di Maria Matteo, Rivista anarchica, N. 302, ottobre 2004
I loro corpi in fila dopo l’esecuzione parevano tutti eguali: anonimi
e senza volto. Lo sguardo opaco con cui, uno dopo l’altro, avevano letto
il messaggio imposto dai sequestratori, era stato spento per sempre. Per
loro non hanno chiesto neppure il riscatto, proposto scambi, fatto ricatti.
Quei dodici lavoratori nepalesi, cuochi ed addetti alle pulizie non valevano
niente, sono stati macellati come capretti per spiegare ai tanti poveracci
che abitano questa terra che servire il padrone è pericoloso, può
costare la vita. Chi sa se funzionerà. Non credo. Se bastasse la
paura di morire i nostri mari non sarebbero affollati dalle carrette dei
disperati che tentano di approdare nel Bel Paese per guadagnarsi una possibilità,
una speranza di futuro. Il terrore di una vita peggiore della morte, la
fuga dalla fame, dalle persecuzioni, dalle malattie che qui non uccidono
ma nel mondo di sotto mietono vittime a grappoli, è superiore alla
paura del mare, degli scafisti, dei militari in perlustrazione. Più
forte di tutto.
I nepalesi morti in Iraq non sono diversi dai tanti migranti che muoiono
nel Mediterraneo, a loro non è stata offerta alcuna scelta, alcuna
possibilità. Eppure, senza averlo deciso, quei 12 nepalesi sono
stati arruolati ed hanno pagato con la vita. D’altra parte anche chi annega
nel canale di Sicilia è vittima di guerra, la guerra non dichiarata
tra nord e sud, tra chi opprime e chi è oppresso.
Rifiutare il gioco dei potenti
Nella follia che trapassa la terra tra il Tigri e l’Eufrate, che come
una piena improvvisa e violenta macina i percorsi possibili degli individui,
li stritola in una morsa senza possibilità di scampo non è
in gioco solo la sopravvivenza di ciascuno ma la stessa possibilità
di sottrarsi, di rifiutare il proprio corpo e la propria mente al gioco
dei potenti.
Un gioco in cui ciascuno è arruolato a forza, volente o nolente,
in un esercito con o senza stellette.
È capitato ad Enzo Baldoni, il corrispondente di “Diario”, ammazzato
dai nazionalisti iracheni, che non hanno trovato di meglio che arruolarlo
in una guerra che non era la sua. Specularmene identici i nazionalisti
nostrani si sono invece affrettati a descrivere Baldoni come un imbecille
a caccia d’emozioni, un “turista per caso” un po’ sfigato. Per quelli di
“Libero” il povero Baldoni non era abbastanza italiano, niente a che vedere
con il mercenario Quattrocchi che la leggenda descrive nell’atto di proclamare
il suo machismo italico prima di morire.
In un’altra guerra, sotto altre latitudini, le cose non vanno diversamente.
È capitato ai bambini osseti della scuola di Beslan e, prima di
loro era toccato ai tanti bambini che nella martoriata Cecenia erano morti
sotto le bombe di Putin così come quelli iracheni erano stati maciullati
da quelle di Bush, Blair, Berlusconi. È la guerra. Cambia nome a
seconda dei fronti ma la sua ferocia è identica, il suo sprezzo
per i civili, per i non schierati, per i pacifisti del tutto simile.
O con me o contro di me. Siamo tutti in guerra, che ci piaccia o meno.
La spirale nella quale siamo avvolti ci avviluppa tutti come un sudario
e l’esodo appare chimera irraggiungibile, non-luogo senza possibilità
di approdo.
Eppure, tra le nebbie fitte della guerra permanente, infinita, totale,
dello scontro di civiltà, dei rinascenti nazionalismi, degli orrori
integralisti occorre ritrovare una bussola possibile, un non-luogo cui
volgere la prua, cui mirare per non dover scegliere tra la scimitarra “barbarica”
e le “civili” bombe a frammentazione, tra chi sgozza e chi frigge nell’uranio
impoverito.
Mi si dirà: “non siamo ancora a questo punto: in questo paese
sono ancora molti quelli che non ci stanno, quelli che tengono la bandiera
arcobaleno alla finestra, quelli capaci di guardare ciascuno negli occhi
per cercarvi una persona e non una divisa”. Sì, senza dubbio. Ma,
la domanda vera è: “ancora per quanto?” Cosa accadrebbe se in una
scuola come tante del Bel Paese un giorno entrassero una decina di fanatici,
decisi ad arruolare anche i nostri figli? Quanta gente riuscirebbe a pensare
ai bambini iracheni che non hanno mai visto una scuola ma conosciuto solo
fame, malattia, fuoco e morte? Quanta gente non invocherebbe forche e vendetta?
In Cecenia la moda femminile della cintura al tritolo è un prodotto
tipico dell’epoca Putin. Mai, nei trecento anni di resistenza e rivolta
contro i dominatori russi, i ceceni avevano fatto ricorso a questi mezzi,
mai la disperazione si era trasformata in terrore suicida. Pare che una
lunga scia di sangue, disperazione a fanatismo si annodi dalla Palestina
all’Iraq, alla Cecenia.
Quanto tempo ci vorrebbe alla nostra latitudine perché il gusto
per la guerra, la ferocia indiscriminata, il terrore preventivo divenissero
sport nazionale? Certo qui da noi lo stile sarebbe “più occidentale”:
niente cinturine esplosive ma bombardieri, corpi speciali, leggi specialissime.
Ed i segni ci sono già tutti: il clima diviene ogni giorno più
pesante, tra un’esternazione e l’altra del ministro di turno, sempre pronto
a costruire teoremi per criminalizzare le lotte sociali, per consolidare
l’equiparazione tra opposizione alla guerra, al militarismo, alle politiche
neoliberiste e terrorismo.
Italiani “brava gente”
Pare che in Iraq, lo ha sostenuto un reduce di ritorno in Italia, i
nostri prodi bersaglieri si siano distinti nell’appiccare il fuoco intorno
alle case che dovevano “perquisire” per stanarne più in fretta i
terrorizzati abitanti e dilettarsi a saccheggiarne le abitazioni. Niente
di paragonabile, in ogni caso, alle violenze inaudite praticate dai “colleghi”
americani: gli italiani, si sa, sono “brava gente”. Un mito falso e pericoloso
che oggi come in passato copre le peggiori nefandezze. Ed un giorno non
lontano la guerra potrebbe bussare alle porte delle nostre case e allora
potrebbe essere tardi per dire no.
Gli attori di questa tragedia, i fanatici che siedono alla Casa Bianca
e quelli delle scuole wahabite, i Putin, i Bush, i Bin Laden non chiedono
di meglio che vederci tutti arruolati, ben disposti come in una scacchiera
prima dell’inizio di una partita: i bianchi tutti da una parte, ciascuno
con il suo ruolo deciso alla nascita, e i neri sul fronte opposto, anch’essi
disposti secondo una immutabile gerarchia.
Spetta a noi, a ciascuno di noi, rovesciare il tavolo e scompaginare
la scacchiera.
Ma non è facile. Anzi. Da Occidente si è dipanata la
prospettiva di un’umanità internazionalista, oltre le frontiere
degli stati, oltre i fumi densi delle religioni, unita, al di là
dei confini, dalla consapevolezza di un’emancipazione possibile per i diseredati
della terra che facesse del pianeta un giardino per tutti, un eden concreto,
accessibile, possibile. Ma, lo sappiamo, l’eredità materiale dell’Oc-cidente
è storia di rapine, saccheggi, deprivazioni morali, massacri. Gli
alfieri della democrazia non sono stati meno feroci dei crociati e non
ci si deve stupire se il moderno integralismo islamico nelle sue complesse
varianti, non diversamente dal moderno integralismo cristiano di Bush &
C., riprenda il tema delle crociate, della guerra di religione, dello scontro
all’ultimo sangue tra le “civiltà”. Gli attori di questa tragedia
hanno i medesimi interessi, pur su fronti opposti.
Le radici del male sono troppo profonde per credere che basti qualche
palliativo, la cura deve essere radicale se lo si vuole estirpare.
Ecco perché le anime belle del pacifismo nostrano (sempre più
invischiate nei se e nei ma) risultano ineffettuali, incapaci di contrastare
la martellante propaganda militarista, razzista, forcaiola della destra
più becera e retriva. Oggi persino i pacifisti non violenti tengono
a precisare di non essere antimilitaristi, a considerare comunque positiva
la funzione dell’esercito, finendo così in un cortocircuito logico,
facili prede di chi, da militarista e guerrafondaio, si dice pronto a fare
la guerra per ottenere la pace. Il più classico ed inossidabile
degli ossimori, quello che garantisce che la guerra sia sempre “permanente”,
estensione, senza soluzione di continuità, della politica.
Cattivo per antonomasia
La pratica antimilitarista rompe con l’immaginario bellico, lo rende
impensabile, lo pone fuori dai margini dell’agire politico, quale spazio
di mediazione ove l’avversario resta interlocutore e non si muta in nemico
da eliminare. La guerra è lo spazio in cui la mediazione diviene
impossibile grazie alla costruzione dell’immagine del nemico, il cattivo
per antonomasia, la cui stessa esistenza minaccia la nostra, da eliminare
per garantire la propria sopravvivenza. La guerra, che rende impensabile
la politica, è altresì il momento più alto in cui
si esprimono lo stato, la gerarchia, la massificazione dei corpi e delle
coscienze. L’attuale palese asimmetria dei teatri bellici li rende ancor
più feroci, mettendo, e non casualmente ma in maniera preordinata
e del tutto logica, in campo i corpi e le vite dei non combattenti, dei
civili che muoiono ben più degli specialisti della morte: soldati
in divisa, mercenari, guerriglieri o kamikaze. Ognuno dei contendenti punta
sul terrore per imporre il proprio controllo sulle risorse, le vie di comunicazione,
le popolazioni, per aggiudicarsi le grandi poste di questo gioco per adulti
in cui non vengono risparmiati neppure i bambini.
Dentro questo groviglio inestricabile di guerra e terrorismo, dove
l’uno è l’alimento dell’altro, il suo puntello, la sua garanzia
di sopravvivenza siamo tutti in piedi di fronte al cuore della tenebra,
mantenendoci faticosamente sul bordo. Ma la giungla, inesorabilmente, avanza.