di Valerio Evangelisti, "Carmilla on line", 24 agosto 2004
Mentre scrivo non so che fine abbia fatto Cesare Battisti. Se sia in
effetti fuggito o se, come affermano i suoi avvocati, possa essere vittima
di una crisi depressiva.
La mia speranza è che la prima ipotesi sia quella vera. Che
ancora una volta l’eterno fuggitivo sia scivolato dalle mani dei suoi eterni
aguzzini e si trovi lontano, lontanissimo. Momento, certo, terribilmente
doloroso per lui. La prima volta che scappò di prigione era appena
ventenne, adesso ha cinquant’anni e due figlie, una di nove e l’altra di
diciannove anni. Meglio però questo distacco che venire seppellito
per sempre in un carcere. Cesare non è tipo da carcere. Nessuno
lo è, in effetti, ma lui meno di tutti. Eppure è da quando
era adolescente che pesa su di lui l’ombra della prigione. Vi è
finito in Italia, in Messico, in Francia. Ogni volta è riuscito
a tornare in libertà, per vie legali o illegali. Ha praticato con
sistematicità il diritto all’evasione, e ha fatto benissimo. Questa
volta soprattutto.
Leggo sul Corriere della Sera del 23 agosto una dichiarazione del procuratore
aggiunto di Milano Armando Spataro. Dopo avere definito Battisti un “assassino
puro”, qualsiasi cosa voglia dire simile espressione balorda, formula un
auspicio: “Comunque mi auguro che nessuno dica che tutto sommato era giusto
che Battisti fuggisse, visto il sistema delle leggi italiane.”
Mai speranza fu tanto delusa. Siamo in tantissimi in Italia e, oserei
dire, nel mondo, a confidare che Cesare Battisti riesca a trovare rifugio
là dove nessuno potrà più trovarlo. Parlo di noi che
conosciamo in quale maniera diventò un ricercato. Vediamo di ricapitolarla
per l’ennesima volta.
Negli anni ’70 Battisti è un ladruncolo che, approdato a Milano,
si politicizza a contatto con un collettivo autonomo di periferia. Ai margini
di quel collettivo nascono i PAC, Proletari Armati per il Comunismo: una
sessantina di giovani, per lo più operai o disoccupati, che compiono
numerose rapine, alcuni ferimenti e quattro omicidi. Questi ultimi vengono
commessi non da tutti i PAC, ma solo da una frangia.
Nel 1979 i PAC rivendicano l’assassinio di Pierluigi Torregiani: un
gioielliere che, poco tempo prima, aveva ucciso un rapinatore e forse un
cliente nel corso di un assalto al ristorante in cui stava cenando (per
la cronaca e i commenti, rimando a La Repubblica di quel periodo, piuttosto
diversa da La Repubblica attuale).
L’omicidio Torregiani (nel corso del quale il gioielliere ferisce accidentalmente
il figlio, in seguito rimasto paraplegico) provoca l’arresto di decine
di militanti autonomi del quartiere. L’istruttoria è tipica del
periodo, in cui il recente assassinio del giudice Alessandrini ha scatenato
la magistratura. Vengono presentate ben tredici denunce di casi di tortura,
tutte archiviate con i pretesti più vari. Vengono estorte confessioni
poi ritrattate. Si passa da un presunto colpevole all’altro, in una ridda
che la stampa democratica di allora (c’è stato un tempo in cui è
esistita) non manca di denunciare. Infine, in sintonia con le “leggi di
emergenza” votate a spron battuto, si riversa sugli imputati, inclusi quelli
minori, una valanga di condanne esorbitanti, tra le più severe mai
comminate.
E’ il 1981. Tra gli imputati minori figura Cesare Battisti, che dei
PAC non è il leader, ma un militante qualsiasi. E’ in prigione già
da due anni, e si vede condannare a dodici anni e mezzo di carcere – un’enormità,
ma l’emergenza prevede il raddoppio delle pene previste dal codice - per
“partecipazione a banda armata”, senza imputazioni specifiche. E’ stato
allontanato dal processo per condotta indisciplinata. Poco dopo, i suoi
difensori saranno a loro volta arrestati.
Accetta a quel punto l’aiuto di un’organizzazione che si dedica a fare
evadere i detenuti politici, e scappa dal carcere di Frosinone in cui è
rinchiuso. Resta a lungo nascosto in cima a una montagna col suo compagno
di cella, un camorrista. Attraversa poi l’Italia e varca le Alpi a piedi.
Dalla Francia riesce a raggiungere il Messico, dove si stabilisce a Puerto
Escondido (è a Battisti che si ispira il personaggio interpretato
da Claudio Bisio nel noto film). Arrestato dalla polizia messicana e poi
rilasciato, si dedicherà alle più fallimentari attività
commerciali, finché Paco Ignacio Taibo II non lo spingerà
a dedicarsi alla letteratura.
Nel 1982, senza che Battisti ne sappia nulla, inizia un secondo e ancor
più minaccioso capitolo della sua vicenda. Viene arrestato un militante
di Prima Linea, ex dei PAC, di nome Pietro Mutti. E’ già in vigore
la prima legislazione sui pentiti, che accorda consistenti sconti di pena
a chi – a prescindere dal “pentimento” effettivo, di cui non frega nulla
a nessuno – denunci ex compagni implicati come lui in attività terroristiche.
Mutti finisce sotto la tutela di uno dei magistrati che gestirono il caso
Torregiani, Armando Spataro, fautore tra i più convinti dell’efficacia
del pentitismo (lo è tuttora, malgrado le vicende Tortora, Sofri
e tante altre simili).
A cinque anni dal primo processo Torregiani, Mutti comincia a sparare
nomi, primo fra tutti quello di Battisti. Gli attribuisce tre degli omicidi
rivendicati dai PAC (Santoro, Campagna e Sabbadin, in quest’ultimo caso
con un ruolo di copertura), il consenso a quello di Torregiani (consenso
trasformato da Spataro in “ruolo organizzativo”: se Battisti aveva preso
parte all’attentato a Sabbadin, non poteva ignorare quello a Torregiani,
avvenuto lo stesso giorno alla stessa ora), più oltre 60 tra rapine
e ferimenti. In pratica, Mutti riversa su Battisti l’intera attività
criminale dei PAC.
Ciò non senza contraddizioni. Si legge infatti a proposito di
Mutti, in una sentenza di Cassazione emessa nel 1993:
“Questo pentito è uno specialista nei giochi di prestigio tra
i suoi diversi complici, come quando introduce Battisti nella rapina di
viale Fulvio Testi per salvare Falcone (…) o ancora Lavazza o Bergamin
in luogo di Marco Masala in due rapine veronesi”.
Più sotto:
“Del resto, Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio
favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da
fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era
d’altra parte stato denunciato dalla DIGOS di Milano e dai CC di Udine.
Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
Una quantità di volte, ricorda l’avvocato Giuseppe Pelazza,
Mutti fece il nome di Battisti in rapporto a qualche atto criminale e,
ogni volta che la circostanza fu smentita, si giustificò dicendo
che aveva riversato la colpa sul più giovane del gruppo, per di
più latitante. Come dire, qualcuno che non correva rischi.
Questo bel tipo di pentito fu poi utilizzato in parecchi altri processi,
dove si fece accusatore di innocenti; infine fu scaricato quando, in occasione
della cosiddetta “pista veneta”, le sue dichiarazioni sfociarono nel puro
delirio. Emotivamente e psichicamente fragile, era chiaramente condotto
per mano (in senso figurato) da un’udienza all’altra. Naturalmente fu scarcerato,
malgrado la confessa partecipazione ad alcuni degli omicidi dei PAC. Un
po’ la stessa sorte toccata a un altro pentito “scoperto” da Spataro, Marco
Barbone, messo in libertà malgrado l’assassinio di Walter Tobagi
direttamente commesso, e portato a sua volta da un processo all’altro (incluso
il famigerato “caso 7 aprile”) a effettuare riconoscimenti quasi tutti
sballati.
Ma torniamo al nostro tema. Mentre l’ “attendibile” pentito Mutti gli
prepara una condanna all’ergastolo, Battisti, che conduce in Messico la
propria vita picaresca ed è convinto di avere sul groppone “solo”
dodici anni di carcere, ignora ciò che lo aspetta. Lo scoprirà
nel 1989, quando lascerà il Messico e si trasferirà in Francia.
Giudicato in contumacia, nella più completa assenza di contatti
con gli avvocati difensori, è ormai condannato a vita e privato
di ogni possibilità di ripetizione del processo. In nome della cosiddetta
“dottrina Mitterrand”, la Francia gli spalanca le porte per tredici anni.
Battisti tenta di mettere in piedi una lavanderia, lavora come cameriere
in un ristorante, fa il pizzaiolo e lo sguattero. Malgrado le difficoltà
economiche, mette su famiglia. Infine scrive romanzi noir che hanno un
certo successo, anche se, per campare, deve fare il portinaio nello stabile
in cui abita.
Il resto è storia odierna. Dopo tredici anni di relativa tranquillità,
Battisti è di nuovo in fuga. Condannato dalla nuova sintonia repressiva
dei governi italiano e francese, vittima di una sentenza vergognosa (dettata
dall’Italia) che ha calpestato ogni parvenza di diritto, privato anticipatamente
di ogni possibilità di ricorso da una dichiarazione di Chirac in
persona con il compare Berlusconi al fianco, ha visto svanire per sempre
qualsiasi speranza di ottenere giustizia. Avrebbe dovuto rassegnarsi a
finire i suoi giorni tra quattro pareti di cemento.
Ma Battisti non è così. Fuggiasco di professione davanti
alle circostanze avverse che hanno costellato tutta la sua vita, lui è
capace di sgattaiolare tra le gambe di chi cerca di afferrarlo. Adesso
forse è là, in qualche paese remoto, che scappa come un furetto,
spaventato e astuto. Come sempre.
Se corre così forte è perché conosce bene l’identità
del nemico. Non si tratta solo dei fascisti più o meno riciclati
che, oggi al governo in Italia, fanno lo sporco mestiere di sempre, magari
su scala più vasta. Proprio mentre Battisti era più vulnerabile,
Fassino, Diliberto e D’Alema facevano a gara nel rivendicare chi, tra loro,
avesse per primo cercato di farlo estradare. Adesso che Battisti (una delle
loro tante prede: c’è stato anche Ocalan, per dirne una, ci sono
gli altri esuli in Francia) è uccel di bosco, si scagliano contro
la mancata introduzione del mandato di cattura europeo, buono a trasformare
l’Europa in un’immensa galera. Ai loro lati, una coorte sinistra di magistrati
applaude e agita cappi e manette.
Oggi costoro professano il verbo neoliberale, ma sono eredi, per citare
testualmente Cossiga, “del Pci che ha collaborato con noi in forme molto
più forti di quello che comunemente la gente crede (e che non rivelo
perché non voglio che parte dell’ex Pci getti fango su Ugo Pecchioli)”.
Insomma, i soliti “picisti” di un tempo che fecero della delazione una
strategia, della prigione ai dissidenti uno scopo, dei pentiti un mezzo,
delle leggi speciali un’arma. Non a caso li si trova equamente ridistribuiti
tra centrosinistra e centrodestra. Si chiamino Massimo D’Alema o Giuliano
Ferrara, lo stalinismo lo hanno nel sangue. E, malgrado le apparenze, un
cordone ombelicale tra post-stalinisti e post-fascisti, rinsaldato a Genova
da un massacro predisposto dai primi e attuato dai secondi, li unisce ancora.
Anche il patto Ribbentrop-Molotov hanno nel sangue.
Corri, Cesare, corri. Spero di non avere tue notizie per molti anni.
Poi, appena sarà possibile, ti raggiungerò in qualche angolo
del mondo in uno di quei baretti di periferia che prediligi, a berci una
tequila alla faccia di tutte queste merde.