Gianni Ballarini, "Diario", 24 giugno 2005
Avevano rubato l’auto la sera prima. Poi, il 19 maggio, quella Y 10
con in pancia una bombola di gas, è esplosa nel pieno centro di
Montebelluna, nella radiosa Marca trevigiana. Due le scritte minacciose
all’esterno: «Nò islam» (proprio così, accentato)
e «la II x Pupato», chiaro riferimento al sindaco di centrosinistra
della cittadina pedemontana, Laura Puppato. Da quel giorno scortata. Il
commento immediato del procuratore capo di Treviso Antonio Fojadelli: «Siamo
preoccupati, c’è qualcosa che non va». Poche settimane prima,
infatti, era stata lanciata una bomba carta all’ingresso del centro islamico
di Nervesa della Battaglia, paesino sul Piave, mentre qualche chilometro
più in là, a Giavera del Montello, era stata fatta saltare
una Opel di fronte all’abitazione di marocchini.
Atti di intolleranza per i quali non è stato individuato alcun
responsabile, finora. A Montebelluna hanno arrestato un giovane locale,
un balordo. Presto rilasciato. I timori della Digos è che quelle
azioni siano il frutto della galassia del radicalismo di destra, in forte
espansione in zona, dove le fobìe contro gli immigrati si consumano
come merendine. La Lega nord, all’opposizione dopo nove anni di governo,
ha sminuito l’episodio: «Sono ancora qua che aspetto una loro telefonata
di solidarietà», le parole del sindaco. Che aveva usato toni
duri sull’accaduto: «Getta un’ombra nera nella vita di questa cittadina».
Un silenzio, quello dei padani, rotto sabato 11 giugno, quando al palazzetto
dello sport di Montebelluna arriva Roberto Calderoli. Poche centinaia di
fan in visibilio per l’escalation verbale del ministro: «Auspico
l’utilizzo di forbici arrugginite nei confronti degli immigrati violenti.
Perché se si salvano dalle ferite, almeno saranno infettati».
Nò Islam, forbici, grida, violenza… un vocabolario da piccola
Heimat assediata, ben conosciuto in Veneto, dove da anni si shakerano,
in un unico contenitore, politica nera e fanatismo, ansia sociale e xenofobia.
Da queste parti nessuno si scandalizza se sotto le insegne del partito
della paura e dei muri alzati, il più forte nell’ex parrocchia d’Italia,
camminano a braccetto le teste rasate e i figli del «Lèon
che magna el teròn», i secessionisti eredi del doge e i camerati
delle curve. Tutti forniti dello stesso kit razzista.
Guru da stadio. Lo sceriffo di Treviso Giancarlo Gentilini, guru della
Liga veneta, è stato salutato dagli skin di Padova con cori da stadio
(«Uno di noi/Gentilini è uno di noi») quando ha dichiarato
guerra «a quelli che pregano con il culo per aria», chiudendo
ogni spazio agli «infedeli». L’unico parlamentare a spedire
una lettera di saluti e di adesione al raduno europeo delle teste rasate,
organizzato nel 2001 a Revine Lago nel trevigiano, è stato il veronese
Federico Bricolo (oggi sottosegretario leghista alle Infrastrutture), lo
stesso che ha proposto, per legge, la chiusura di tutte le moschee e la
presenza dei crocifissi ovunque, dalle aule scolastiche agli aeroporti.
E quando, nel gennaio 2003, sei esponenti di Forza nuova sono arrestati
a Verona per l’aggressione televisiva all’islamico Adel Smith e al suo
collaboratore, il primo a correre in carcere in loro soccorso è
il deputato bossiano Borghezio: «Hanno dato corpo a sentimenti diffusi»,
la sua giustificazione.
Identità. Civiltà cristiana. Razza. Omofobia. Sono il
collante ideologico di questo arcipelago di destra, i cui componenti frequentano
gli stessi ambienti, le stesse messe (in latino), le stesse manifestazioni.
Una creatura nera, nera. Una traiettoria, quella della Liga veneta,
che si poteva leggere già dal suo Dna, così colorato di nero.
Il suo fondatore, Franco Rocchetta, è stato vicino agli ambienti
di Ordine nuovo. E uno dei suoi primi quattro deputati, l’apostolo dell’antiresistenzialismo
Antonio Serena, iniziò quando aveva i brufoli a scrivere sul fascistissimo
Candido di Giorgio Pisanò. Militò nell’Msi e all’alba degli
anni Novanta traslocò in Liga. Ma il richiamo delle origini deve
aver strombazzato bene ai suoi timpani. Così nel 1999 si accasò
in An. Una stagione breve, tuttavia, quella con la casacca finiana. Perché,
se gli venne tollerata la battaglia per il medico veneziano Carlo Maria
Maggi all’epoca condannato per piazza Fontana, non gli fu perdonato l’aver
fatto recapitare a tutti i parlamentari la videocassetta con l’autobiografia
di Erich Priebke, suo idolo. Una volta cacciato, è tornato nell’alveo
materno: Alternativa sociale.
Camicia nera. Camicia verde. Da queste parti sono facilmente intercambiabili.
Del resto l’autonomismo veneto ha una profonda radice di destra. Lo stesso
Luigi Faccia, il capo politico della Veneta serenissima armata (quelli
che scalarono nel 1997 il campanile di San Marco, piazzando uno scheletro
di carrarmato in piazza), era inserito negli ambienti dell’estrema destra
padovana quando frequentava l’università. E l’esperienza dei serenissimi
affascinò molti giovani fascisti. Dirigenti della padovana Gioventù
nazionale (tra cui Paolo Caratossidis, oggi leader veneto di Forza nuova)
chiesero di aderire al comitato di sostegno «ai patrioti veneti».
E rapporti Digos dell’epoca raccontano del fermento tra i ragazzi della
destra radicale e persone più adulte dalle spiccate simpatie lighiste.
Un filo che non si è mai spezzato. Basta osservare il caso Verona,
dove da almeno la metà degli anni Novanta la Lega nord ha calato
la maschera: «Da partito del folklore padano a movimento di destra,
etnocentrico, nazional localista, fondamentalista cattolico», come
ha scritto Emanuele Del Medico nel libro All’estrema destra del padre.
Flavio Tosi, pasdaràn della croce. E il Caronte che si è
assunto il compito di traghettare il Carroccio verso quei lidi dell’oltranzismo
è «mister preferenze», Flavio Tosi, il politico più
votato in Veneto (28 mila voti) alle ultime regionali. Un tesoro di consensi
che gli ha consentito di sedere sulla poltrona di assessore alla Sanità.
In passato aveva bucato la crosta mediatica con la proposta di creare
negli autobus locali entrate separate per gli extracomunitari e per gli
autoctoni e per aver portato in Consiglio comunale una tigre come pubblicità
al circo padano. Poi il botto nel dicembre 2004, con la condanna sua e
di altri cinque leghisti per istigazione all’odio razziale e violazione
della legge Mancino. Nel mirino del procuratore Papalia le sue iniziative
contro rom e nomadi. I suoi (pochi) avversari interni lo accusano di aver
impugnato la croce, quella preconciliare, e di aver trasformato il partito
in una Lega lefevbriana. È un assiduo frequentatore delle messe
con rito tridentino e di riparazione (contro le sfilate gay in particolare).
Ogni anno, ad aprile, organizza, con i nostalgici del papa re e le teste
rasate, una fiaccolata per le vie della città in ricordo delle «Pasque
veronesi», l’insurrezione popolare contro i francesi nel 1797. È
tra i fondatori del laboratorio dove si è cementata, ufficialmente,
la santa alleanza tra integralisti cattolici, estremisti di destra, skinhead
e leghisti: l’Osservatorio sulla giustizia giusta. Un universo di diverse
ideologie, unite da una battaglia: l’avversione alla legge Mancino e a
Papalia.
Il 3 marzo 2001, giorno del battesimo ufficiale dell’associazione (finanziata
dalla Regione), erano presenti anche l’ex leader di Ordine nuovo Paolo
Signorelli e il giornalista della Padania Gianluca Savoini: «Al di
là delle bandiere ci accomunano i princìpi», il commento
registrato nell’occasione. Un’alleanza indagata in profondità dalla
magistratura scaligera: «In alcuni procedimenti abbiamo accertato
situazioni di razzismo che hanno coinvolto settori della curva sud dello
stadio, certe forze politiche e associazioni», il giudizio di Guido
Papalia. «Queste organizzazioni ancora oggi hanno contatti tra loro
e fanno azioni comuni. Noi, tuttavia, abbiamo aperto fascicoli separati
su atti distinti».
Il procuratore aveva perfino tentato di indagare i fondamentalisti
cattolici per istigazione religiosa. Tentativo fallito. Esiti diversi per
Lega e skin. Teste rasate che hanno una fama riconosciuta dai loro stessi
camerati milanesi: «Hanno i coglioni di marmo». Il loro primo
manifesto politico lo esposero nel 1990 in piazza Bra: «Siamo un
gruppo di giustizieri nazifascisti. Rivendichiamo la nostra territorialità
messa a dura prova con l’arrivo di questi cani negri che contaminano la
nostra terra e portano la loro droga nel nostro sangue».
Degli avanguardisti. Ammorbiditi nei toni, sono gli stessi slogan che
si sentono oggi nelle piazze del Veneto, ammalato di diffidenza.