All'aeroporto Augusto Cesar Sandino erano numerose le delegazioni che
scendevano quella mat-tina presto dal Dc10 settimanale dell'Iberia. Era
il 13 luglio 1981. E per la prima volta provai l'ebbrezza dei profumi tropicali
e la particolare atmosfera che pervadeva quel paese. Ero stato inviato
da Alberto Tridente a rappresentare i metalmeccanici dell'Flm al II°
anniversario della Rivoluzione popolare sandi-nista. Ad attenderci c'era
padre Uriel Molina, francescano, direttore del Centro Ecumenico Valdivieso,
legato alla Teologia della liberazione. All'uscita Uriel ci indicò
un tipo in clergyman in composta attesa: "E' il nunzio Andrea Cordero Lanza
di Montezemolo; sicuramente aspetta la valigia diplomatica con le ultime
istruzioni dal Vaticano".
I PRETI MINISTRI: Mezzora dopo eravamo nell'ufficio di Uriel con il
"vescovo rosso" di Cuernavaca (Messico), Sergio Mendez Arceo, e padre Edgar
Parrales, ministro per il "benessere famigliare". Si scambiavano soddisfatti
le ultimissime da Roma sulla spinosa questione dei quattro preti-ministri,
cui il segretario di stato Casaroli aveva concesso (contro un papa Wojtyla
assai riottoso) una proroga nel governo sandinista: a patto che non celebrassero
messa. Quello stesso giorno, Uriel ci mostrò la Barricada (quotidiano
del Fronte sandinista) di qualche giorno prima dove il mitico "Comandante
Zero", Eden Pastora, capo delle milizie popolari, annunciava di abbandonare
il Nicaragua per combattere per la liberazione di non si sa quale altro
popolo oppresso. Quella fu solo la prima delle giornate vissute intensamente
per tutti gli anni `80 (e oltre). In poche ore, col mio stentato castigliano,
ero entrato nel cuore di un'esperienza rivoluzionaria con livelli straordinari
di partecipazione popolare e che risvegliò aspettative (fin troppe)
in tutto il mondo: con la campagna nazionale di alfabetizzazione e massicce
vaccinazioni che, per esempio, sconfissero la poliomielite; con i buoni
propositi di pluralismo politico, economia mista e non allineamento; per
la costruzione dell'hombre nuevo, e all'insegna di "entre cristianismo
y revolucion no hay contradicion". Ben presto il papa polacco entrò
in rotta di collisione col sandinismo. Uno degli eventi più incredibili
di quegli anni fu la contestazione nella Plaza 19 de julio (marzo 1983),
quando il pontefice, rosso di rabbia in volto, alle madri che gli supplicavano
invano una preghiera per dodici ragazzi appena uccisi dai contras, gridò:
"La Chiesa è la prima a volere la pace". Sospese a divinis quei
sacerdoti-ministri, mentre padre Uriel fu allontanato dalla parrocchia
del barrio Riguero dall'arcivescovo Miguel Obando y Bravo (che riceveva
soldi dalla Cia). Wojtyla, nell'avversione al minuscolo Nicaragua sandinista,
si saldò così con l'altro figuro più potente del pianeta
in quel momento: Ronald Reagan, presidente degli Stati uniti per due mandati.
Furono otto anni durissimi di guerra d'aggressione: dal lancio dei contras
(che finanziò col narcotraffico e con la vendita segreta di armi
all'Iran), alla posa di mine nei porti nicaraguesi (che gli valse una clamorosa
quanto dimenticata condanna della Corte dell'Aja per "terrorismo di stato").
In più momenti sentimmo incombere la minaccia dell'intervento dei
marines. Come all'indomani dell'invasione Usa di Grenada, nell'ottobre
`83, quando i nove comandanti della rivoluzione, oltre a una manifestazione
di piazza più imponente del solito, mobilitarono la popolazione
per l'allestimento di rifugi antiaerei presso ogni abitazione. Mentre alla
fine della giornata di lavoro migliaia di persone di tutte le età
e sesso in centri di addestramento della capitale davano vita in poche
settimane ai battaglioni di riserva. Un pueblo armado fu il vero deterrente
all'opzione di forza predisposta dalla Casa bianca. Eden Pastora, intanto,
non era partito per seguire le orme del Che. Nel marzo 1982 fece sapere
che avrebbe rivolto i suoi fucili contro gli ex compagni del Fronte Sandinista
di Liberazione Nazionale (FSLN), rei di aver tradito gli ideali di Sandino
"imponendo una dittatura comunista". A lui devo una delle volte in cui
rischiai la pellaccia, quando (nel giugno 1985), insieme a un'unità
di cachorros (i "cuccioli" dell'esercito) che andavano a rinforzare una
postazione recuperata alle forze di Pastora sul Rio San Juan, fummo oggetto
del fuoco di fucileria e mortaio dalla sponda costaricense. Eden Pastora,
in ogni caso, non confluì mai del tutto nei contras pagati da Washington.
E oggi, senza un soldo e privo dell'aureola del comandante, lo puoi incontrare
facilmente come improbabile candidato a sindaco di Managua.
LA QUESTIONE AGRARIA: Ma quella sandinista poteva essere considerata
una rivoluzione totalitaria? I giovani dirigenti del Fronte incapparono
inesorabilmente in parecchi errori. Il principale (col senno di poi) fu
la confisca delle proprietà non solo dei somozisti. Si generarono
diffidenze e si pregiudicò la continuità della politica di
alleanze che quel 19 luglio 1979 (con Jimmy Carter a guardare) aeva portato
i "nicas" a "vomitare" Somoza. L'economia mista oltre che, successivamente,
il pluralismo politico, restarono dunque sulla carta. Le terre furono in
parte inglobate in giganteschi (e pocoproduttivi) progetti agricoli statali;
e in parte distribuite ai contadini, ma senza rispondere alla loro atavica
aspirazione di possedere un appezzamento, che avrebbero difeso con i denti.
Al contrario, furono obbligati a organizzarsi in cooperative. Cosicché,
molti peones degli ex latifondisti finirono con l'ingrossare le fila dei
contras. Con una politica paternalistica di sussidi, l'agricoltura conobbe
una gravissima crisi di produzione. A un campesino conveniva comprare un
chilo di riso piuttosto che produrlo. E le code ai magazzini diventavano
ogni giorno più lunghe. Mi ero infilato in un seminario di quadri
sandinisti quando il ministro dell'agricoltura, Jaime Wheelock, tra lo
stupore generale, ammise la propria "ingenuità ideologica", correndo
poi ai ripari con la distribuzione di titoli di proprietà delle
terre. Ma era ormai troppo tardi. Gli antisandinisti armati, dipendenti
finanziariamente in toto da Washington, potevano già contare su
una significativa base sociale nelle zone rurali. Neppure la tessera di
approvvigionamento (che ci fu ripartita per avere un po' di riso, fagioli,
zucchero, olio di semi di cotone, carta igienica, sapone, denti-fricio
e quant'altro offrisse sporadicamente il convento in quel momento) non
risolse alcunché a livello di consumi. La guerra di aggressione
fu costosissima in termini di vite umane (57.000 fra morti e feriti) e
distruzioni materiali. Ma soprattutto, impedì al governo sandinista
di governare con qualche mezzo in più e qualche affanno in meno.
Che era poi l'obiettivo minimo di Reagan: soffocare un'esperienza tanto
destabilizzante nel proprio "cortile di casa". Ciò detto, e ammessa
la sostanziale sovrapposizione fra stato e partito, dovuta in parte al
conflitto, si era ben lontani dal controllo sociale che avvertii a L'Avana
fin dal mio primo viaggio (invitato dal Partito comunista cubano) nel marzo
dell'84. Pur con tutta la simpatia che potevo nutrire per la rivoluzione
castrista, provavo una sensazione di oppressione. E tornavo con sollievo
a Managua. Sarà forse anche per questo che i sandinisti hanno resistito
solo dieci anni scarsi. In ogni caso, pur nell'ipotesi di massima lungimiranza
dei sandinisti, sono convinto che l'esito sarebbe stato il medesimo. Anzi,
più esemplari e originali fossero stati, più feroce sarebbe
stata la reazione dell'accoppiata Reagan-Wojtyla. Con l'avvento di Gorbachov,
l'Urss tagliò drasticamente gli aiuti anche al Nicaragua, che già
soffriva dell'embargo economico Usa. Per far tornare i conti (con un'inflazione
al 30.000 per cento, per cui una birra costava svariati milioni di cordobas)
il governo sandinista fu costretto dall'87 a praticare unilateralmente
impopolari restrizioni economiche. Ma quella sollecitazione ai sacrifici
non valse per tutti. Si era ormai formato un ceto privilegiato, alla corte
dei dirigenti più in vista, lontani dalla dura quotidianità
della gente. Mentre con i contras cominciò un'estenuante trattativa
che non pose mai fine al conflitto. In questo contesto, si produsse la
traumatica sconfitta elettorale del 25 febbraio 1990. Quella notte ci chiedemmo
con angoscia cosa ci sarebbe successo di lì in poi. In realtà,
l'esito del voto fu la dimostrazione al mondo della genuinità democratica
della Rivoluzione, il cui risultato primordiale è stato quello di
dare dignità a un popolo e a una piccola nazione fino ad allora
"repubblica bananiera". Certo, difficilmente il Fsln si sarebbe avventurato
in elezioni libere se non fosse stato sicuro di vincerle. Sta di fatto
che passò la mano. Donna Violeta de Chamorro si rivelò, a
posteriori, una sorpresa: scaricò i nostalgici del somozismo e intraprese
una coraggiosa politica di riconciliazione nazionale, nella quale il Fronte
Sandinista fece la sua parte. Il Nicaragua conobbe la pacificazione anche
se non la sua ricostruzione, visto che George Bush padre (succeduto a Reagan)
lo abbandonò al proprio destino.
LA DEBACLE: L'imperdonabile debacle è sopravvenuta negli anni
seguenti, quando il gruppo dirigente sandinista si è mostrato incapace
di rinnovarsi, perdendo le sue figure migliori, sacrificate alle più
perverse logiche di potere personale e del "comandantismo" di Daniel Ortega
e Tomas Borge. Sì, proprio loro, che quando parlavano o ti passavano
vicino ti procuravano un'indescrivibile emozione: ad ammonire che le rivoluzioni
(che non possono durare che lo spazio di una luna di miele) sono fatte
da persone in carne ed ossa, la cui mitizzazione costituisce sempre, quando
va bene, una distorsione. L'ostinazione di Ortega a candidarsi ogni volta
a presidente (tenendo in ostaggio il futuro del sandinismo), ha consegnato
permanentemente il paese alla destra più reazionaria: prima del
vorace Arnoldo Aleman (oggi in carcere per corruzione) ed ora del vecchio
conservatore oligarca Enrique Bolanos. Ma questo fa parte della deriva
progettuale e della litigiosità a tutte le latitudini della sinistra,
travolta dalla caduta del Muro di Berlino e dall'incalzare della globalizzazione
a senso unico. I risultati sono disoccupazione e miseria, oltre al deterioramento
dei livelli di sanità e istruzione che relegano il Nicaragua agli
ultimi posti in America latina negli indici di sviluppo umano. Eppure,
parte significativa del patrimonio della Rivoluzione persiste. Innanzitutto,
il Nicaragua può vantare rispetto ai suoi vicini centroamericani
(e non solo) un esercito e una polizia (gli stessi di allora) che non ti
fanno sentire intimorito quando ti fermano. Managua poi, resta nettamente
la capitale più mite e pacifica dell'istmo. Per di più, in
questo paese si riesce a sapere quasi tutto, grazie a un giornalismo ruspante,
con un lusinghiero livello di pluralismo e di indipendenza. Da ultimo,
resta elevato il livello di coscienza di sé del nicaraguese medio,
e la consapevolezza che ogni prospettiva per un futuro migliore affonda
le sue radici nel sandinismo. Come sembra ammonire la gigantesca sagoma
nera di Sandino, "generale di uomini liberi", che dalla collina del Chipote
domina la capitale e questa terra di laghi e di vulcani.