di Simone Bisacca, da "Umanità Nova", n. 4, 2 febbraio 2003
Secondo le statistiche INAIL, ogni giorno in Italia ci sono in media tre incidenti mortali sul lavoro. Non fanno molto rumore, pochi ne parlano, quasi fosse un fatto normale, che lascia indifferenti, perdere la vita per guadagnarsi il pane. È stato impressionante, invece, vedere l'eco che ha avuto la morte di Giovanni Agnelli, il padrone per antonomasia. Un uomo anziano, di ottantanni, morto nel suo letto dopo una vita in cui ha esercitato potere e influenza su un intero paese e oltre. Un uomo nato ricchissimo e potentissimo che nel corso della sua esistenza ha consolidato e accresciuto quanto la sorte gli aveva concesso. Con ogni mezzo. Il primo mezzo è stato il rapporto con il potere politico e con lo stato. "La Fiat è sempre governativa", diceva. Era vero, perché non c'è stato governo che non sia stato blandito, ricattato, comprato, in modo che l'interesse della Fiat trovasse giusto riconoscimento nell'azione di chi governava l'Italia. Del resto, altro principio cardine dell'azione del nostro è stato "privatizzare gli utili e socializzare le perdite". L'intero paese è stato asfaltato per costruire le autostrade su cui far correre le automobili prodotte dalle fabbriche del defunto e non è mai esistita una politica dei trasporti alternativa a quella del trasporto su gomma. Altre aziende produttrici di automobili nel nostro paese non potevano esserci e l'Alfa fu pure regalata dal governo Prodi alla Fiat. "Ciò che va bene per la Fiat, va bene per l'Italia" si è detto, come se l'interesse di un privato potesse coincidere con l'interesse pubblico. L'affermazione, prima che ipocrita, è semplicemente falsa. Lo scontro tra la Fiat e il lavoro vivo è sempre stato feroce, anche perché alla Fiat guardava come a un modello tutto il capitalismo nostrano. È quindi in Fiat che le lotte furono più dure quando la forza lavoro, alla fine degli anni '60, ribaltò gli storici rapporti di forza all'interno della fabbrica. E fu in Fiat che la sconfitta dei lavoratori fu più cruciale e bruciante all'inizio degli anni '80. Dire oggi che con la morte di Giovanni Agnelli finisce un'epoca è affermazione che lascia perplessi. L'impresa è talmente il feticcio e il totem cui tutti si devono prostrare che la morte del padrone per antonomasia diventa avvenimento pubblico, collettivo, cui non è dato di sottrarsi. Le morti degli altri, dei lavoratori che quotidianamente ci lasciano la pelle, sono invisibili e non interessano a nessuno. L'idea che interesse dell'azienda e del paese coincidono è la solfa che quotidianamente ci propinano. Il feroce paternalismo sabaudo ha fatto scuola. La forza lavoro deve essere flessibile, cioè sfruttabibile, senza che all'impresa siano frapposti limiti: e ringraziate che vi diamo un lavoro. Agnelli non ha mai avuto bisogno di prendere direttamente in mano il potere politico, ma ciò non toglie che l'identificazione tra padrone, azienda, governo, società che oggi ci presenta il berlusconismo è solo una versione becera di quanto di fatto la Fiat di Agnelli è sempre stata. Il metodo degli Agnelli era la disciplinarizzazione, il metodo del berlusconismo è l'onnipervasività della comunicazione che introietta i meccanismi di autodisciplina. Il totalitarismo aziendalista ha battuto il lavoro vivo con la Fiat agli inizi degli anni '80 e oggi provvede a mantenere il controllo di una classe snervata cui è negato ogni orizzonte di produzione di diverso immaginario e quindi di lotta concreta per realizzarlo. Gli operai, gli operai della Fiat, non sognano più una vita diversa. Non era questo il sogno oggi realizzato del padrone che è morto?