di Claudio Bellotti, "Falcemartello", n. 149, 18 luglio 2001
I dati più recenti provenienti dagli Usa, dalla Germania e dal
Giappone, fanno pensare che il lungo ciclo di boom economico iniziato negli
Usa nel 1991 sia ormai giunto al termine.
Sugli scaffali delle librerie e sulla stampa economica si affacciano
titoli inequivocabili: "La fine dell’euforia", "Verso la recessione, ma
senza panico", e via di seguito. La domanda ricorrente non è se
si entrerà in recessione, ma quanto questa potrà durare e
che effetti avrà.
Dopo la crisi asiatica del 1997 molti, compreso chi scrive, pensavano
che in breve tempo la crisi si sarebbe estesa a livello internazionale.
Così non è stato e anzi dopo un rallentamento nel 1998, l’economia
ha ripreso a correre toccando l’apice a cavallo tra il 1999 e il 2000.
La seconda metà del decennio, quindi, appare retrospettivamente
come quella dell’espansione economica più forte, perlomeno in Usa
e in Europa. Quali cause hanno permesso di assorbire il colpo della crisi
asiatica?
Diversi fattori hanno concorso, sia economici che politici. Proviamo
a indicarli brevemente.
1) L’investimento in nuove tecnologie, in particolare negli Usa, ha
avuto conseguenze importanti sia sulla produttività del lavoro che
sulla riduzione dei costi del capitale fisso: due elementi chiave nel mantenere
alto il tasso di profitto.
2) L’enorme predominio degli Usa, a livello non solo economico, ma
anche strategico-militare, ha permesso al capitalismo Usa di diventare
il punto d’approdo di tutti i capitali che fuggivano dai mercati emergenti.
Questo ha contribuito a sostenere il valore del dollaro, che a sua volta
ha aumentato l’attrazione del mercato americano. Wall Street è diventata,
almeno fino all’inizio del 2000, un’enorme calamita per i capitali di tutto
il mondo.
3) Questo ha permesso di alimentare oltre ogni logica la "bolla" speculativa
nella borsa. I profitti facili ottenuti nella speculazione borsistica hanno
sostenuto sia i redditi e i consumi delle famiglie, sia i profitti delle
aziende.
4) Grazie a questo meccanismo, e grazie all’alto valore del dollaro,
il mercato Usa ha potuto assorbire una enorme quantità di beni prodotti
in tutto il mondo, sostenendo la domanda mondiale.
Tutto questo non è stato privo di conseguenze. La bolla speculativa
del Nasdaq si è sgonfiata nel corso del 2000, con un calo di circa
il 60% rispetto ai massimi. Un altro effetto è stato quello di gonfiare
a dismisura il deficit commerciale Usa, che è cresciuto come da
tabella 1.
La parte finale del ciclo (1998-2000) ha visto sì una crescita
economica importante, ma ha anche significato l’accumularsi di grandi contraddizioni,
in particolare negli Usa. Gli stessi fattori che hanno permesso il prolungamento
del boom ora hanno l’effetto opposto: il deficit commerciale, la forza
eccessiva del dollaro, la speculazione borsistica contribuiscono ad aggravare
la prospettiva economica.
I dati sul ciclo in Usa
L’anno 2000 ha visto il ciclo Usa raggiungere il suo picco, con una crescita del Pil pari al 5% su base annua. Tuttavia già nel corso del 2000 è cominciata la brusca frenata dell’economia Usa. La crescita del Pil su base trimestrale, infatti, è stata come segue:
II trimestre: +5,6%
III trim.: +2,2%
IV trim.: +1,0%
I trim. 2001: +1,3%
Le ultime stime parlano di un +0,5% nel secondo trimestre del 2001
I dati della produzione industriale confermano e chiariscono l’andamento
del ciclo Usa. Per 9 mesi di fila, da settembre 2000 a maggio 2001, l’utilizzo
della capacità produttiva dell’industria è in calo. In altre
parole, le fabbriche non girano a pieno regime. Si tratta di un dato estremamente
importante, poiché è in genere l’indice più sicuro
della saturazione del mercato, ossia della sovrapproduzione.
Osserviamo nella tabella 2 l’andamento di questo indice da un punto
di vista storico negli ultimi vent’anni, che hanno visto due crisi (1979-82
e 1990-91) svilupparsi negli Usa.
La tabella indica le percentuali di utilizzo della capacità
produttiva nell’industria. È chiaro quindi che quando indichiamo
l’apice del ciclo non intendiamo il punto in cui la produzione raggiunge
il suo livello massimo in termini di volumi, ma il punto in cui vi è
il massimo utilizzo della capacità produttiva installata, in altre
parole il punto oltre il quale può cominciare a manifestarsi la
tendenza alla sovrapproduzione. In altre parole, questo indice ha un certo
valore di anticipazione dell’andamento del ciclo.
Un altro dato che indica il rallentamento economico in Usa è
l’utilizzo dell’energia elettrica, che sta calando dal mese di novembre,
come segue.
indice: 1992=100
nov. 2000 = 109,7
mar. 2001 = 102,0
Quali sono i settori in crisi? È lampante che nel settore legato
alle nuove tecnologie ci sia una crisi potenzialmente devastante. La crescita
della produzione nelle industrie ad alta tecnologia è stata il traino
del boom, particolarmente nella seconda fase (dopo il 1995). La tabella
3 mostra la rapidissima crescita del settore negli ultimi anni, e il brusco
calo con cui è terminata.
Più che di una frenata, in questo caso si potrebbe parlare di
una macchina lanciata a tutta velocità che va a sbattere contro
un muro…
Il motivo di questo tracollo è presto spiegato: c’è una
sovrapproduzione enorme, che non trova più sbocchi. A questo si
aggiungono gli effetti del crollo delle azioni new economy durante tutto
lo scorso anno. Un articolo del Corriere Economia (25 giugno) spiega la
situazione nel settore delle fibre ottiche, cioè i cavi per i collegamenti
internet ad alta velocità. Secondo uno studio della Merrill Lynch,
solo il 2,6% degli investimenti fatti in questo settore hanno generato
ricavi per le società. "Gli altri 87,66 miliardi, vale a dire oltre
200mila miliardi di lire, rappresentano investimenti che potrebbero restare
inattivi per molti anni. E gran parte dei quali, dicono numerosi esperti
americani, rischia di non essere mai attivata." Questo ha effetti sulla
Borsa, deprimendo ulteriormente gli indici: "Dall’inizio dell’anno, le
insolvenze di debiti obbligazionari delle telecom hanno causato, negli
Usa, 12,8 miliardi di dollari di perdite per gli investitori, che vanno
ad aggiungersi ai 5,2 miliardi di dollari bruciati nel 2000. Complessivamente,
le obbligazioni di telecom assommano, in questo momento, a 650 milardi
di dollari, e a Wall Street c’è chi prevede che, prima che le acque
si calmino, le perdite degli investitori supereranno i 150 miliardi di
dollari del più grosso buco finanziario della storia economica americana,
quello causato dai fallimenti a catena delle casse di risparmio alla fine
degli anni Ottanta." Ulteriore conseguenza, 100mila posti di lavoro persi
nel settore nel giro di 18 mesi.
Accertata la crisi profonda del settore delle alte tecnologie, due
sono le domande da farsi. Primo: possono gli altri settori dell’economia
Usa contribuire a riequilibrare la situazione evitando così una
recessione profonda? Secondo: possono altre aree dell’economia mondiale
svolgere un ruolo di traino tale da sostituire, almeno in parte, la domanda
che viene a mancare dagli Usa?
Proviamo a rispondere, nell’ordine, alle due domande
L’occupazione
La disoccupazione ha raggiunto il minimo storico nell’ottobre del 2000
con un tasso ufficiale del 4,0%. Da allora c’è stato un certo aumento
fino a giungere al 4,5% di aprile. I dati più recenti indicherebbero
una svolta negativa, le cui proporzioni non sono però ancora chiare.
Da luglio a maggio, l’industria manifatturiera ha perso 675mila posti di
lavoro, dei quali oltre due terzi sono stati persi dopo dicembre. Il calo
è stato particolarmente marcato nel mese di maggio. In generale
negli altri settori dell’economia non si sentono ancora gli effetti della
crisi, e l’occupazione è ancora sostanzialmente stabile.
Resta il fatto che non si vede, allo stato attuale, come l’economia
Usa possa invertire la tendenza nei prossimi mesi. La linea di Bush e Greenspan
è quella di sostenere i profitti delle imprese, con l’obiettivo
di rilanciare gli investimenti. Le due leve impiegate sono il taglio dei
tassi d’interesse (che dovrebbe sostenere i profitti e favorire il credito)
e la riduzione delle tasse per le imprese e per i redditi più alti.
È tutto da dimostrare, però, che queste misure potranno rilanciare
gli investimenti. In primo luogo, esiste negli Usa (e anche nei paesi asiatici)
una enorme capacità produttiva che fatica a essere impiegata; in
secondo luogo, c’è un declino dei profitti (-4,8% per le principali
500 aziende Usa, primo trim. 2001). Ora, è del tutto chiaro che
in mancanza di chiari sbocchi di mercato e di una prospettiva di profitti
ragionevoli, saranno ben poche le imprese disposte a rischiare investimenti
massicci.
L’unica proposta realmente "anticiclica" di Bush è il programma
di spese militari, in particolare il rilancio dello "scudo spaziale" (Nuclear
Missile Defence, Nmd), che può creare un mercato significativo per
l’industria.
Effetti internazionali: Usa e Asia
La frenata dell’economia Usa ha già cominciato a colpire duramente
le economie asiatiche, che sono sue fornitrici. Nel primo trimestre le
importazioni Usa sono calate del 5,5%, e nel secondo di un ulteriore 1,9%.
Nel secondo trimestre del 2001 paesi dell’Asia orientale vedono calare
le loro esportazioni come da tabella 4:
Questi dati dimostrano quanto sia fragile la ripresa asiatica, e soprattutto
come sia legata a doppio filo al mercato americano e ne subisca tutte le
evoluzioni.
L’economia giapponese non accenna a uscire da un decennio di sostanziale
stagnazione. Al contrario, dopo una modesta ripresa nel 1999-2000, il Pil
è nuovamente in calo (-0,2% nel primo trimestre); così come
la produzione industriale, il commercio al dettaglio, l’occupazione regolare.
Inoltre, come abbiamo già segnalato in passato, ha già
bruciato enormi risorse nel tentativo di rilanciare l’economia attraverso
la spesa pubblica, con risultati modesti. Al tempo stesso il debito pubblico
giapponse è esploso fino a raggiungere il 130% del Pil, una cifra
peggiore del punto più critico toccato dall’Italia all’inizio degli
anni ’90. Le imprese e soprattutto le banche giapponesi sono cariche di
debiti, e con i tassi d’interesse vicino allo zero, e con le banche caricate
di almeno 50 miliardi di dollari di crediti inesigibili, ci sono ben poche
possibilità di sanare la situazione attraverso semplici meccanismi
di mercato. In caso di fallimenti a catena, sarà ancora lo Stato
a dover intervenire. Tutto lascia pensare quindi che nei prossimi anni
il Giappone, lungi dall’essere un traino per l’economia internazionale,
sarà piuttosto una palla al piede che potrà divorare risorse
considerevoli.
Usa ed Europa
Negli scorsi anni l’Unione europea ha beneficiato, come tutte le altre economie, della domanda di merci proveniente dagli Usa. Ora, però, con la prospettiva di una crisi, i nodi vengono al pettine: Usa e Unione europea si trovano sempre più spesso a scontrarsi sul terreno commerciale, diplomatico e militare.
L’ultimo episodio eclatante riguarda la scalata tra il colosso Usa General Electrics sulla Honeywell, bocciata dal commissario europeo per la concorrenza Mario Monti. Naturalmente Bruxelles non ha il potere di impedire a due imprese di fondersi in terra americana, ma può porre tali e tanti ostacoli al loro operare sui mercati europei, da rendere poco vantaggiosa la fusione. Precisamente questo è quanto avvenuto in questo caso (la più grande "scalata" di un’azienda su un’altra, con un’offerta di 42 miliardi di dollari).
Le motivazioni reali del veto europeo sono evidentemente protezionistiche,
volte a difendere la presenza di imprese europee come Rolls Royce e Thales
e la stessa Honeywell nel mercato dei motori per aerei e della strumentazione
elettronica.
Si tratta dell’ultimo di una serie di episodi, come segnala il Corriere
Economia del 25 giugno: Time Warner-Emi, Mci-sprint e Volvo-Scania, Aol-Time
Warner. Altri scontri seguiranno, a partire dalla guerra a tutto campo
nell’aviazione civile fra il consorzio europeo Airbus e l’americana Boeing.
Il conflitto non riguarda solo il terreno puramente commerciale: i
contrasti "ambientali" sugli ormoni, gli Ogm, gli accordi di Kyoto, ecc.
sono prima di tutto contenziosi commerciali. Lo stesso dicasi per il progetto
americano di scudo spaziale, che mette i paesi europei sotto un evidente
ricatto: o accettare di restare schiacciati dalla superiorità tecnologica
Usa nel campo militare, o impegnarsi a loro volta in una gravosa corsa
al riarmo spaziale.
Il clima generale del commercio mondiale è destinato a deteriorarsi,
in particolare a causa della posizione a medio termine insostenibile del
dollaro: "Per la prima volta da quando il dollaro ha iniziato a rafforzarsi,
le imprese americane iniziano a chiedere a Washington di far scendere il
cambio della valuta rispetto a euro e yen per sostenere le esportazioni".
(Corriere Economia, 25/6/01) In un contesto di rallentamento della produzione
e del commercio internazionale, se gli Usa imboccassero la via della svalutazione
competitiva questo significherebbe un disastro per tutti i loro concorrenti.
Tuttavia, la borghesia americana non può imboccare a cuor leggero
questa strada. Il controllo del dollaro, cioè della principale valuta
mondiale, è una leva fondamentale che non possono e non vogliono
abbandonare, e quindi cercheranno di impedire un calo eccessivo della propria
moneta.
Crisi di egemonia
L’aspetto più peculiare di questa recessione è che da
un lato essa comporterà una crisi nell’egemonia americana sul mondo,
ma dall’altro non esiste una potenza in grado di sostituirla, così
come non esiste una moneta in grado di sostituire il dollaro sui mercati
mondiali.
Gli Usa incontreranno difficoltà crescenti in primo luogo nel
tenere sotto controllo la situazione nei paesi sottosviluppati, dove le
crisi "periferiche" (sia economiche che sociali e politiche) si producono
ormai con regolarità dal 1995 (Messico, Argentina, Brasile, Ecuador,
Filippine, Indonesia, Malesia, Turchia, Medio oriente, ecc.). Al tempo
stesso hanno una difficoltà crescente a imporre il proprio volere
agli altri protagonisti della politica mondiale. La Russia di Putin è
ben lontana dall’atteggiamento servile di quella di Eltsin, come dimostra
lo scontro sullo scudo antimissile, e su questo terreno converge con l’Europa;
il rapporto fra Usa e Cina rimane pieno di attriti (vedi anche l’articolo
Cina, Usa, Pacifico dopo l’incidente dell’aereo spia, FalceMartello nº
147); infine crescono le divisioni con l’Europa, come abbiamo già
spiegato.
Teoricamente l’Europa avrebbe l’occasione di avvantaggiarsi da questa
situazione approfittando delle difficoltà degli Usa. Il problema
rimane tuttavia quello di sempre: l’economia europea ha dimensioni paragonabili
a quella americana, ma gli Stati europei sono dei nani che non possono
ambire a competere su scala mondiale.
È possibile che da questa situazione il processo di unificazione
europea prenda ulteriore spinta, avviandosi alla costruzione di un "superstato"
che sarebbe - questo sì - in grado di porsi come concorrente alla
pari nei confronti degli Usa nella lotta per il predominio mondiale?
A nostro avviso questo è uno sviluppo estremamente improbabile.
In realtà, una volta approvata la moneta unica, il processo di unificazione
è giunto a uno stallo con il trattato di Nizza. Questo stallo, finora
tenuto nascosto, emerge chiaramente dopo il referendum con il quale gli
irlandesi hanno bocciato il trattato e quindi la proposta di allargamento
dell’Unione. Diventa sempre più difficile far procedere in modo
consensuale il processo di unificazione; infatti, da un lato è sempre
più evidente come il metodo di prendere decisioni da ratificarsi
all’unanimità rischia di portare alla paralisi completa; dall’altra
parte, un tentativo serio di passare a un metodo di votazioni a maggioranza
su questioni decisive aprirebbe rapidamente i conflitti tra i maggiori
paesi, a partire da Germania e Francia; il timore, già forte oggi,
è che con l’allargamento ad est il capitalismo tedesco potrebbe
crearsi una solida maggioranza nell’Unione (la maggior parte dei paesi
candidati all’entrata nell’Ue sono satelliti della Germania) e imporre
in modo schiacciante la propria volontà agli altri paesi, che sarebbero
spinti a creare una coalizione contrapposta per
riequilibrare la distribuzione del potere.
Se a questo aggiungiamo che gli Usa non sono certo spettatori passivi
di questo processo, ma hanno l’interesse a mantenere l’Europa in uno stato
di relativa debolezza e divisione, e se aggiungiamo le ulteriori contraddizioni
che si aprirebbero se anche la Gran Bretagna dovesse aderire all’Euro,
crediamo che si imponga una conclusione chiara: la crisi economica internazionale
e le difficoltà che ne seguiranno tenderanno ad alimentare i conflitti
in Europa, piuttosto che ad attenuarli.
La crisi che si sta sviluppando conferma una volta di più come
l’economia capitalista non può abolire il ciclo boom-recessione,
a dispetto di tutte le chiacchiere dispensateci negli scorsi anni a proposito
della new economy e delle sue meraviglie. Sebbene sia ancora presto per
dire fino a che punto la recessione sarà profonda e duratura, si
può già da ora affermare che segna il passaggio da una fase
all’altra. Il decennio degli anni ’90 ha visto una ripetizione, più
breve, dell’"età dell’oro" americana. Quell’epoca, parliamo degli
anni ’50 e ’60, finì in una crisi economica e politica di grandi
proporzioni, in un’esplosione di lotte di classe in tutto il mondo, in
una importante avanzata della rivoluzione nei paesi coloniali.
La crisi attuale segnerà il passaggio a una nuova fase. Il dominio
incontrastato degli Usa sarà messo in discussione, nuovi conflitti
internazionali si delineano all’orizzonte, e soprattutto sono sempre più
numerosi i segnali che la pace sociale che ha dominato gran parte del mondo
capitalista avanzato si avvia a terminare. I processi rivoluzionari a livello
internazionale hanno subìto in generale un rallentamento o un arretramento
nel corso degli anni ’90.
Gli sconvolgimenti della nuova fase economica contribuiranno a invertire
il flusso degli avvenimenti e a rimettere all’ordine del giorno la questione
dei limiti del capitalismo e della necessità di un’alternativa rivoluzionaria.
fonti: Fed, Fmi, Department of Labor, Bank of Japan, Banca d’Italia, Bundesbank
Tabella 1
Il deficit Usa
(saldi della bilancia dei pagamenti, miliardi di dollari)
1993 -82,7
1994 -118,6
1995 -109,5
1996 -123,3
1997 -140,5
1998 -217,5
1999 -331,5
2000 -435,4
Tabella 2
Utilizzo della capacità produttiva nell’industria Usa
(percentuali)
anno mese
Apice del ciclo 1979
(86,0) feb. ’79 (87,1)
Massima crisi
1982 (74,5) dic. ‘82 (71,1)
Apice del ciclo 1989
(84,1) mar./apr. ‘89 (85,3)
Massima crisi
1991 (79,3) gen. ‘92 (79,1)
Apice del ciclo 1997
(83,5) ott./nov. ‘97 (83,9)
Massima crisi
?
(ultimo dato) mag ‘01 (77,4)
Tabella 3
Boom e crisi del settore alte tecnologie in Usa
(variazioni della produzione, in percentuale)
tutto il settore semiconduttori e componenti elettroniche
1998: +37,2 +45,7
1999: +40,6 +47,8
2000: +55,3 +73,4
I trim. ‘00 +70,4 120,5
II trim. ’00 +56,9 66,4
III trim. ’00 +25,2 23,3
IVtrim. ‘00 -5,7 -9,0
Tabella 4
Esportazioni dei paesi asiatici
(Secondo trim. 2001, variaz. percentuali)
Cina
-10,6
Taiwan
-3,1
Corea -13,5
Giappone* -4,7
* Primo trim.