mercato. D’altra parte,
i miei colleghi universitari dicono che non si può rinunciare al
latino, alla cultura, che le scelte non possono essere dettate solo dal
mercato...
La preferenza delle imprese per contratti precari quindi ci dice qualcosa
anche sul nostro mercato del lavoro...
Certo! Alle imprese conviene perché il nostro mercato è
fondato sul basso costo del lavoro, e quindi sulla possibilità di
ruotare perché tanto a questi giovani non gli si insegna niente,
e allora anche un anno di esperienza conta relativamente poco. Ora non
voglio dire che l’esperienza non conti niente.
Nel caso dei contratti di formazione lavoro cui abbiamo fatto prima
riferimento, la metà venivano trasformati in posti di lavoro permanente,
quindi vuol dire che a qualcosa servivano. La metà non è
un granché, però non è neanche così poco.
Il problema è che oggi le imprese non investono o investono
pochissimo. È da vent’anni che in Italia gli investimenti produttivi
sono ridotti a un livello modestissimo. E si vede.
La combinazione di tutti questi fattori, forza lavoro con grande turnover,
mismatch iniziale, ma soprattutto scarsa propensione delle imprese a investire,
non solo in infrastrutture, ma anche in training, in ricerca e sviluppo,
è micidiale.
Fino al 2000, nel nostro paese, la crescita del Pil è stata
sempre un po’ più alta della crescita dell’occupazione. Poi la tendenza
si è invertita: dal 2000 al 2008 l’occupazione è cresciuta,
ma la produttività è diminuita. Ma un’occupazione che aumenta
a fronte di un declino di produttività è evidentemente di
pessima qualità.
D’altra parte, lo sappiamo, l’Italia è il paese che ha investito
di meno e che è cresciuto di meno. Non è allora un caso che
sia anche tra quelli che fanno maggior ricorso a questo uso perverso di
una forza lavoro di scarsa qualità, mal pagata e con altissimi tassi
di turnover.
La stessa Spagna, che nel ‘96 aveva introdotto un contratto temporaneo
per tutti, non solo per i giovani, nel 2001 se l’è rimangiato. Evidentemente
hanno presto capito che certe formule si prestavano troppo a un abuso e
soprattutto che nell’incentivare la flessibilità di fatto si disincentivavano
le imprese a investire in know how.
Oggi da un lato si aumenta l’età pensionabile, dall’altra si
sente ripetere che i lavoratori anziani impediscono ai giovani di entrare
nel mercato del lavoro.
Ho detto dell’invecchiamento della forza lavoro, ma anche qui la questione
è articolata, perché in realtà le imprese non esitano
a buttar fuori i lavoratori anziani. Il fatto è che poi non li rimpiazzano
o li rimpiazzano troppo poco. In Fiat quando ci sono stati grandi prepensionamenti,
non è che non abbiano fatto assunzioni, però a fronte di
quaranta ne hanno presi venti, per dire.
Se si va a parlare con le imprese, con i capi del personale, e si chiede
loro: "Perché cercate sempre di buttar fuori gli anziani?”, la prima
cosa che dicono è: "Perché costano troppo”.
E d’altra parte è vero che costano molto. In Italia, salvo alcune
categorie, come ad esempio gli operai metalmeccanici, la progressione retributiva
tende solo a crescere; cioè i dati generali parlano di una progressione
quasi continua, anche se lenta, nelle retribuzioni.
Ecco, nella maggior parte dei paesi non è così; nella
maggior parte dei paesi si va su e poi si comincia a calare perché
gli anziani restano sì al lavoro, ma vengono messi su altre mansioni;
gli si taglia l’orario: per quale ragione devono lavorare otto ore al giorno?
Possono farne cinque: gli anziani sono contenti perché continuano
a sentirsi produttivi e, anche se guadagnano di meno, gli va bene, perché
c’è un sistema di welfare che comunque li protegge.
Da noi la faccenda è più complessa perché è
vero che gli anziani costano di più e quindi c’è un incentivo
a prendere dei giovani, ma poi questi giovani vengono presi con questa
modalità perversa all’insegna dell’usa e getta...
Insomma la questione dell’età pensionabile è un problema
serio, su cui bisognerebbe riflettere approfonditamente ed essere molto
meno dogmatici. Perché è vero che ci sono i lavori usuranti,
ma c’è anche una grandissima quantità di lavori in cui non
c’è motivo per cui la gente non possa continuare a lavorare fino
a 65-67 anni.
Si è puntato sul fatto che i vecchi facevano da tappo, dopodiché
i giovani sono entrati comunque poco e male.
Dal quadro che ha delineato le "carriere” lavorative dei giovani sono
disastrose. Cosa succederà sul piano previdenziale?
Sul piano previdenziale è la catastrofe sicura. Una persona
che entra nel mercato del lavoro e che dopo 7-8 anni riesce ad avere una
posizione a tempo pieno e a tempo indeterminato arriva alla fine con una
pensione che sarà il 40% del suo stipendio. Che poi qui stiamo parlando
di chi, anche se con difficoltà, alla fine è entrato e ci
è rimasto. E gli altri?