Alberto Maria Banti, "il manifesto", 20 febbraio 2011
Roberto Benigni a Sanremo: ma certo, quello che voleva bene a Berlinguer!
Quello che - con gentile soavità - insieme a Troisi scherzava su
Fratelli d'Italia ... Che trasformazione! Sorprendente! Eh sì, giacché
giovedì 17 febbraio «sul palco dell'Ariston», come si
dice in queste circostanze, non ha fatto solo l'esegesi dell'Inno di Mameli.
Ha fatto di più. Ha fatto un'apologia appassionata dei valori politici
e morali proposti dall'Inno. E - come ha detto qualcuno - ci ha anche impartito
una lezione di storia. Una «memorabile» lezione di storia,
se volessimo usare il lessico del comico.
Bene. E che cosa abbiamo imparato da questa lezione di storia? Che
noi italiani e italiane del 2011 discendiamo addirittura dai Romani, i
quali si sono distinti per aver posseduto un esercito bellissimo, che incuteva
paura a tutti. Che discendiamo anche dai combattenti della Lega lombarda
(1176); dai palermitani che si sono ribellati agli angioini nel Vespro
del lunedì di Pasqua del 1282; da Francesco Ferrucci, morto nel
1530 nella difesa di Firenze; e da Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia
una rivolta a Genova contro gli austriaci. Interessante. Da storico, francamente
non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo
avessero combattuto per tutt'altri motivi, in realtà avessero combattuto
già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa
fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e
dagli intellettuali nazionalisti dell'Ottocento. E che un secolo di ricerca
storica avesse mostrato l'infondatezza di tale pretesa. E invece, vedi
un po' che si va a scoprire in una sola serata televisiva.
Ma c'è dell'altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani»
erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori
- stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o
spagnoli. E anche questa è una nozione interessante, una di quelle
che cancellano in un colpo solo i sentimenti di apertura all'Europa e al
mondo che hanno positivamente caratterizzato l'azione politica degli ultimi
quarant'anni.
Poi abbiamo anche capito che dobbiamo sentire un brivido di emozione
speciale quando, passeggiando per il Louvre o per qualche altro museo straniero,
ci troviamo di fronte a un quadro, che so, di Tiziano o di Tintoretto:
e questo perché quelli sono pittori «italiani» e noi,
in qualche modo, discendiamo da loro. Che strano: questa mi è sembrata
una nozione veramente curiosa: io mi emoziono anche di fronte alle tele
di altri, di Dürer, di Goya o di Manet, per dire: che sia irriducibilmente
anti-patriottico?
E infine abbiamo capito qual è il valore fondamentale che ci
rende italiani e italiane, e che ci deve far amare i combattenti del Risorgimento:
la mistica del sacrificio eroico, la morte data ai nemici, la morte di
se stessi sull'altare della madre-patria, la militarizzazione bellicista
della politica.
Ecco. Da tempo sostengo che il recupero acritico del Risorgimento come
mito fondativo della Repubblica italiana fa correre il rischio di rimettere
in circuito valori pericolosi come sono quelli incorporati dal nazionalismo
ottocentesco: l'idea della nazione come comunità di discendenza;
una nazione che esiste se non ab aeterno, almeno dalla notte dei tempi;
l'idea della guerra come valore fondamentale della maschilità patriottica;
l'idea della comunità politica come sistema di differenze: «noi»
siamo «noi» e siamo uniti, perché contrapposti a «quegli
altri», gli stranieri, che sono diversi da noi, e per questo sono
pericolosi per l'integrità della nostra comunità.
Ciascuna di queste idee messa nel circuito di una società com'è
la nostra, attraversata da intensi processi migratori, può diventare
veramente tossica: può indurre a pensare che difendere l'identità
italiana implichi difendersi dagli «altri», che - in quanto
diversi - sono anche pericolosi; può indurre a fantasticare di una
speciale peculiarità, se non di una superiorità, della cultura
italiana; invita ad avere una visione chiusa ed esclusiva della comunità
politica alla quale apparteniamo; e soprattutto induce a valorizzare ideali
bellici che, nel contesto attuale, mi sembrano quanto meno fuori luogo.
Ecco, con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una
riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale: tanto
più in considerazione della reazione entusiastica che ha accolto
l'esibizione del comico, quasi come se Benigni avesse detto cose che tutti
avevano nel cuore da chissà quanto tempo. Ora se questi qualcuno
sono i ministri La Russa o Meloni, la cosa non può sorprendere,
venendo questi due politici da una militanza che ha sempre coltivato i
valori nazionalisti. Ma quando a costoro si uniscono anche innumerevoli
politici e commentatori di sinistra, molti dei quali anche ex comunisti,
ebbene c'è da restare veramente stupefatti.
Verrebbe da chieder loro: ma che ne è stato dell'internazionalismo,
del pacifismo, dell'europeismo, dell'apertura solidale che ha caratterizzato
la migliore cultura democratica dei decenni passati? Perché non
credo proprio che un simile bagaglio di valori sia conciliabile con queste
forme di neo-nazionalismo. Con il suo lunghissimo monologo, infatti, Benigni
- pur essendosi dichiarato contrario al nazionalismo - sembra in sostanza
averci invitato a contrastare il nazionalismo padano rispolverando un nazionalismo
italiano uguale a quello leghista nel sistema dei valori e contrario a
quello solo per ciò che concerne l'area geopolitica di riferimento.
Beh, speriamo che il successo di Benigni sia il successo di una sera.
Perché abbracciare la soluzione di un neo-nazionalismo italiano
vorrebbe dire infilarsi dritti dritti nella più perniciosa delle
culture politiche che hanno popolato la storia dell'Italia dal Risorgimento
al fascismo".