"Internazionale", 1 maggio 2009
Troppo deboli, moderati, pronti a scendere a compromessi. Il Pci e i suoi eredi hanno perso contatto con la società. E hanno dilapidato un'eredità politica straordinaria, scrive lo storico inglese Perry Anderson.
Perry Anderson è uno storico britannico. È stato tra
i fondatori della New Left Review. Insegna storia e sociologia all'università
della California di Los Angeles (Ucla). Quest'articolo è un estratto
del saggio pubblicato sulla London Review of Books e farà parte
del nuovo libro di Anderson, The new-old world, in uscita a settembre per
Verso Books.
La sinistra italiana era una volta il più grande e impressionante
movimento popolare per il cambiamento sociale in Europa occidentale. Comprendeva
due partiti di massa, il Pci e il Psi, ognuno con la propria storia e cultura,
impegnati non a migliorare, ma a rovesciare il capitalismo. (Martino Lombezzi,
Contrasto)
L’alleanza del dopoguerra tra socialisti e comunisti, però,
non sopravvisse al boom degli anni cinquanta. Nel 1963 Pietro Nenni portò
per la prima volta il Psi al governo, come alleato della Democrazia cristiana,
imboccando la strada che avrebbe condotto a Bettino Craxi e lasciando ai
comunisti la guida dell’opposizione al regime democristiano.
Fin dall’inizio il Pci era stato il più forte dei due partiti,
sia dal punto di vista organizzativo sia da quello ideologico. Prima di
tutto aveva una base più ampia: a metà degli anni cinquanta
contava più di due milioni di iscritti, che andavano dai contadini
del sud agli operai delle industrie del nord passando per gli artigiani
e gli insegnanti del centro Italia.
Il suo punto di riferimento teorico erano i Quaderni del carcere di
Antonio Gramsci, pubblicati per la prima volta tra il 1948 e il 1951. All’apice
della sua potenza, il Pci era in grado di attingere a una straordinaria
gamma di energie morali e sociali: poteva contare sia sulle sue profonde
radici popolari sia sull’appoggio degli intellettuali, più di qualsiasi
altra forza politica del paese.
La grande influenza che il Pci esercitava nel mondo del pensiero e
dell’arte dipendeva anche dalla sua capacità di assimilare e riproporre
il filone dominante della cultura italiana: l’idealismo. Questa corrente
aveva trovato la sua espressione più alta, anche se non l’unica,
nella filosofia di Benedetto Croce, che nella vita culturale italiana aveva
assunto un ruolo simile a quello avuto da Goethe in Germania.
Lo storicismo di Croce, anche grazie all’attenzione che gli aveva riservato
Gramsci negli anni della prigionia, diventò il nutrimento naturale
di gran parte della cultura italiana del dopoguerra. Dietro a quella corrente
di pensiero, però, si nascondevano tradizioni filosofiche molto
più antiche, secondo cui in politica il primato spettava al regno
delle idee, concepito come volontà o intelletto.
La lotta per l’egemonia
Tra la caduta dell’impero romano e la fine del risorgimento, l’Italia
non aveva mai conosciuto un governo o un’aristocrazia nazionale, ed era
stata quasi sempre in balìa di potenze straniere in conflitto tra
loro.
A lungo le sue élite avevano avvertito il peso schiacciante
del divario tra il passato glorioso del paese e il suo triste presente.
A partire da Dante, gli intellettuali si erano sentiti in dovere di riscoprire
e trasmettere la cultura dell’antichità classica, convinti che l’Italia
potesse risorgere solo grazie alle idee mutuate dalla sua storia e dalla
sua tradizione. La cultura non era distinta dalla politica: era il passaporto
per arrivare al potere.
Il comunismo italiano aveva ereditato questo atteggiamento mentale
e lo aveva rimodellato secondo gli insegnamenti di Gramsci. Nella sua dottrina
“l’egemonia” era una supremazia culturale e morale da conquistare con il
consenso della società civile.
Vero cardine della società, l’egemonia avrebbe garantito la
pacifica conquista del controllo dello stato. Secondo questa interpretazione,
l’autorevolezza che il partito aveva conquistato nell’arena intellettuale
era il primo passo verso la vittoria politica finale. In realtà
questa non era affatto la visione di Gramsci.
Da rivoluzionario e membro della Terza internazionale, il filosofo
sardo riteneva essenziale ottenere il massimo consenso popolare per rovesciare
l’ordine costituito, ma non aveva mai pensato che il capitalismo potesse
essere abbattuto senza la forza delle armi.
Il punto era che l’idea del primato dell’egemonia si adattava molto
bene alla cultura di stampo idealista. Gli intellettuali legati al Pci,
inoltre, conservavano i pregiudizi delle élite tradizionali, i cui
campi di ricerca preferiti erano tutti umanistici: la filosofia, la storia
e la letteratura.
Le discipline più moderne come l’economia e la sociologia, e
i loro metodi presi in prestito dalle scienze naturali, erano estranei
agli interessi del partito. Il Pci aveva una straordinaria influenza sui
vertici delle gerarchie culturali, ma ai livelli più bassi mostrava
una debolezza preoccupante, che in futuro avrebbe avuto gravi conseguenze.
Masse ed élite
Il partito fu colto di sorpresa dai due grandi cambiamenti del dopoguerra
in Italia. Il primo fu la diffusione della cultura di massa, un fenomeno
inimmaginabile nel mondo in cui erano cresciuti Togliatti o Gramsci.
Anche nel momento della sua massima espansione, il tentativo del Pci
– e più in generale della sinistra – di allargare la propria influenza
culturale ha sempre incontrato diversi ostacoli. La religione, infatti,
aveva ancora un ruolo chiave nell’immaginario e nelle convinzioni degli
italiani.
Nelle università, nelle case editrici, negli studi degli artisti
e nelle redazioni delle riviste l’influenza del partito era molto diffusa,
e ben distinta da quella dell’establishment borghese liberale sulla stampa
quotidiana. Ma in Italia è sempre esistito un gran numero di giornali
e programmi televisivi confezionati in base ai gusti degli elettori della
Democrazia cristiana di cultura medio-bassa.
Dall’alto della sua cultura elitaria, il Pci guardava a questo universo
con condiscendenza, considerandolo l’eredità di un passato clericale
sulla cui importanza Gramsci si era soffermato a lungo. Non si rendeva
conto, però, che tutto questo era una minaccia per il suo potere.
Il fatto che la cultura di massa fosse completamente laica e americanizzata
era un altro discorso. L’apparato del partito e l’intellighenzia che gli
si era formata intorno furono colti di sorpresa e rimasero spiazzati.
Anche se la critica italiana si era già occupata della letteratura
popolare (Umberto Eco era stato uno dei pionieri in materia), il Pci non
riuscì a inserirsi in questo filone. Non ci fu nessuna dialettica
creativa in grado di resistere all’offensiva del nuovo e di modificare
i rapporti tra cultura alta e cultura bassa.
Il caso del cinema, un campo in cui nel dopoguerra l’Italia aveva dato
prova di eccellenza, è emblematico. I grandi registi come Roberto
Rossellini, Luchino Visconti o Michelangelo Antonioni avevano debuttato
tra la fine degli anni quaranta e i primi cinquanta e le loro ultime opere
importanti risalgono all’inizio degli anni sessanta.
Ma quella generazione non ebbe eredi alla sua altezza. Negli anni sessanta
in Italia mancò quell’esplosivo incrocio tra avanguardia e forme
popolari che in Francia e in Germania produsse le opere di Jean-Luc Godard
e Reiner Werner Fassbinder. Più tardi ci sarebbe stato solo il debole
contributo di Nanni Moretti.
E così il profondo divario di sensibilità che si era
creato tra le classi colte e quelle popolari ha reso il paese indifeso
di fronte alla controrivoluzione dell’impero televisivo di Berlusconi.
La sua tv ha nutrito l’immaginario popolare con un mucchio di idiozie e
invenzioni volgari. Non sapendo come affrontare questi cambiamenti, per
una decina d’anni il Pci ha cercato di resistergli.
L’ultimo vero leader del partito, Enrico Berlinguer, ha incarnato l’austerità
e il disprezzo per l’autoindulgenza e l’infantilismo del nuovo mondo dei
consumi materiali e culturali. Dopo la sua morte, il passaggio dal rifiuto
intransigente di quei valori all’entusiastica capitolazione politica e
culturale è stato brevissimo.
E Walter Veltroni ha finito con il somigliare sempre di più
alle figurine sorridenti degli album che aveva distribuito con l’Unità
quando era direttore del giornale.
iovani e operaisti
Se l’idealismo non aveva permesso al Pci di cogliere la spinta al materialismo
che aveva trasformato il modo di divertirsi degli italiani, la stessa scarsa
lungimiranza dal punto di vista economico e sociologico gli impedì
di accorgersi dei cambiamenti in corso nel mondo del lavoro.
Già alla fine degli anni sessanta il partito prestava meno attenzione
a questi fenomeni di quanto stava facendo una nuova leva di giovani radicali,
che avrebbero prodotto quel fenomeno tutto italiano che è stato
l’operaismo, una delle più singolari avventure intellettuali della
sinistra europea di quegli anni.
A differenza del Pci, nel dopoguerra il Partito socialista aveva esplorato
con una figura di spicco come Rodolfo Morandi un marxismo poco idealistico
e più attento invece alle strutture dell’industria italiana.
Morandi trovò un valido successore in Raniero Panzieri, un militante
socialista che dopo essersi trasferito a Torino aveva cominciato a indagare
sulle condizioni di lavoro degli operai della Fiat, raccogliendo intorno
a sé un gruppo di giovani intellettuali, che spesso (come Antonio
Negri) provenivano dalle organizzazioni giovanili socialiste.
Negli anni sessanta l’operaismo diventò un movimento multiforme
e diede vita a una serie di riviste importanti, anche se dalla vita breve,
come Quaderni rossi, Classe operaia, Gatto selvaggio e Contropiano, che
esploravano le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e del capitalismo
industriale italiano.
Il Pci non aveva iniziative paragonabili e prestava poca attenzione
a questo fermento, anche se il più influente dei nuovi teorici era
un giovane comunista romano, Mario Tronti. L’operaismo era una corrente
estranea al partito, e per di più dichiaratamente ostile a Gramsci,
accusato di spiritualismo e populismo.
Il forte impatto che ebbe l’operaismo non fu dovuto solo alle inchieste
e alle idee dei suoi teorici, ma anche alla loro capacità di cogliere
l’irrequietezza della nuova classe operaia. I giovani immigrati del sud
si ribellavano ai bassi salari e alle condizioni opprimenti delle fabbriche
del nord ricorrendo a insolite forme di lotta, che lasciavano sconcertati
i sindacati tradizionali.
Aver saputo anticipare queste nuove mobilitazioni diede all’operaismo
una grande forza intellettuale, ma allo stesso tempo lo fece rimanere immobile
sulle sue intuizioni originarie. Il risultato fu l’idealizzazione della
rivolta proletaria.
Dopo essersi resi conto che l’industria italiana stava di nuovo cambiando
e che nelle fabbriche la militanza era in crisi, alla metà degli
anni settanta Negri e molti altri tornarono a vedere nella figura del “lavoratore
sociale” – in pratica chiunque fosse occupato, o sottoccupato, dal capitale
– il protagonista della rivoluzione immanente.
L’astrattezza di questo concetto era un segnale della disperazione
e della visione apocalittica che alla fine degli anni settanta avrebbero
portato quest’ala dell’operaismo in un vicolo cieco.
Oltre a non aver capito la portata dei mutamenti degli anni sessanta,
il Pci non aveva imparato nulla dai suoi errori e non fu capace di produrre
nulla di interessante in termini di sociologia industriale. Fu così
che negli anni ottanta, mentre l’economia italiana attraversava altri cambiamenti
cruciali, con la nascita delle piccole imprese e del sommerso (il secondo
“miracolo italiano”, come fu ottimisticamente definito all’epoca) il Pci
si ritrovò di nuovo impreparato.
E questa volta il colpo fu fatale: il partito perse infatti il suo
ruolo di rappresentante politico della classe operaia. Negli anni novanta
la sinistra ha subìto altre due pesanti sconfitte: il trionfo di
Forza Italia ha sottolineato l’incapacità di reagire alla massificazione
della cultura popolare, e il successo della Lega nord ha rivelato l’incapacità
di rispondere tempestivamente alla frammentazione del mondo del lavoro
postmoderno.
Questi errori sono stati causati da una mentalità che aveva
radici più profonde del marxismo e una visione tradizionale dei
valori culturali, a suo modo apprezzabile nonostante i suoi limiti. Questo
idealismo, però, aveva anche un aspetto negativo che era tipico
del comunismo italiano: una sorta di riflesso strategico che non era mai
cambiato dai tempi della liberazione, un’eredità le cui conseguenze
si avvertono ancora oggi.
La svolta di Salerno
Nel 1944, di ritorno da Mosca, Togliatti fece subito capire che un’insurrezione
non era nei piani del partito. Dopo vent’anni di esilio e repressione,
il compito del Pci era costruire un partito di massa e guadagnarsi un ruolo
centrale nelle nuove istituzione democratiche del paese.
Togliatti, però, si spinse ancora più in là. Nell’estate
del 1943, quando gli alleati sbarcarono in Sicilia, la monarchia italiana
chiese le dimissioni di Mussolini, che il 25 luglio fu sfiduciato dal Gran
consiglio del fascismo. Poco dopo il re fuggì al sud con il maresciallo
Badoglio, che fu messo a capo del governo dagli Alleati.
Il nord era invece sotto il controllo del regime di Salò, guidato
da Mussolini. Quando la guerra finì l’Italia non fu trattata come
una potenza sconfitta, alla stregua della Germania, ma come una nazione
“cobelligerante” .
Una volta partite le truppe alleate, il governo di coalizione (che
comprendeva il Partito d’azione, i socialisti, i comunisti e i democristiani)
si trovò ad affrontare l’eredità del fascismo e della monarchia,
che aveva collaborato a lungo con Mussolini. I democristiani sapevano che
i loro potenziali elettori erano ancora fedeli alla monarchia, ed erano
perciò decisi a impedire che in Italia si verificasse un fenomeno
simile alla “denazificazione” tedesca. Ma erano in minoranza rispetto ai
partiti di sinistra.
A questo punto il Pci decise di non mettere alle corde la Dc. Non chiese
l’epurazione, che avrebbe significato la rimozione di tutti i funzionari
vicini al fascismo nella burocrazia, nella magistratura, nell’esercito
e nella polizia, e lasciò alla Dc la guida del governo, senza fare
nulla per smantellare l’apparato di potere creato da Mussolini.
Fu così che il Partito fascista, rinato con il nome di Movimento
sociale italiano, tornò presto in parlamento. E quarant’anni dopo
la vedova di Togliatti partecipò ai funerali del leader dell’Msi
Giorgio Almirante. Oggi Gianfranco Fini, erede di Almirante, è il
presidente della camera dei deputati ed è il probabile successore
di Berlusconi alla presidenza del consiglio.
L’eredità sovietica
Al di là degli evidenti errori di questa traiettoria politica,
quello che si può rimproverare al Pci è la sua inerzia autodistruttiva.
Il partito aveva già edulcorato il concetto gramsciano di egemonia,
riducendolo alla ricerca del consenso e confinandolo alla società
civile.
Allo stesso modo, sotto la guida di Togliatti aveva ridotto la sua
strategia politica a una semplice guerra di posizione. I comunisti italiani
cercarono per anni di influenzare la società civile, come se ormai
in occidente non fosse più necessaria una guerra di manovra, con
le sue imboscate, le sue cariche improvvise, i suoi rapidi attacchi e i
tentativi di cogliere di sorpresa i nemici di classe o lo stato. Tra il
1946 e il 1947 De Gasperi e i suoi colleghi non fecero lo stesso errore.
Nel 1948 lo slancio popolare innescato dalla Liberazione si era già
esaurito. L’inizio della guerra fredda portò alla sconfitta elettorale
della sinistra, e ci vollero vent’anni prima che in Italia ci fosse una
nuova ondata di mobilitazioni politiche. La rivolta generazionale della
fine degli anni sessanta, che coinvolgeva studenti e lavoratori, fu più
profonda e durò più a lungo che nel resto d’Europa.
Sotto la guida del successore di Togliatti, Luigi Longo, più
agguerrito e meno diplomatico, il Pci non reagì negativamente alla
rivolta giovanile come fece invece il Partito comunista francese. Ma non
fu nemmeno capace di rispondere in modo creativo, non riuscendo né
a entrare in contatto con una cultura in cui i classici del passato bolscevico
e gli slogan scritti sui muri si integravano in modo dinamico, né
a rinnovare il suo bagaglio ideologico e teorico.
Quando all’interno del Pci emerse un gruppo brillante e critico verso
l’inerzia del partito, i dirigenti non esitarono a espellerlo. Nel 1969
questo gruppo di militanti, che aveva una visione genuinamente gramsciana
e una maggiore intelligenza politica rispetto agli operaisti, fondò
Il manifesto.
La scomunica avvenne dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia,
che Il manifesto condannò senza riserve. Oltre che nel suo innato
idealismo, proprio in questa decisione va cercato il secondo motivo della
paralisi strategica del comunismo italiano.
Flessibile sotto certi aspetti, il Pci è sempre rimasto stalinista
sia nella sua struttura interna sia nel legame con il regime sovietico.
Convinta che la Dc non fosse capace di esercitare un’egemonia assoluta,
la destra del Pci ha spesso lodato la moderazione del partito in politica
interna, criticando invece i legami con l’Unione Sovietica e la rigidità
organizzativa. In realtà le due cose erano strutturalmente collegate.
A partire dalla svolta di Salerno del 1944, la moderazione servì
al partito come contrappeso ai suoi rapporti con Mosca. Esposto alle accuse
di avere troppe affinità con l’Unione Sovietica, il Pci doveva dimostrare
che non aveva nessuna tentazione di emulare il modello bolscevico.
Il peso di queste accuse alimentava la ricerca di una rispettabilità
politica che compensasse le colpe presunte. Il rappresentante più
in vista della destra del partito, Giorgio Amendola, incarnava perfettamente
questo dualismo: denunciava il rischio di un’eccessiva tolleranza nei confronti
delle rivolte giovanili ma andava regolarmente in vacanza in Bulgaria con
la famiglia.
Durante la crisi provocata dal sequestro di Aldo Moro, il Pci dimostrò
di non avere né umanità né buon senso. Fu contrario
a ogni ipotesi di negoziato, con una veemenza perfino maggiore rispetto
alla Democrazia cristiana, che sulla questione era molto divisa.
La Dc non mostrò nessuna gratitudine verso i comunisti. Dopo
averli usati, Giulio Andreotti gli inflisse una sconfitta bruciante alle
elezioni. Nel 1979 il Pci perse un milione e mezzo di voti.
apolitano e l’immunità
Cinque anni fa, in un’amara riflessione sul suo paese, il politologo
Giovanni Sartori ha osservato che Gramsci aveva ragione quando distingueva
tra guerra di posizione e guerra di manovra.
I grandi leader europei come Winston Churchill e Charles de Gaulle
avevano compreso la necessità di impegnarsi in guerre di manovra,
mentre i politici italiani conoscevano solo la guerra di posizione. Nel
suo articolo Sartori sosteneva che il titolo del famoso saggio di José
Ortega y Gasset, Spagna invertebrata, si adattava benissimo all’Italia.
Nella penisola, infatti, la controriforma aveva creato una profonda
assuefazione al conformismo, e le continue conquiste e invasioni straniere
avevano reso gli italiani specialisti nell’arte del piegarsi per sopravvivere.
Senza élite coraggiose, l’Italia era un paese privo di spina dorsale.
Sartori non parlava a caso. Si rivolgeva alla classe politica che conosceva.
Quando il suo articolo è stato pubblicato, nel 2004, il Pci non
esisteva più. Al potere c’era Berlusconi e il suo obiettivo era
chiaro: difendere se stesso e il suo impero dalla magistratura.
Le leggi ad personam per realizzare quest’obiettivo erano già
state approvate dal parlamento ed erano arrivate sulla scrivania del presidente.
La presidenza della repubblica italiana non è una carica puramente
onorifica. Il Quirinale non solo procede alla nomina del presidente del
consiglio, che deve poi essere ratificata dal parlamento, ma può
anche non approvare la nomina dei ministri e rifiutarsi di firmare le leggi.
Nel 2004 il presidente in carica era l’ex governatore della Banca d’Italia
Carlo Azeglio Ciampi, un fiore all’occhiello del centrosinistra: aveva
guidato l’ultimo governo della prima repubblica ed era stato ministro dell’economia
con Romano Prodi.
Imperturbabile, Ciampi ha firmato delle leggi che non solo consolidavano
il controllo di Berlusconi sulla televisione, ma gli garantivano l’immunità
da qualsiasi procedimento giudiziario. La sua decisione è stata
contestata da centinaia di persone che si sono raccolte davanti al Quirinale.
Ma gli eredi del Partito comunista non hanno sollevato nessuna obiezione.
Anzi, la prima bozza della proposta di legge sull’immunità era uscita
proprio dai ranghi del centrosinistra.
Neanche la stampa ha osato mettere in discussione il presidente, che
per tradizione è considerato super partes ed è trattato con
la dovuta riverenza. Solo una voce si è levata contro Ciampi: quella
di Sartori, un conservatore liberale, che con una buona dose di sarcasmo
ha criticato il presidente per la sua mancanza di coraggio.
Oggi al Quirinale c’è l’ex comunista Giorgio Napolitano, successore
di Amendola alla guida della destra del Pci, la cosiddetta ala migliorista.
Quando ha assunto la carica, nel 2006, la prima legge sull’immunità
era già stata dichiarata incostituzionale dalla consulta.
Presentati sotto una nuova forma, i princìpi contenuti in quel
provvedimento sono stati approvati di nuovo dal parlamento. Il capogruppo
postcomunista al senato ha preferito non fare opposizione, spiegando che
in linea di principio il Partito democratico non aveva obiezioni, anche
se riteneva che la legge sarebbe dovuta entrare in vigore nella legislatura
successiva.
Napolitano non aveva tempo da perdere con simili questioni di principio
e ha firmato il provvedimento il giorno stesso in cui è arrivato
sul suo tavolo. Ancora una volta, le uniche voci che si sono levate a denunciare
questa vergogna sono state quelle di intellettuali liberali o apolitici,
come Sartori e un gruppetto di altri spiriti liberi, immediatamente rimproverati
non solo dalla stampa vicina al Pd ma anche da Rifondazione comunista per
aver mancato di rispetto al capo dello stato. Questa è la sinistra
invertebrata dell’Italia di oggi.
Verso destra
La fine dell’esperienza sovietica, la disintegrazione della classe
operaia tradizionale, l’indebolimento dello stato sociale, il potere sempre
maggiore della televisione, il declino dei partiti: gli eventi che negli
ultimi anni hanno colpito la sinistra europea sono stati molti e di grande
portata.
E pochi partiti li hanno attraversati indenni. Se considerata in questa
prospettiva, la fine del comunismo italiano rientra in un quadro storico
più ampio, che va al di là di ogni critica. Ma nessun altro
paese ha dilapidato del tutto un patrimonio così imponente.
Il partito che era stato superato in astuzia politica da De Gasperi
e Andreotti, che non aveva avuto il coraggio di epurare i fascisti e di
spaccare il fronte clericale, era comunque una forza con una grande vitalità.
Eppure i suoi eredi sono scesi a patti con Berlusconi senza un vero motivo
politico, ben sapendo chi avevano di fronte e quello che stava facendo.
Sul premier italiano esiste una ricca letteratura di denuncia, sia
in Italia sia all’estero, tra cui almeno tre saggi di alto livello in inglese.
Le critiche, però, non toccano mai le responsabilità del
centrosinistra. La complicità dei suoi leader con il progetto berlusconiano
non è un’anomalia, ma rientra in una strategia coerente.
Gli eredi del comunismo italiano hanno permesso al capo di Forza Italia
di mantenere e ampliare il suo impero mediatico a dispetto della legge,
non hanno fatto nulla per risolvere il conflitto d’interessi, hanno rifiutato
di far arrestare il suo braccio destro e hanno cercato più volte
di fare, per puro calcolo politico, una riforma elettorale con il suo partito.
Alla fine, però, sono rimasti non solo a mani vuote, ma senza idee
e perfino senza coscienza.
Nel frattempo le fondamenta della cattedrale della cultura di sinistra
avevano già cominciato a sgretolarsi, indebolite dalla natura stessa
del Pci come partito di massa.
Come in Germania, lo spostamento verso destra è cominciato con
la rivalutazione della dittatura che aveva governato il paese tra le due
guerre. Uno dei protagonisti di questo fenomeno è stato lo storico
Renzo De Felice. Pur non avendo l’apparato concettuale e l’ampiezza di
interessi di Ernst Nolte, De Felice ha scritto libri che hanno avuto un
impatto assai più profondo di quelli del suo collega tedesco.
Il suo successo non si deve alla sua erudizione o al fatto che in Italia
il fascismo non era mai stato screditato in modo netto, come invece era
successo in Germania. La vera ragione della popolarità delle tesi
di De Felice dipende dalla debolezza della cultura ufficiale a cui la sua
storiografia si contrapponeva. È significativo che le critiche più
radicali all’edificio costruito da De Felice sono arrivate dall’inglese
Denis Mack Smith invece che da studiosi italiani di sinistra.
Religioni e politica
Il principale erede di De Felice è stato Emilio Gentile, uno
storico che ha interpretato i movimenti politici di massa del novecento
come versioni secolarizzate di una fede soprannaturale, dividendole in
due filoni: quello totalitario, in cui ci sono fascismo, comunismo e nazionalismo,
e quello democratico delle religioni civili, come il patriottismo statunitense.
Questa teoria ha avuto più successo nel mondo anglosassone che in
Italia.
Paradossalmente, lo stesso si può dire degli ultimi frutti dell’operaismo.
In Italia lo spirito dell’inchiesta operaia era scomparso con la morte
prematura di Panzieri a metà degli anni sessanta, e la sua eredità
si era modificata sotto i colpi di Mario Tronti e del giovane critico letterario
Alberto Asor Rosa.
Tronti era convinto che fosse la classe operaia, e non il capitale,
il vero demiurgo delle trasformazioni economiche: la forza che imponeva
ai datori di lavoro e allo stato i cambiamenti strutturali di ogni fase
dell’accumulazione.
Secondo la sua visione, il motore dello sviluppo non era nelle esigenze
economiche impersonali del profitto che agiscono dall’alto, ma nella lotta
di classe che preme dal basso. Asor Rosa, invece, sosteneva che la “letteratura
impegnata” era un’illusione populista, perché la classe operaia
non poteva ricavare nessun vantaggio dalle arti e dalle lettere di un mondo
in cui la cultura era borghese per definizione.
A completare l’opera di Asor Rosa e Tronti è stato Massimo Cacciari,
più giovane e intellettualmente più ambizioso dei suoi colleghi.
Cacciari non solo ha separato la cultura e l’economia dalla politica rivoluzionaria,
ma ha proposto una sistematica dissociazione tra tutte le sfere della vita
e del pensiero moderni, in quanto domini tecnici intraducibili l’uno nell’altro.
La fisica, l’economia neoclassica, l’epistemologia canonica, la politica
liberale, la divisione del lavoro, il funzionamento del mercato e l’organizzazione
dello stato avevano una sola cosa in comune: erano tutti in crisi. E solo
il “pensiero negativo” era in grado di cogliere la profondità di
questa crisi. Prima di diventare sindaco di Venezia Cacciari è stato
deputato del Pci; anche Tronti e Asor Rosa sono stati eletti in parlamento.
Il prezzo dell’integrazione in un partito che non era riuscito a prendere
il potere è stata la graduale scomparsa dell’operaismo. Vent’anni
dopo il suo tramonto, con il Pci ormai cancellato, Asor Rosa ha tracciato
un malinconico bilancio del percorso della sinistra italiana, a cui lui
e Tronti erano rimasti a loro modo fedeli.
Cacciari, invece, è oggi uno dei protagonisti della destra del
Partito democratico, capace di fondere – come ben si addice a un ammiratore
di Wittgenstein – misticismo e tecnicismo in una politica per certi versi
molto simile a quella del New labour britannico. Nei suoi successori l’eredità
intellettuale del pensiero negativo si è trasformata in un’arida
cultura della specializzazione, ormai depoliticizzata.
Alla fine degli anni sessanta Toni Negri aveva preso la direzione opposta,
propugnando non un patto per la modernità tra capitale e lavoro
sotto l’egida del Pci, ma un’escalation del conflitto tra i lavoratori
non organizzati e lo stato verso la lotta armata e la guerra civile.
Dopo l’annientamento di Autonomia operaia, il movimento di cui era
stato il teorico, Negri finì in prigione con l’accusa infondata
di essere stato il mandante dell’omicidio di Aldo Moro. Nel suo esilio
francese ha scritto testi che hanno avuto più successo all’estero
che in Italia, come Impero. Al centro delle sue riflessioni non c’è
più il lavoratore sociale, ma il concetto di moltitudine.
Il recupero del fascismo a destra e la fine dell’operaismo a sinistra
hanno modificato lo spazio politico del centro, in cui la versione laica
e quella clericale del “giusto mezzo” avevano sempre convissuto.
La disgregazione della Democrazia cristiana non ha ridotto l’influenza
della religione nella vita pubblica, ma l’ha ridistribuita su tutto l’arco
politico. Gli elettori cattolici non solo si sono divisi tra centrodestra
e centrosinistra, ma hanno anche dimostrato di essere il settore più
volubile dell’elettorato, il vero ago della bilancia conteso dai due blocchi.
Per andare a caccia del voto cattolico, gli ex leader del Pci hanno mostrato
una sensibilità religiosa sconosciuta fino a poco tempo fa.
Quello che la chiesa ha perso con la fine di un partito di massa obbediente
ai suoi ordini, lo ha guadagnato conquistandosi un’influenza più
pervasiva, anche se meno evidente, sull’intera società. Il risultato
è stato il ritorno della superstizione religiosa.
Durante il papato di Karol Wojtyla sono stati nominati più beati
(798) e più santi (280) che nei cinque secoli precedenti messi insieme,
il numero di miracoli necessari per la santificazione è stato dimezzato,
e il grottesco culto di padre Pio è arrivato al punto che sulla
stampa si discute con la massima serietà del suo trionfo sulle leggi
della natura.
È improbabile che una cultura laica così ossequiosa verso
la fede sia più combattiva nei confronti del potere. Durante la
seconda repubblica le opinioni espresse sui principali mezzi d’informazione
italiani non si sono allontanate quasi mai dalla via maestra neoliberale.
La maggior parte dei giornali somiglia ai nuovi tabloid popolari spagnoli,
francesi, tedeschi, inglesi. Secondo tutti gli editorialisti l’unico rimedio
per i mali del paese è una maggiore competitività nei servizi
e nell’istruzione, un mercato più libero e uno stato più
efficiente e snello. Opinioni del genere sono il frutto di un conformismo
intellettuale universale, a cui non è sfuggita nemmeno l’Italia.