di Bernardo Atxaga, Lo straniero, N. 45, marzo 2004
traduzione dallo spagnolo di Selena Perco
Avevo tredici anni quando ascoltai per la prima volta la parola “Euzkadi”.
Eravamo un gruppo di scolari saliti sulla cima della collina dove era solito
portarci l’insegnante di scienze naturali, quando il mio compagno di banco,
forse impressionato dalla maestosità e bellezza della vallata che
vedevamo da lì, sospirò in modo vistoso e dichiarò:
“Nik bizia emango nikek Euzkadiren alde”. Ossia: “Darei la vita per Euzkadi”.
Alle nostre spalle c’era un bosco da cui sbucò una colomba verde-marrone
che volò sopra di noi, come a voler immortalare l’affermazione.
“Gu ez gaituk espainolak, gu euskaldunak gaituk”, aggiunse il mio compagno
di classe quando l’uccello scomparve di nuovo tra gli alberi: “Noi non
siamo spagnoli, noi siamo baschi”.
Il pathos e la corposità di quelle parole mi commossero profondamente
e credetti di stare di fronte a uno di quei segreti che, proprio come mi
avevano fatto sospettare sui Re Magi o sulla questione sessuale, marcavano
il passaggio dall’infanzia, da quella mentale, alla maggiore età.
Timoroso che il mio compagno si accorgesse della mia ignoranza, fissai
lo sguardo al centro di un albero frondoso e dissi: “Nik ere bizia emango
nikek Euzkadiren alde”, “Anche io darei la vita per Euzkadi”. Come per
magia, la colomba verde-marrone sbucò dall’albero e tornò
a passare sopra di noi come un soffio.
Non fu il mio, il nostro, un caso isolato, ma uno dei moltissimi di
quell’epoca, al principio degli anni sessanta, in tutte le zone del paese
dove la cultura basca si manteneva forte o era, come a Bilbao, molto amata.
Tutti sapevano dell’esistenza del paese occulto e, proprio come era stato
per il mio compagno di scuola, tutti si commossero per una notizia quando
gli incaricati di trasmetterla lo fecero mostrandosi tristi e sognatori:
tristi all’inizio della conversazione, quando si trattava di parlare della
guerra perduta e del popolo soggiogato da un dittatore ossessionato dall’idea
di distruggere tutto ciò che era basco; e sognatori, quando spiegavano
l’ideale, che altro non era che la liberazione di Euzkadi.
“ Euzko gudariak gara Euzkadi askatzeko”, diceva l’inno, “Siamo soldati
baschi per liberare Euzkadi”, e la musica aiutava a fissare il messaggio
in profondità: come una ferita, come un solco, come un’incisione
nell’anima. Passarono alcuni anni, volò un’altra colomba verde-marrone
sulle nostre teste, e la nostra idea di Euzkadi andò crescendo:
a volte l’associavamo al paesaggio – con la “Ama Lur”, la “terra madre”;
altre con una leggenda romantica; altre ancora, la maggior parte delle
volte, con i Paesi Baschi, l’antica e reale “Euskal Herria” che il principe
Bonaparte inserì nel suo atlante linguistico. Quanto più
ci nascondevano – nella televisione, nella scuola, nel mondo ufficiale
– ciò che ci era più vicino, tutto ciò che era in
relazione con la cultura del nostro paese, tanto più credevamo in
Euzkadi. “Ixilduago, maitatuago”, “Quanto più messa a tacere, tanto
più amata”.
Senza dubbio, per trascinante che risultasse, per innamorati che fossimo
di lei, l’idea era in parte falsa. Il paese occulto e sognato doveva molto
all’immaginazione e alla necessità di credere in qualcosa. La parola
“Euzkadi”, ad esempio, rimava bene solo con le idee dei baschi che avevano
lottato nella guerra come “gudaris” – “soldati nazionalisti baschi” –,
e, invece, non aveva nulla a che fare con quelle dei baschi franchisti,
altrettanto numerosi, o con quelli che durante la guerra combatterono nelle
file socialiste o di sinistra; inoltre la guerra era stata persa da tutti
i cittadini che lottarono per la Repubblica e non solo dai baschi che difesero
Bilbao o furono bombardati dai nazisti a Guernica. Riassumendo, Euzkadi
non era né un territorio né un popolo – come invece lo erano
i Paesi Baschi, “Euskal Herria” – ma il nome che una determinata scelta
politica, quella più baschista, dava alla sua utopia.
Noi naturalmente, non potevamo, come la colomba verde-marrone, volare
sopra noi stessi per avere una prospettiva migliore e prendere coscienza
del fatto che partecipavamo a una visione romantica ed essenzialista del
nostro paese, scambiando per Popolo – formato a partire da una supposta
Anima Basca – ciò che era unicamente Società. Credevamo nel
paese occultato e sognato e non avevamo dubbi. Ma in realtà, date
le circostanze – la nostra età e la situazione politica degli anni
sessanta e settanta – non c’erano altre possibilità.
Credo che fu lo scrittore Gombrowicz a parlare dell’essere umano come
di qualcosa che, eternamente immaturo, prendeva la sua forma definitiva
unicamente stando tra o di fronte agli altri, così che una qualsiasi
persona poteva mostrarsi in modi diversi a seconda della pressione esterna
del momento. Bene: secondo tutti gli indizi, fu quanto ci accadde. Immaturi
per natura e per età, la pressione esterna che esercitava il franchismo
ci riaffermò nell’idea di una patria basca sconfitta dalla Spagna
durante la guerra. In altre circostanze avremmo lasciato sfumare l’idea,
ma lì avevamo tutti i vincitori della guerra che proibivano e perseguitavano
la nostra lingua, sequestrando i libri, persino sradicando le lapidi sulla
cui superficie figurasse un “lauburu”, il simbolo basco con le quattro
braccia. In una parola, avevamo di fronte i dirigenti spagnoli dell’epoca
che davano ragione a ciò che si scriveva negli opuscoli politici
degli inizi dei settanta: che non tutti i baschi avevano lottato contro
Franco, ma che Franco aveva lottato contro tutti i baschi.
Passarono alcuni anni, passarono tante colombe sulle nostre teste e,
una sera, arrivarono centinaia di guardie civili che cominciarono a perquisire
tutte le case e a pattugliare i monti. La notizia fece presto a diffondersi:
avevano ucciso una delle guardie in una strada vicina al nostro villaggio.
I fatti precipitarono: gli autori dell’attentato furono localizzati e l’attivista
Etxebarrieta morì. Il suo compagno, Sarasketa, fu arrestato. Dissero
che un tenente, opponendosi ai suoi stessi uomini, gli aveva salvato la
vita.
Dopo poco la nostra strada fu sommersa da volantini. Il testo, stampato
in modo pessimo, diceva: “Di fronte a tanto sensazionalismo e a una informazione
tanto tendenziosa da parte dell’apparato fascista-capitalista, l’Eta torna
alla ribalta per far conoscere al popolo la morte di Xabier Etxebarrieta.
Txabi Etxebarrieta, senza ombra di dubbio, fu assassinato a Tolosa. I testimoni
presenti, le bruciature sulla camicia e l’autopsia effettuata lo confermano.
I fautori dell’Ordine Capitalista mostrano i loro metodi: Txabi Extebarrieta
fu tirato fuori dall’automobile e senza neanche chiedergli i documenti,
fu ammanettato, collocato vicino alla parete e ucciso con un colpo al cuore,
a sangue freddo (...)”.
Quell’anno, il 1968, cambiò la storia politica basca. Tutta
la nostra ideologia anteriore doveva la sua esistenza a ciò che
era accaduto prima e durante la guerra, ed era soprattutto un riflesso,
l’ultimo bagliore dell’esplosione del 1936; ma il tempo non era trascorso
invano e alcuni baschi meno giovani e innocenti di noi, che sapevano chi
fosse Che Guevara e conoscevano le teorie anti-colonialiste di Franz Fanon
o Lenin, già vedevano la questione in una forma differente. Di fatto,
già avevano creato un’organizzazione, una Resistenza Basca che presto
prese il nome di Eta (“Euskadi ta Askatasuna”, “Euskadi e Libertà”).
Quella Resistenza, secondo ciò che venimmo a sapere dagli opuscoli
diffusi dopo la morte di Extebarria, aveva alcuni membri in carcere e disponeva
di un mezzo di comunicazione, una rivista clandestina, “Zutik” (A piedi),
in cui si parlava apertamente della Rivoluzione Basca: “La Rivoluzione
Basca è il processo che deve realizzare il cambiamento delle strutture
politiche e socio-economiche, in Euskadi, per mezzo dell’applicazione di
una strategia giusta. Non basta una coscienza di classe, come neanche basta
una coscienza nazionale, è necessaria una coscienza di classe nazionale,
dato che subiamo sia per le strutture capitaliste che per quelle imperialiste”.
Non si scriveva più Euzkadi, con la zeta, ma Euskadi. La lieve
differenza ortografica segnalava l’inizio di un nuovo modo di procedere.
Ma in fondo, era poi così cambiata la situazione? Ho l’impressione
che, nonostante l’ortografia, e l’acutizzarsi e drammatizzarsi dei problemi
a partire dal 1968, lo schema della costruzione di Euzkadi o Euskadi continuò
a essere lo stesso di sempre.
Da un lato, una serie di persone che, entrate in politica per via sentimentale
o emotiva, si trovavano impegnate a convertire il paese sognato e idealizzato
in un paese reale; sogno e ideale che ora raddoppiavano o triplicavano
la posta, poiché si trattava di costruire una patria indipendente
e socialista soprattutto per mezzo della lotta armata; dall’altro lato,
un mondo esterno aggressivo, una dittatura franchista che, paradossalmente,
con la sua risposta brutale agli attacchi, e con la sua ostinata negazione
di tutto ciò che era basco, contribuiva più di ogni altro
elemento a questo lavoro di costruzione. Un surrealista avrebbe definito
la situazione come l’incontro in un piccolo paese tra un’Impossibilità
e una Repressione. “La risposta che il fascismo dà alle nostre azioni”,
scrivevano i teorici della lotta armata, “è al solito brutale e
indiscriminata e colpisce anche persone lontane dalla nostra organizzazione,
contribuendo così alla presa di coscienza da parte della società
basca. Molti, che non si sentivano compromessi con la causa, hanno cominciato
a esserlo il giorno che sono stati picchiati nei commissariati”.
Passarono gli anni, molte colombe passarono sulle nostre teste e la
dialettica tra Impossibilità e Repressione cominciò a manifestare
la sua brutalità. Il sogno cominciava a trasformarsi in incubo:
un giorno era una sparatoria e la morte di due militari; un altro, una
ventina di arresti con conseguenti torture al commissariato; un altro ancora,
la morte di una donna di servizio a causa dell’esplosione di una bomba
destinata al padrone di un’impresa. E, insieme a questo, gli opuscoli,
le teorie, le discussioni interne, le scissioni, gli scioperi e le manifestazioni.
E poi, per finire, su tutto dominava un dubbio: Franco sarebbe morto quell’anno?
L’anno seguente? La dittatura sarebbe terminata con la morte del dittatore?
Franco morì nel 1975 e subito si riformarono partiti politici,
parlamento, elezioni, statuto di autonomia, democrazia. Si poteva pensare
che con il cambiamento della situazione, sarebbe cambiata anche la lotta
di Euskadi e così la dialettica fatale tra Impossibilità
e Repressione, ma purtroppo non fu così. Negli anni ottanta le posizioni
dei difensori della lotta armata continuarono a essere le stesse e la situazione
non fece altro che peggiorare. Gli attentati, numerosissimi, cominciarono
a essere indiscriminati e particolarmente crudeli e l’antica Eta che nel
1970 aveva scritto una lettera alla Guardia Civile, affermando che “comprendeva
la sua situazione” e che le suggeriva di abbandonare il Corpo, ora risultava
molto ingenua. Da parte sua, anche la Repressione irrigidì la sua
posizione.
Nell’81, o forse nell’82, accadde qualcosa di terribile: un militante
dell’Eta morì a causa delle torture inflittegli in un commissariato.
Quando la televisione mostrò la sua immagine, lo riconobbi: era
uno dei miei compagni di scuola. Non quello che aveva detto “Darei la vita
per Euzkadi”, ma un altro chiamato “Lasha”, il cui vero nome era José
Arregui. Non fu un fatto qualsiasi. Al contrario, fu il presupposto di
un nuovo inizio. La Repressione arrivò persino a creare – nel 1983,
durante il primo mandato socialista – i “Gruppi Antiterroristi di Liberazione”
(Gal), un’organizzazione formata fondamentalmente da mercenari che rispondeva
agli attentati dell’Eta con altri attentati ugualmente mortali.
La fine degli anni ottanta concesse alla società basca un respiro
e sembrò, per un momento, che la pace fosse vicina. Scomparve il
Gal; l’Eta si incontrò ad Algeri con gli emissari del Partito socialista,
la coalizione indipendentista “Herri Batasuna” (Unione Popolare) ottenne
i migliori risultati elettorali della sua storia convertendosi in una forza
politica di prim’ordine, fatto che “avrebbe convinto i violenti della non
necessarietà della lotta armata”. Ma, una dopo l’altra, tutte le
illusioni naufragarono.
Dieci o dodici anni dopo, già nel nuovo secolo, l’Eta va avanti
aggrappata all’Impossibile e il suo tono è ogni volta un po’ più
freddo e militare, più autoritario; rifiuta, con disprezzo, ciò
che i baschi le chiedono con manifesti e manifestazioni; mobilita, dall’altra
parte, i giovani “ribelli” delle scuole affinché perseguitino e
rendano la vita impossibile a professori, giornalisti e politici che non
condividono la sua visione essenzialista.
A peggiorare le cose, anche la Repressione ha ultimamente affilato
le sue armi e ci sono giorni in cui si ha l’impressione che qualsiasi persona
che viva nei Paesi Baschi e non condivida l’idea del governo di Madrid,
possa essere ritenuta sospetta di collaborazione con la banda armata. Tutto
ciò accade, inoltre, in mezzo a una tempesta in cui si mescolano
verità e menzogne, informazioni oneste e calunnie, militanza democratica
e antibaschismo viscerale. Mentre scrivo è autunno, i giorni in
cui le colombe passano per il nostro cielo e vanno verso il Sud. Se mi
lasciassi trasportare dalla retorica, metterei il punto finale dicendo
che passeranno ancora molte colombe, colombe di tutti i colori, ma che
la colomba bianca non passerà. Non arriverò a tanto. Dirò
solo, per concludere, che la situazione è difficile, ma che la società
basca, così attiva e battagliera, finirà per imporre la propria
legge.