Farid Adly, "Progetto lavoro", marzo 2011
Molte riflessioni, avanzate da più parti, sulla crisi libica sono sacrosante, ma difettano in un punto: non inquadrano la questione nel suo contesto storico e in quello sociale. Le paure sul futuro delle convivenze nel Mediterraneo, sul pericolo fondamentalista e sul fatto che un intervento occidentale tenderebbe di fatto all’appropriazione del petrolio libico farebbero parte di un dibattito avanzato, se non si ponesse in secondo piano il fatto che la tragedia di un popolo viene massacrato ogni giorno, nelle piazze delle città libiche e dalle ambiguità del mondo sviluppato.
Già, intanto, il tergiversare delle diplomazie, il silenzio dell’Unione
Europea e le connivenze italiane (a partire da quella del Presidente del
Consiglio Berlusconi) con il regime di un tiranno assassino (che portano
ad avanzare paure su base xenofoba di fantomatiche invasioni di genti in
fuga) sono lì a dimostrare che la rivoluzione libica non è
affatto in collisione o, peggio, al servizio dell’imperialismo USA o europeo.
Né, poi, quella in corso è una guerra civile, come invece
sostengono alcuni analisti: è una resistenza popolare contro un
tiranno, la sua famiglia, i suoi miliziani e mercenari. E’perfettamente
paragonabile alla Resistenza italiana contro il regime di Salò e
l’occupazione nazista.
Alcuni stolti vanno ripetendo che la bandiera issata sulle zone liberate
è un segnale di ritorno al passato perché sarebbe il vessillo
della confraternita politico-religiosa della Senussia e della ex monarchia.
Ciò denota, nei casi migliori, un’ignoranza ciarliera, perché
la bandiera della Senussia era un drappo nero con al centro una mezzaluna
e una stella. La bandiera del tricolore rosso-nero-verde è invece
il simbolo dell’indipendenza dal colonialismo italiano. Si veda a questo
proposito il sito del Consiglio Nazionale Provvisorio (intclibya.org/english).
Questa bandiera quindi oggi esprime il rifiuto democratico di un regime
che opprime la Libia da ben 42 anni.
La corrente monarchica nell’opposizione è assolutamente minoritaria.
Farne una base per una critica ai giovani libici che hanno affrontato con
il petto nudo le mitragliatrici anticarro dei miliziani e dei mercenari
di Gheddafi è di una ingenerosità disarmante. Ci sono certamente
piani internazionali per mettere le mani sul petrolio della Libia: ma la
rivoluzione libica iniziata a metà febbraio 2011 non è guidata
da fantocci dell’imperialismo, bensì da giovani e da democratici
con una storia alle spalle. La caduta del muro della paura, dopo le esperienze
di Tunisia ed Egitto, ha portati i giovani ad alzare la testa contro la
tirannia. Se non mettessimo al centro dell’attenzione questo grido di libertà
che nasce dal basso, non capiremmo nulla dei moti di rivolta che stanno
caratterizzando la lotta non solo in Libia ma in tanti altri paesi arabi
contro i vari tipi di cariatidi al potere da decenni. Chi guiderà
il paese dopo la sconfitta del regime di Gheddafi? La nuova Libia nascerà
dalle ceneri delle città e degli impianti petroliferi bombardati
e dalle uccisioni di civili a opera dei mercenari di Gheddafi, e sarà
un paese di giovani. Sono soprattutto i giovani i protagonisti della rivoluzione,
lo saranno del cambiamento. Si tratta di ragazzi giovanissimi, cresciuti
sotto la dittatura e che non hanno esperienze politiche: hanno però
respirato la libertà nella “rete”. La censura del regime sulla stampa
e la repressione delle libertà d’espressione e di organizzazione
hanno creato
un vuoto di azione politica, che il vasto mondo della rete ha colmato.
Conoscere il mondo esterno, avere informazioni immediate su ciò
che succede in tutto il pianeta, compresa la stessa Libia, comunicare e
scambiare opinioni con i loro coetanei di tutto il mondo, è questo
che ha permesso alle nuove generazioni libiche di crescere interiormente
e di apprendere gli strumenti della protesta e della rivolta. “La mia scelta
è netta, non voglio più vivere nella paura. I miei amici
tunisini ed egiziani ce l’hanno fatta e non posso essere solidale con loro
sulle pagine Internet e poi, quando arriva il mio turno, mi tiro indietro”,
ha scritto un ragazzo di 15 anni. Come lui sono migliaia in ogni città
della Libia ad aver disobbedito ai genitori e sfidato il regime. “Non è
stata né un’avventura né una fuga in avanti: i nostri ragazzi
ci
hanno regalato la libertà”, sostiene un papà fiero di
questa generazione, dopo la liberazione di Bengasi.
La rivolta del popolo libico è avvenuta sulla scia di quella
di due paesi vicini, Tunisia ed Egitto, doveva essere avviata il 17 febbraio,
perché le forze dell’opposizione all’estero avevano voluto che l’avvio
di una protesta di popolo coincidesse con il quinto anniversario di un
eccidio di manifestanti di Bengasi a opera della polizia avvenuto davanti
al consolato italiano (i manifestanti protestavano contro le “vignette
sataniche” esposte dal ministro leghista
Calderoli). Però due giorni prima di quest’appuntamento il giovane
avvocato Fethi Terbil, rappresentante delle famiglie dei 1.200 oppositori
vittime della strage del 26 giugno 1996 nel carcere di Abu Selim, era stato
arrestato. Quindi a Bengasi la protesta è stata anticipata al 15
febbraio. La dura repressione dei mercenari di Gheddafi ha portato tutto
il popolo della città a scendere in piazza, spazzando in pochi giorni
il regime. Migliaia di giovani e di giovanissimi hanno sfidato disarmati
le mitragliatrici anticarro. E sono loro ad aver dribblato la censura del
regime mandando al mondo e al popolo libico notizie, immagini e filmati
che documentano il massacro operato dal regime e generato la fiducia nel
popolo di un cambiamento possibile. Ma quale è stata la molla? Fondamentalmente
la disoccupazione,
l’allargamento della forbice di reddito tra i pochi ricchi e la maggioranza
di poveri. “Ci aveva rubato il futuro”, ha scritto un ragazzo in un post
su un network sociale. “La ricchezza del paese era nelle mani dei figli
di Gheddafi, che la sperperavano come volevano a pieni mani. I loro scandali
hanno riempito le cronache dei giornali di tutto il mondo. Ci hanno reso,
come libici, la barzelletta di tutta la gioventù araba. E noi qua
a morire di noia, senza lavoro dignitoso, che corrisponda al livello dei
nostri studi”. La Libia è un paese ricco ma i libici sono poveri.
I dati forniti dalla Banca Centrale del paese parlano chiaro: il 30% dei
giovani in età lavorativa è disoccupato, il 20% della popolazione
è sotto la soglia della povertà. Dati inauditi per un paese
con solo 6 milioni di abitanti e con risorse petrolifere e gas senza uguali
in tutta l’Africa. I suoi giovani sono nati e hanno vissuto sotto un regime
e non hanno avuto altre esperienze, ma le loro aspirazioni vanno al di
là dei confini del paese, guardano all’Europa e all’America, perché
le nuove tecnologie hanno abbattuto i confini nei quali erano rilegati.
Nella rete hanno respirato una libertà che nel
loro paese non c’era, essendo senza giornali indipendenti e con una
televisione di stato noiosa e senza alcuno spessore culturale.
I protagonisti di questa rivoluzione sono soprattutto i giovani ma
non solo loro. E’ la società civile libica, per tanti anni repressa,
a essersi svegliata: avvocati, giudici, professionisti e commercianti,
lavoratori e impiegati, che hanno tenuto bassa la testa per lungo tempo,
hanno detto basta alle angherie del regime. La rabbia covava sotto le ceneri,
e i suoi primi segnali sono stati proprio quelle manifestazioni di fronte
al Consolato italiano di cinque anni fa a Bengasi.
Il tiranno e suo figlio Seif Islam hanno tentato di accreditare, presso
i loro interlocutori occidentali, lo spauracchio dell’estremismo islamista.
Non c’è una menzogna più grande. Non c’è nessun emirato
islamico in Cirenaica e non c’è nessun pericolo di egemonia di Al
Qaida. In tutte le città liberate si sono tenute manifestazioni
di donne: che non erano velate. Del Consiglio Nazionale Provvisorio fanno
parte tre donne. Coloro che in Italia hanno fatto da megafono alle menzogne
di Gheddafi dovrebbero vergognarsi, hanno solo buttato fango. Si teme un
vuoto di potere. Non è così, perché un potere alternativo
è già in piena funzione in tutte le città liberate.
Nei tribunali cittadini, unici luoghi di un potere non corrotto, si
sono formati comitati provvisori di salute pubblica per la gestione della
vita amministrativa delle città. Si tratta di strutture volontarie.
Esse sopperiscono anche a tutte le mancanze che caratterizzavano il regime.
Giovani volontari distribuiscono bollettini con le notizie e le direttive
della nuova legalità. A Bengasi, per esempio, non solo è
stato ripreso il normale servizio del traffico ma vige anche una protezione
delle proprietà pubbliche, tramite gruppi di vigilanza volontari.
Il coordinamento di questi comitati sta realizzando il progetto di una
Costituzione, la prima dopo 42 anni, che
riconosca le libertà fondamentali e il pluralismo politico.
E’ un grido di libertà che sta cambiando il volto del paese. Non
è un processo guidato da un partito di sinistra, ma non credo che
sia questo il punto centrale. Le condizioni materiali che hanno portato
a questa primavera libica hanno in sé il germe del cambiamento sociale,
quindi saranno le stesse esperienze dei giovani e della popolazione libica
a determinare un cammino in senso progressista. Prima però dell’affermarsi
di un’idea e di una pratica di sinistra ci vorranno una serie di cambiamenti,
che affrontino le condizioni di vita della popolazione libica e i diritti
di cittadinanza dei milioni di lavoratori stranieri residenti nel paese
(sono circa il 25% della popolazione complessiva). A quest’ultimo proposito
va ricordato come la pratica del regime fosse improntata allo sfruttamento
in condizioni spessissimo di schiavitù di fatto dei lavoratori stranieri.
Il Gheddafi socialista, che alcuni anche a sinistra hanno
decantato e si ostinano a decantare, è una menzogna colossale.
Il “socialismo arabo” è stato un tentativo degli anni cinquanta
e sessanta operato dal nasserismo in Egitto e dal baathismo di Iraq e Siria.
Si è trattato di importanti esperienze operate da un blocco a egemonia
militare progressiva e moderatrice che andava dalla borghesia nazionale
alle classi popolari, che sono state anti-imperialiste nella prima fase
del loro svolgimento. Parimenti in Egitto, Iraq e Siria in quegli anni
i comunisti e i socialisti veri sono stati perseguitati e repressi. Quelle
esperienze hanno dato alcuni frutti positivi sul piano sociale, ma soltanto
nella prima fase. La tendenza verticistica dei poteri militari e la mancanza
di ogni loro legittimazione democratica, da una parte, e, dall’altra, l’attacco
subito dall’Egitto da parte di Gran
Bretagna, Francia e Israele (la “Guerra di Suez” nel 1956) o della
sola Israele per conto di tutto l’Occidente contro Egitto, Siria e Giordania
(la “Guerra dei sei giorni” del giugno 1967) hanno agevolato la trasformazione
di questi regimi in oligarchie che hanno sistematicamente operato contro
gli interessi popolari. Gheddafi arriva dopo, nel 1969. La “spinta propulsiva”,
per dirla alla Berlinguer, del golpe militare degli “ufficiali liberi”
finirà molto presto. Già nel 1973 non ne rimaneva più
nulla, era subentrata una spietata repressione generalizzata: le forche
all’Università di Bengasi, l’allontanamento dei compagni d’armi,
la cancellazione di ogni forma di opposizione, il divieto dei sindacati,
l’annullamento di ogni azione indipendente della società civile,
l’uccisione degli oppositori all’estero (l’Italia è stata
un teatro prediletto per azioni terroristiche di questo tipo), le operazioni
militari contro civili inermi che protestavano pacificamente contro le
folli volontà del tiranno (negli anni 80 e 90 a Derna e a Bengasi),
il massacro di Abu Selim sono soltanto esempi di un potere ridotto di fatto
alla famiglia di Gheddafi e a una piccola cerchia di seguaci. Parimenti
diffusione della corruzione, sperpero delle ricchezze del paese in operazioni
faraoniche e a favore di figli e favoriti, dominio totale dei servizi segreti
sulla vita quotidiana dei cittadini. Il regime non solo si è rivelato
estremamente brutale ma è stato anche incapace di costruire una
Libia moderna e di crearvi occupazione e prosperità per il popolo.
All’estero ha operato comperando l’appoggio di altri dittatori e attivando
insensate e perdenti guerre africane
(nell’Uganda, in Ciad, ecc.). Un impiegato libico percepisce l’equivalente
di 170 dollari al mese mentre uno degli stolti figli del tiranno ha speso
recentemente due milioni di dollari per lo spettacolo, durato una sola
ora, di una cantante statunitense, Beyoncé, in una discoteca di
Las Vegas. Di questo “socialismo”, inoltre, i libici hanno lo spettacolo
dei supermercati vuoti e di una noiosa e stupida burocrazia corrotta, simile
a quelle che tormentavano le giovani generazioni dell’est europeo. Non
è vero affatto, dunque, che Gheddafi rappresenti una continuazione
di quell’esperienza non-allineata e progressiva di Nasser. E’ importante
ricordare l’importanza di quell’esperienza, ridotta al silenzio dalle spietate
aggressioni imperialiste, che fu anche di rifiuto di schierarsi per forza
con uno dei due patti militari nel quale era diviso il mondo del secondo
dopoguerra. Nasser è morto povero e suo figlio non ha ereditato
nessun ruolo politico. In Libia invece abbiamo avuto il caso molto grave
di un clan che ha considerato la ricchezza petrolifera del paese come proprietà
privata e a che ha ridotto il potere jamahiriano, che voleva essere una
democrazia di popolo, in una monarchia che ha fatto ridere tutto il mondo.
Gheddafi ha sbandierato il vessillo dell’antimperialismo e dell’anticolonialismo,
ma sotto
il tavolo ha realizzato i suoi appetiti personali anche facendo accordi
che hanno esposto la Libia al saccheggio dei paesi ricchi. Considerare
Gheddafi come un appartenente al mondo progressivo dei non-allineati di
un tempo è quindi un errore grave di valutazione. Non bastano le
belle parole di Gheddafi a definire una situazione! Quel che conta nella
politica è ciò che si fa. Anch’io, e come me molti giovani
libici di allora, ho occupato il Consolato libico a Milano e ho distrutto
la gigantografia di re Idriss. Ma già nel 1973 l’Unione Generale
degli Studenti Libici, che guidavo, occupava l’Ambasciata libica a Roma
per protestare contro l’impiccagione nell’atrio dell’Università
di Bengasi, per di più senza che ci fosse stato un processo, di
studenti che chiedevano libertà e rappresentanza democratica. La
sinistra libica è stata cancellata con detenzioni e uccisioni, in
alcuni casi anche con l’acquisto delle coscienze.
Ciò inoltre è avvenuto nel più totale silenzio.
E’ stata anche colpa nostra, perché non siamo stati capaci di comunicare
e tessere relazioni e abbiamo svolto l’azione di opposizione in forme organizzative
frammentate. Ma anche le illusioni a sinistra hanno fatto la loro parte.
Nel dibattito oggi all’interno della sinistra italiana sulle
alleanze internazionali nel cosiddetto Terzo mondo c’è, ribaltando
la posizione enfatica precedente, un che di autolesionismo.
Il giudizio positivo che si dava di alcune esperienze dei paesi, come
la Libia, poi rivelatisi tirannie sanguinarie, non implica l’iconoclastia
e l’impossibilità di un ragionamento più attento. Come già
avvenne acquisendo una capacità critica nei confronti dei paesi
europei a “socialismo reale”, anche oggi è possibile prendere atto
del tradimento di una rivoluzione. Il giudizio positivo di un tempo aveva
le sue ragioni di contesto. La situazione attuale è un’altra, e
va riconosciuta per quel che è. Non credo sia lungimirante spargere
ceneri sulle nostre teste per errori di valutazione passati, occorre migliorare
le capacità di valutazione.
I libici sono consapevoli che il petrolio fa gola a molti. Per questo
sono contrari a ogni intervento militare dall’esterno sul terreno. L’opposizione
ha solo chiesto una No Fly Zone che impedisca l’uso dell’aviazione da parte
di un tiranno assassino. Gli uomini che formano il Governo provvisorio
di salute pubblica sono persone serie e fidate. Non sono né secessionisti
né fondamentalisti. L’intendimento democratico che li spinge a ribellarsi
al tiranno è fuori discussione. Non dar loro ascolto e credito sarebbe
un grave errore da parte della sinistra italiana e dell’Italia democratica
tutta.