Jadel Andreetto, "Carmilla on line", 13 luglio 2007
"[...] provincia industrializzata
provincia terzializzata
provincia di gente squartata
1/4 al benessere
1/4 al piacere
1/4 all'ideologia
l'ultimo quarto se li porta tutti via"
(Rozzemilia - CCCP - Fedeli alla linea)
Il motore trasforma l'energia termica in energia meccanica, i pistoni
scorrono nei cilindri, le ruote girano, il pilota è concentrato
sulla pista. A ogni giro il suo team ha il cuore in gola. Sul podio assieme
al vincitore ci saranno tutti. L’uomo con la bandiera sulle spalle incarna
l’intera azienda con tutti i suoi dipendenti. La Ducati è una squadra
e quando vince, vincono tutti. O quasi.
Sul fatto che la Ducati sia una squadra, fatta di tante squadre, Walter
Garau, operaio in quel di Borgo Panigale, non ha dubbi. Sul fatto che vincano
tutti, un po’ meno. In fabbrica i lavoratori vengono divisi in team con
diverse mansioni e attività riconoscibili dal vestiario. L’obiettivo
è quello di creare uno spirito di gara all’interno dell’azienda.
«Fanno credere al lavoratore che quando passa dalla squadra x alla
squadra y abbia elevato il proprio status. In realtà non c’è
aumento di stipendio. Al massimo una tuta rossa stile pilota piena di sponsor.»
Il successo nel GP comporta soddisfazione anche per chi lavora in catena
di montaggio, ma si tratta di una soddisfazione da tifoso, da appassionato.
I media - dice Garau - stanno facendo credere che tutti siano felici, contribuiscano
e ci guadagnino. Ma non è così. Per chi lavora in linea non
cambia nulla, continuerà a fare il suo lavoro; anzi, commenta Salvatore
Carotenuto, rappresentante sindacale e operaio, potrebbe crescere la richiesta
di moto e quindi aumentare la produzione accelerando i tempi e accrescendo
la mole di lavoro. «Che vantaggio c’è nel dire abbiamo vinto
come operai? Soldi in tasca non ce ne vengono... Ogni volta che c’è
qualche soldo in più è perché abbiamo discusso e lottato
anche a suon di scioperi. L’azienda non ti da nulla anche se vince tutto,
SuperBike, GP, MotoMondiale... una volta ha offerto una torta... agli operai
arrivano le briciole, eppure se non ci fosse l’operaio non ci sarebbe la
moto.»
La strategia dello spirito di squadra applicata a gruppi di lavoratori
è un modello che rientra nella filosofia del “kaizen” che è
molto diffusa a Bologna e interessa un’ottantina di aziende.
Il kaizen si basa su un sistema di modelli organizzativi che coinvolge
l'intera struttura aziendale attraverso alcune pratiche tecniche, gestionali
e ideologiche che comprendono varie metodologie: dallo studio dei movimenti
dei lavoratore in catena di montaggio ai fini di velocizzare il processo
produttivo, alla formazione manageriale attraverso i “week-end avventura”,
dal dopolavoro aziendale al tabellone con la foto stile squadra sportiva
del gruppo di lavoratori che ha prodotto di più da appendere in
azienda, all’isitituzione della figura del team leader ecc.
Il termine Kaizen è la composizione di due kanji: Kai e Zen
che accostati significano più o meno in continuo miglioramento.
Bruno Papignani, segretario della Fiom di Bologna, spiega che l’utilizzo
di questi modelli organizzativi provoca conseguenze su tutta la rete produttiva
perché pone un problema di potere. Nell’ ‘84 il sindacato fece una
campagna di contrattazione per affrontare i modelli organizzativi proponendo
il lavoro in gruppi di produzione e di progettazione integrati, caratterizzati
da una flessibilità professionale ottenuta dalla polivalenza. Ogni
gruppo prevedeva un portavoce e aveva obiettivi di qualità e produttività,
«una sorta di cooperazione gestita dal basso che toglieva però
controllo alla gerarchia e metteva nelle mani dei lavoratori più
conoscenze e maggiori poteri contrattuali. Naturalmente saltò tutto.»
Dieci anni dopo un modello simile, ma rovesciato in termini di potere,
venne proposto per la prima volta in Italia dalla Fiat sulla base del testo
La macchina che ha cambiato il mondo, di Womack, Jones e Roos (Rizzoli,
1991).
Esistono diversi tipi di “kaizen” a seconda delle tecniche e della
provenienza dell’azienda che le applica. Il modello Ducati è il
modello americano: molto ideologico, monoculturale e non negoziabile, nel
quale i gruppi entrano in competizione tra loro e includono al loro interno
anche una competizione individuale creando i team leader, i primi tra i
pari. Il primo tra i pari diventa un’interfaccia con l’azienda al posto
del sindacato ma per l’azienda rimane un operaio non diverso dagli altri.
Non viene pagato di più, anche se ogni tanto riceve un’una tantum
in base ai risultati ottenuti, la sua è una soddisfazione psicologica
simile a quella di chi vince una gara, ma la vera gerarchia da scalare
è da un’altra parte e non è accessibile agli operai.
Come in ogni competizione sportiva, qualcuno rimane indietro o arriva
ultimo, in questo caso lavoratore in linea e precario. Questo tipo di modello
organizzativo, incalza Papignani, aumenta il controllo da parte dell’impresa,
è «basato su una partecipazione coatta che crea sospetto tra
membri della stessa squadra», non fa in modo che alla Ducati aumenti
la produttività o diminuiscano costi ma è un forte elemento
di controllo che si sviluppa attraverso la frammentazione dei lavoratori
che vengono messi in competizione tra loro e formati ideologicamente «stile
marine»: i dirigenti vanno a fare i week-end avventurosi, attraversando
ponti tibetani, si appendono a carrucole ecc., i team leader vengono formati
attraverso schemi di gioco come il cerchio in cui puoi lasciarti andare
di schiena e farti prendere dagli altri, vengono organizzati eventi ludici
da dopolavoro, la visione di filmati ecc. ecc.
In questo sistema entra in gioco anche un altro elemento: il fascino
del prodotto, che con un’abile strategia raduna immagine, ideologia e business.
Molti entrano in Ducati con il miraggio di approdare in “Ducati Corse”
o di fare il collaudatore, ma quando si trovano a lavorare in catena di
montaggio si rendono conto che l’illusione è destinata a svanire.
Carotenuto racconta infatti che in “Ducati Corse” ci si arriva solo dopo
tante esperienze o con le giuste conoscenze e aggiunge: «basta essere
disponibili in qualsiasi momento anche al di fuori degli orari di lavoro»
Fare il collaudatore, altra grande ambizione dei giovani che arrivano
in fabbrica, non è come lavorare in catena di montaggio ma significa
macinare più di 200 - 250 km al giorno in sella a una moto con tutti
i pericoli (in alcuni casi letali) che ciò comporta.
Postfordismo-toyotismo-ducatismo
Alcune aziende bolognesi applicano alla loro filiera produttiva il kaizen
a seconda della scelta fatta dalla multinazionale a cui fanno capo. La
Cesab di Casalecchio di Reno, per esempio, ha applicato il kaizen di stampo
nipponico, con personale giapponese e studi fatti nella terra del sol levante
dalla società di consulenza di direzione e organizzazione aziendale
“Bonfiglioli Consulting”. La stessa che ha seguito la Ducati, dopo che
quest’ultima si era appoggiata alla consulenza Porsche. Attualmente l’azienda
di Borgo Panigale, come già detto, basa i suoi modelli organizzativi
sul prototipo di kaizen americano come avviene anche per la Efer, con la
differenza che Ducati può fare leva anche sulla passione del lavoratore
per il prodotto stesso. Un meccanismo che viene fatto scattare anche in
Lamborghini, che però ha importato dall’Audi il modello tedesco,
nel quale la partecipazione dei lavoratori al processo produttivo rende
possibile un certo margine di trattativa con il sindacato e che introduce
alcune novità, come il diritto di veto della RSU o il team leader
a rotazione. Laddove invece non c’è passione per il prodotto la
leva è quella psicologica della distinzione, accompagnata da incentivi
in busta paga.
Il kaizen è arrivato in Emilia alla fine degli anni ‘90 con
la Magneti Marelli (FIAT), da allora molte altre aziende hanno seguito
l’esempio anche se solo poche si sono potute permettere le consulenze degli
specialisti o il know-how di una multinazionale. Delle quaranta aziende
più grandi solo la Ducati Energia non applica il kaizen per scelta
del presidente Guidalberto Guidi, un padrone vecchio stile come lo definisce
Papignani. Alla GD, il tentativo di introdurre il modello all’americana
è un processo delicato ancora in fase di sviluppo, mentre in Saeco
si sta tentando di trovare la miscela giusta tra modello americano e tedesco.
La filosofia di base però è sempre la stessa, il sindacato
può discutere e negoziare su alcune cose, ma è la cultura
a non essere mediabile e i modelli organizzativi sono stati sempre messi
in piedi attraverso due operazioni: l’espulsione, e così, dice il
segretario della FIOM, si spiega la grande ondata di mobilità dei
quarantenni, cinquantenni e l’ingresso di giovani.
Viene provocata una crisi per inserire il modello: si mandano via i
sindacalizzati, “quelli che hanno fatto le lotte, quelli che in qualche
modo sapevano come lavorare e come ritagliarsi degli spazi e avevano potere
contrattuale”. Alcune aziende hanno provocato la crisi per mandare i lavoratori
in mobilità e allontanarli.
Le statistiche bolognesi indicano che la maggior parte delle 150 -
200 aziende che nel 2004, 2005 e 2006 hanno fatto questa operazione non
sono passate dai canali di crisi normali (cassa integrazione temporanea
per crisi di mercato, cassa integrazione speciale per crisi vera o bisogno
di ristrutturazione), ma sono passate direttamente alla mobilità
volontaria non traumatica investendo dei soldi, “dando 20-30 mila euro
a chi andava in mobilità. La teoria è quella di Melfi e del
prato verde - http://www.che-fare.org/archivcf/cf36/melfi.html -, devi
creare la crisi per cerare un nuovo lavoratore. Se poi questo è
precario e debole, l’operazione è perfettamente riuscita.”
Un operaio di 40-50 anni sa lavorare e ha consolidato un suo metodo.
È molto difficile che aderisca al modello, come è molto difficile
che possa cambiare il suo metodo di lavoro per aderire alle tempistiche
e ai movimenti corporei dettati dal modello stesso.
La maggior parte del kaizen, spiega il segretario della FIOM, passa
attraverso i filmati e l’informatizzaione di tutti i movimenti, in modo
tale che chi arriva non ha bisogno di sviluppare professionalità.
Al lavoratore vengono date istruzioni sui movimenti da fare per adempiere
a determinati compiti: “ti dicono quale braccio, quale mano, quanti passi
devi fare per compere una determinata operazione e se la vuoi fare diversamente,
non puoi. Hanno trovato anche il sistema di farti usare parti diverse del
corpo nel corso della giornata. Per evitare le tendiniti? No, per produrre
più velocemente.”
Per fortuna, prosegue Papignani, in Italia si mantengono ancora tempi
ciclo decenti, “ma tutti stanno cercando di applicare la metrica Tmc2”
(Tempi dei movimenti collegati-seconda versione), uno dei modelli cronotecnici
preposti alla quantificazione dei tempi d’esecuzione delle mansioni operaie
nella produzione di serie. N.d.R.) http://www.controappunto.org/documentipolitici/lavoro%20e%20reddito/Cos'%E8%20il%20TMC-2.htm
In Spagna e Germania, per esempio, con la metrica Tmc2, si è
arrivati da mansioni di 20 - 28 secondi l’una a mansioni di 3 secondi l’una.
L’asso nella manica del lavoratore, conclude Papignani, “è la
sua professionalità, in quelle aziende che ne fanno tesoro e che
ne hanno bisogno. In Ducati non impari niente. Prima imparavi a fare un
mestiere, oggi la precarietà non dà mestiere, la precarietà,
anche per la Ducati, diventa precarietà della qualità del
lavoro. Il vantaggio risiede quindi solo nel maggiore controllo che si
può esercitare su lavoratore.”
Il fascino del brand
Sazia e disperata
con o senza TV
piatta monotona
moderna attrezzata
benservita consumata
(Rozzemilia - CCCP - Fedeli alla linea)
Il “Ducati Factory Shop” è stato inaugurato tre anni fa come
outlet della moto nei pressi dell’azienda stessa. L’idea è nata
nel ‘99 dall’allora responsabile del parco moto aziendale, Leonardo Di
Michelangeli, che ha creato un’officina a parte all’interno dello stabilimento
per riconvertire le moto usate, per le prove, per le fiere, per gli eventi
ecc. e che prima venivano svendute ai concessionari, in moto aziendali
collaudate vendute direttamente dalla Ducati, trasformando così
un’attività poco redditizia in un business con tanto di punto vendita.
Da allora il marchio ha ottenuto, grazie al successo nel GP, una visibilità
in crescita esponenziale e lo stesso Di Michelangeli ha pensato che il
prodotto principale potesse essere affiancato da qualcos’altro che facesse
leva sulla passione sportiva dando così il via alla produzione di
magliette e capellini firmati Ducati. Il successo è stato immediato
e i gadget si sono moltiplicati, dagli orsetti ai modellini, dalle valigie
alle tende da campeggio, dalla linea d’abbigliamento tecnicosportivo a
quella casual. Il fascino del marchio ha fatto in modo che fossero messi
in vendita come fermacarte anche contachilometri e pignoni, destinati alla
rottamazione, sui quali è stato applicato lo scudetto Ducati Corse.
Il bacino d’utenza del consumatore si è allargato. Anche chi
non può permettersi una moto si è mostrato interessato a
vestire Ducati. Il fatturato dello Shop è una fetta notevole di
quello dell’intera azienda e ha portato alla creazione della “Ducati Retail”
che gestisce anche un negozio interno alla fabbrica, un punto vendita all’aeroporto
e un outlet a Castel Guelfo.
I lavoratori dello stabilimento hanno il 30% di sconto su tutti i prodotti
e possono noleggiare le moto per qualche tempo. Un operaio che affitta
una “1098” prende 400 euro circa in meno al mese (lo stipendio medio è
1100 euro) e nello stesso tempo, andando in giro in sella, fa pubblicità
all’azienda come quando indossa la tuta da lavoro, che è “griffata”.
Il fascino del brand, racconta ancora Salvatore Carotenuto, fa presa anche
sui giovani appena assunti a tempo determinato, che ancor prima di iniziare
si presentano vestiti di tutto punto: «comprano capellini, felpe
ecc. e non hanno ancora uno stipendio. Spendono allo shop prima di essere
pagati.»
Questo sistema di marketing che si basa sulla passione per il prodotto,
con un’abile strategia raduna immagine e business e sembra funzionare perché,
come scriveva Chuck Palahniuk, “siamo consumatori. Siamo sottoprodotti
di uno stile di vita che ci ossessiona. [...] Quello che mi spaventa è
il nome di un tizio sulle mie mutande. Le cose che possiedi alla fine ti
possiedono.”
... come finiva il pezzo dei CCCP? Ah già: dammi una mano - dammi una mano a incendiare il piano padano - dammi una mano - dammi una mano a consolare il piano padano.