a cura di Giorgio Riolo, "Lavori in corso" N. 220, febbraio 2011
Samir Amin è presidente del Forum Mondiale delle Alternative
e del Forum du Tiers Monde di Dakar.
E' una delle figure più prestigiose dell'analisi del capitalismo
su scala mondiale e dell'attivismo entro il movimento altermondialista
e i movimenti sociali che si oppongono al capitalismo globale e all'imperialismo.
Questa intervista è stata svolta a conclusione del Forum Sociale
Mondiale di Dakar 2011, sabato 12 febbraio, a latere della riunione del
Consiglio Internazionale del Fsm che si è tenuto nella stessa città
di Dakar.
2001-2011. Sono passati 10 anni di incontri del Forum Sociale Mondiale. Quale bilancio trarre? Qual è il tuo giudizio complessivo?
Il mio giudizio complessivo è positivo, ma in seguito dirò dei limiti di questa esperienza. E' positivo, poiché il Fsm ha compiuto molti avanzamenti e molti dei suoi partecipanti e attivisti, non possiamo parlare evidentemente in generale, sono meno ingenui di quanto lo fossero dieci anni fa. In questi dieci anni abbiamo avuto proteste e spinte verso un mondo migliore e il livello di comprensione politica della natura della sfida è certamente migliore oggi. Pertanto, il Fsm è progredito, ma a misura delle lotte che si sono sviluppate e si sviluppano su scala mondiale, non semplicemente per dinamica endogena.
A conclusione del Fsm di Belem 2009, dicevamo che esso rappresentava il forum della maturità, della radicalizzazione del Fsm. Certamente, perché si era nel pieno della crisi economica mondiale e della crisi climatica, perché si era svolto in America Latina e c'era stata la presenza, la sinergia, nel Fsm di Belem, di movimenti, partiti e governi (con la presenza di Chavez, Lula, Correa, Morales, Lugo, ecc.). Ma Dakar 2011 che Forum è stato in ultima analisi?
Il Fsm ha continuato a progredire sia a Belem che a Dakar. Ho già
osservato che il grado di maturità politica si è accresciuto.
Evidentemente il centro di gravità si è spostato. E' naturale
che a Belem l'eco dei paesi che hanno compiuto avanzamenti sociali e politici
in America Latina sia stata forte.
Qui a Dakar, diversamente dagli altri Fsm, per esempio, la questione
palestinese è diventata una questione centrale. Cosa mai avvenuta
in alcuno dei precedenti Fsm. D'altra parte la coincidenza del Fsm di Dakar
con i grandi movimenti popolari in atto in Tunisia e la rivoluzione in
Egitto ha avuto qui una grande eco. Da questo punto di vista questo Fsm
costituisce un avanzamento. D'altra parte, abbiamo avuto Fsm svolti in
Africa, a Nairobi 2007 e quello “policentrico” di Bamakò 2006, ma
qui abbiamo avuto l'irruzione in massa dell'Africa.
Questo è il nostro stesso convincimento. A Dakar si è svolto un Fsm prepotentemente e felicemente africano. Detto questo, come vedi il futuro del Fsm e del movimento altermondialista?
Il Fsm è certamente un luogo di incontro. Ma non tutti i movimenti
sociali e le lotte sociali, decisivi, dal mio punto di vista, su scala
mondiale, vi sono rappresentati. Anche se queste lotte hanno indubbiamente
una eco nel Fsm. Dobbiamo essere modesti e frenare l'entusiasmo. Il Fsm
è un fenomeno molto positivo. Ma non esaurisce il tutto. Non è
il Fsm e i movimenti ivi rappresentati a trasformare il mondo. A trasformare
il mondo sono le lotte realmente esistenti in ogni angolo del
pianeta. E il grado di politicizzazione evidentemente è quello
che è. Non siamo in presenza di una Internazionale. Allora quello
che nell'immediato dobbiamo fare è di riuscire a portare e a rappresentare
nel Fsm queste lotte decisive per le sorti dei popoli e del mondo.
Molto chiaro. La crisi mondiale, tra le tante conseguenze, sembra accelerare la cooperazione Sud-Sud e il peso specifico, nella gerarchia mondiale, impensabile un tempo, delle periferie del mondo, vedi l'America latina. Come vedi le alleanze tra stati delle periferie del mondo, come diceva Lula, a proposito dell'alleanza strategica Africa-America latina per la “rivoluzione agricola” e l'uso della “arma alimentare”, per condizionare i rapporti mondiali?
Tu poni in modo preciso la questione strategica per eccellenza oggi:
la questione agraria e, a essa connessa, la questione della sovranità
alimentare. Subito affronto la questione generale della crisi.
Sì, la crisi si è acuita e continuerà ad acuirsi.
L'illusione che la crisi sia stata superata e che essa fosse solo crisi
finanziaria è appunto un'illusione. A misura che essa si acuisce,
s'inasprisce il conflitto Nord-Sud. Evidentemente non il conflitto dei
popoli del Nord contro i popoli del Sud, secondo una visione “culturalista”
dello “scontro di civiltà”, ecc. Nella nozione di “popoli del Sud”
non rientrano quelle classi intimamente legate all'imperialismo, ai “monopoli”
controllati dai paesi del Centro, ecc. Questo conflitto, nell'allineamento
ai voleri dei monopoli, si aggrava e si aggraverà vieppiù.
Ciò che è molto positivo, e il caso dell'Egitto lo mostra
chiaramente, è che il neoliberismo non è mai stato molto
convincente, non è mai stato popolare nelle periferie del mondo
poiché non ha portato altro che desolazione, miseria e pauperizzazione
accelerata. Ma sembrava che non ci fossero alternative poiché il
sistema si mostrava potente, non solo economicamente, ma nei termini militari
e polizieschi, per mezzo di regimi di repressione violenta. Questo sistema
si perpetuava
solo per mezzo della paura. La paura tuttavia stava scomparendo. Quando
in Egitto un milione di giovani, organizzati e politicizzati, e politicizzati
a sinistra, con il cuore a sinistra, scende in piazza e cinque ore dopo,
in tutti i quartieri delle grandi e piccole città, dei villaggi
dell'Egitto - quindi non si tratta della sola piazza Taharir - ben 15 milioni
di persone vengono fuori, cominciano a manifestare, vale a dire un popolo
intero, allora la paura è la prima a cadere. E' stata la prima sconfitta
della
polizia.
Questo è decisivo. Non sono per la teoria del domino e quindi
che inevitabilmente ci sarà la ripercussione di questi avvenimenti
ai paesi vicini, ecc. Perché le condizioni concrete sono molto differenti
tra un paese e l'altro. Ma questo è un cambiamento qualitativo.
Questo per la questione generale.
Quello che vedremo nei prossimi mesi e nei prossimi anni, non nei prossimi
cento anni, è il dispiegarsi di movimenti, delle dimensioni di quelli
egiziani, vale a dire giganteschi, in molti luoghi, con avanzate e ritirate
e sconfitte anche, sicuramente, come sempre avviene nella storia.
La seconda questione che hai sollevato. La questione agraria su scala
mondiale oggi coinvolge quasi la metà della popolazione mondiale,
in Africa, in Asia e in America Latina. La crisi colpisce questa popolazione
in modo estremamente violento. Il processo della spoliazione, dello spossessamento,
dell'espropriazione è accelerato in modo vertiginoso. Le resistenze
a questo processo sono già in atto e aumentano vistosamente.
Resistenze di movimenti contadini, oltre ai movimenti che già conosciamo come Via Campesina, ecc.?
Sì, e oltre. E spero proprio che Via Campesina riesca a intercettare
questi movimenti e questi contadini. Ma questi movimenti contadini non
sono stati investiti dalla rivoluzione egiziana. I movimenti egiziani sono
piuttosto urbani. Un vero e decisivo cambiamento potrà aversi solo
come, per esempio, avvenne in Cina, quando i comunisti compresero che non
bastava Shanghai ma che occorreva “andare al popolo” vasto cinese, vale
a dire passare dalle città alla campagna. Occorre, come
allora, una grande alleanza tra le classi sfruttate delle città
e le classi popolari delle campagne.
Questo è fondamentale per assicurare anche una vera e propria
sovranità alimentare. Poiché la sovranità alimentare
è condizione necessaria per la costruzione di un altro mondo e non
possiamo pervenirci senza una partecipazione attiva dei contadini. Occorre
un blocco storico, in senso gramsciano, tra classi contadine e classi popolari
e progressiste urbane. Diversamente il discorso sulla sovranità
alimentare rimane un pio desiderio o un discorso di tipo “tecnocratico”.
A parte il ruolo dell'Europa, degli Usa e del Giappone, quella che tu chiami la “triade”, quali segni nel mondo vedi, a parte l'America Latina, per una “nuova ondata” di trasformazione, di qualcosa che alluda, che possa immettersi sulla via del superamento del capitalismo?
Ciò che occorre precisare subito è la natura delle iniziative,
e qui vorrei prendere a prestito la frase del vecchio Mao, delle iniziative
dei popoli, delle nazioni e degli stati delle periferie, del Sud. Non possiamo
ridurre la totalità sociale e storica alla sola nozione di “popoli”,
alla sola nozione di “nazioni” e così alla sola nozione di “stati”,
vale a dire dei governi. Certo nelle lingue italiana, francese e spagnola,
per esempio, “il popolo” non è il popolo di Mussolini, per fare
riferimento alla storia
italiana, ma il popolo sono le classi popolari. Le vittime del sistema,
sfruttate. Le iniziative qui sono, nella vecchia formulazione espressiva,
le lotte di classe contro gli sfruttatori immediati. Le iniziative delle
nazioni: poiché il capitalismo è sempre stato imperialista,
fondandosi sulla divisione tra centri dominanti e periferie dominate. E
i centri dominanti sono stati rappresentati dall'Europa Occidentale, atlantica,
e poi dalla creatura di questa Europa, gli Stati Uniti, e infine gli allievi
del Giappone.
Gli altri popoli, le loro nazioni, i diritti e la dignità di
queste nazioni sono stati brutalmente calpestati, per mezzo della colonizzazione.
E la prima ondata delle rivoluzioni, compresa la rivoluzione russa,
compiuta in una semiperiferia, e poi a maggior ragione la rivoluzione cinese,
ecc., i movimenti popolari di Bandung, i movimenti in America Latina, ecc.
sono movimenti nazionali, di “restaurazione” della dignità nazionale.
Lo vediamo in maniera evidente nel caso dell'America Latina poiché
ivi, dopo la colonizzazione spagnola e portoghese, gli stati divenuti indipendenti
hanno riprodotta una colonizzazione “indiretta”, interna, vale a dire le
minoranze di origine europea si sono considerate le sole costituenti, esclusive
della nuova nazione. Gli indiani d'America, gli indigeni, sono stati esclusi.
Lo vediamo in modo evidente in Bolivia. La Bolivia si proclama, giustamente,
repubblica plurinazionale.
Gli stati sono le cinghie di trasmissione dei poteri dei monopoli transnazionali,
dei monopoli della Triade, ma non lo sono sempre. In Occidente, lo stesso
Sarkozy, lo stesso Berlusconi, per quanto esseri spregevoli, sono espressione
di una democrazia rappresentativa, la sola riconosciuta, e quindi hanno
anche consenso. Nei paesi delle periferie, anche con le mascherate elettorali
(e per lo più sono mascherate elettorali), o la totale assenza delle
elezioni, il potere non ha questo grado
di legittimazione. Certo anche per via elettorale possiamo avere dei
cambiamenti radicali come è avvenuto in America Latina. Di qui anche
taluni poteri statali dei paesi delle periferie cosiddette emergenti che
hanno un certo grado di legittimazione. In primo luogo, la Cina, poiché
si è potuta affermare come grande stato-nazione nel sistema mondiale
anche grazie alla rivoluzione cinese. A un grado inferiore, anche il Brasile
e l'India. Questi poteri statali sono in conflitto con la logica del sistema
imperialista dominante. In primo luogo per quanto riguarda l'accesso alle
risorse naturali.
E' un conflitto potenzialmente militare. Non è un caso che gli
Usa, già con Clinton e poi con Bush e Obama, abbiano intrapreso
la politica del controllo militare del pianeta, con i propri mezzi militari
e con i subordinati della Nato.
Gli Usa non possono cooptare queste potenze emergenti, poiché
ciò significherebbe spartirsi, condividere l'accesso alle risorse
naturali. Non possono e non vogliono. Il G20 è una mascherata. La
Cina vi partecipa, sorride, ecc. ma non approva niente che non condivida.
Non solo con Bush, lo si vede bene anche nell'ultimo incontro Obama-Hu
Jintao nel quale Hu Jintao ha letteralmente rifiutato le richieste di Obama.
In questione è l'assetto imperialistico e non evidentemente i fondamenti
del capitalismo. Quando qualcuno dice che la Cina rappresenta un nuovo
imperialismo dice cosa non vera. Benché la Cina non sia evidentemente
socialista, tuttavia non può divenire imperialista. Per diventarlo
occorrerebbe che il vecchio imperialismo scomparisse. Ed esso non è
in procinto di scomparire.
Gli Usa, la Triade e i monopoli non possono cedere sovranità, non vogliono contrattare con altri sfidanti per la questione dell'accesso alle risorse mondiali ...
Sì, questo è. Abbiamo il conflitto e questo conflitto
può essere il vettore potenziale del rafforzamento della dimensione
anticapitalistica di questi paesi. Allora la sfida è che occorre
combinare e far confluire assieme iniziative dei popoli, iniziative delle
nazioni e iniziative degli stati. Nella misura in cui i poteri statali
in conflitto con l'imperialismo, anche se non sono socialisti, esprimono
iniziative di popoli, questi si inscrivono nella tendenza socialista. E'
la questione strategica della sinistra
rivoluzionaria, nel Nord, nel Sud, all'Ovest e all'Est. Lo dico poiché
abbiamo due esempi, uno positivo e uno negativo. L'esempio positivo è
rappresentato dalla Bolivia. In Bolivia assistiamo a una convergenza di
grandi movimenti di classe (sindacati di operai, di minatori, di lavoratori
delle campagne, i cocaleros) e di movimenti indigenisti (Aymara e Quechua).
Questi movimenti conquistano il potere e più precisamente un potere
che è, più o meno, un capitalismo di stato, non burocratico
e corrotto, ma in stretta relazione con le classi popolari. Ci sono certo
delle tensioni tra movimento e stato, come è avvenuto nella questione
del gas e del petrolio. Ma in Bolivia sono riusciti a trovare una vera
articolazione tra le tre componenti, popolare, nazionale, statuale. L'Ecuador
è l'esempio
negativo. I movimenti indigenisti e il potere statale di Correa sono
in conflitto aperto. Questo conflitto è stato sfruttato per un tentativo
di colpo di stato. E maldestramente, anche se è avvenuto un tentativo
di colpo di stato, i movimenti e il potere statale non hanno ancora trovato
un linguaggio
comune, un'intesa. Questo mostra la vulnerabilità allorché
questa convergenza non viene conseguita. E' il punto strategico.
L'Egitto e il sommovimento arabo in corso. A che punto siamo? Quale scenario vedi? E' il gattopardiano “cambiare tutto per non cambiare niente”?
E' proprio così, nella visione del signor Obama e amici, “cambiare tutto per non cambiare niente”. Ma dobbiamo partire dalle quattro componenti fondamentali del movimento rivoluzionario del popolo egiziano. Molto nettamente, tutte e quattro molto politicizzate. In primo luogo, i giovani. Il movimento dei giovani, con le loro tecnologie moderne, Internet, Twitter, ecc., non per tenersi banalmente in contatto, ma per fare discussioni e dibattito politico a distanza.
Ma giovani senza “tradizione”, senza niente alle spalle?
Non proprio esattamente. Molti hanno alle spalle famiglie di tradizione
comunista, con antenati comunisti. Hanno il cuore a sinistra. Sono democratici
sinceri, che hanno in orrore la dittatura poliziesca e vogliono vere trasformazioni
sociali a favore delle classi popolari. Sono anticapitalisti nel senso
che considerano questo sistema inaccettabile. Sono nazionalisti nel senso
che l'Egitto non può e non deve essere sottomessa alla volontà
di altri, nel proprio ruolo nella regione e su scala
mondiale, per servire gli obiettivi strategici degli Usa. Questo sentimento
nazionale è molto forte.
Lo stesso Omar Suleiman, per lusingare le folle, sfrutta questo sentimento:
“come, una nazione che ha 7000 anni di storia deve obbedire a una che ne
ha appena due secoli!”. E tutti a dire “e nondimeno tu ne sei un agente”.
Bene. In tutti i discorsi, nelle strade e nelle piazze, in forma più
o meno decisa e lucida, si rivendica questa indipendenza. E che non si
deve permettere a Israele di sterminare i palestinesi.
Abbattere il regime non è solamente far partire Mubarak. La
parola d'ordine è né regime laico, né regime religioso.
Il termine usato è “civile”, il termine “laico” potrebbe disturbare
nelle condizioni concrete dell'Egitto. In breve, indipendenza nazionale
e riforme sociali a beneficio delle masse popolari.
Cosa che ha fatto sì che entrassero nel movimento i sindacati
operai rivoluzionari, cresciuti nell'ultimo decennio circa. L'altra componente
è la sinistra radicale. In particolare i comunisti, che sono sempre
esistiti in Egitto. E che hanno sempre, in misura maggiore o minore, avuto
il rispetto generale e popolare. La differenza, rispetto a 50 anni fa,
è che i giovani, anche se spontaneamente simpatizzanti, sono restii
a entrare a far parte dei partiti organizzati. La terza componente è
rappresentata da segmenti delle classi medie democratiche. Alcuni strati
di queste classi medie soffrono degli effetti del sistema. Benché
blandamente nazionalisti, non assegnano molto importanza alla politica
internazionale. El Baradei è un rappresentante di questa componente.
E' una classe media intellettuale, professionistica, ecc.?
No, è una classe media molto composita. Vi sono molti elementi
di classe professionale, medici, avvocati, ingegneri, ecc., di strati superiori
del lavoro salariato, di funzionari, ma molti sono rappresentanti di settori
produttivi, piccole e medie imprese, che subiscono una concorrenza ineguale
da parte dei monopoli. E questa componente vuole la democrazia. Infine,
la quarta componete, i Fratelli Mussulmani. Tutti a temere nel mondo i
Fratelli Mussulmani. Niente di tutto ciò. E la prova. I
giovani hanno iniziato il movimento. Poche ore dopo la sinistra radicale
era con loro, senza la minima esitazione. Il secondo giorno, le classi
medie e i democratici entrano in azione e arriva El Baradei. I Fratelli
Mussulmani per quattro giorni hanno boicottato. Quando hanno visto che
la repressione non ha prevalso, il boicottaggio si poteva rivelare ridicolo
e controproducente e hanno cambiato atteggiamento.
Per concludere, la strategia imperialistica degli Stati Uniti in Egitto
è sì “cambiare tutto per non cambiare niente”. Dare tutto
il potere all'esercito, eliminare gli aspetti brutali della dittatura e
concedere elezioni, ecc. Compiere un'alleanza strategica con i Fratelli
Mussulmani e isolare i giovani. Questo processo voleva condurlo Mubarak
ma non ci è riuscito e allora ha eletto vicepresidente Omar Suleiman.
Un'ora dopo la nomina di Suleiman la folla gridava “Mubarak e Suleiman
sono
tutti e due americani” (nell'arabo egiziano si fa rima). Ieri (l'intervista
è stata fatta sabato 12 febbraio, quindi venerdì 11 febbraio,
ndr) il Consiglio Superiore delle Forze Armate ha dimissionato Mubarak
e si è proclamato unico potere. I ministri, il primo ministro e
Omar Suleiman sono spariti. Il Capo di Stato Maggiore, Tantawi, dice agli
americani sono io che conduco la transizione. Cosa abbia in testa, nessuno
lo sa. Non è per niente un esponente rivoluzionario, non ha alcuna
tradizione politica e quindi tutto è incerto.
Le quattro componenti di cui sopra hanno deciso un Coordinamento, una
Conferenza permanente che mira a redigere una nuova Costituzione. E ciò
che si spera è che la transizione non sia breve, ma sia paradossalmente
lunga. Di almeno uno o due anni, in modo da consentire alla sinistra e
ai giovani di acquisire i mezzi per farsi conoscere, di far conoscere al
paese il loro programma. Poiché svolgere le elezioni nel giro di
pochi giorni è senza senso. E' quello che vogliono gli americani,
una transizione corta. Ma la maturità del popolo egiziano è
rivelata dalla sua maniera di ridere di ciò, nelle strade e nelle
manifestazioni, “L'Indonesia, le Filippine, ma senza mascherata elettorale”,
vale a dire, sappiamo cosa è accaduto: “cambiare tutto per non cambiare
niente”.